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Autore: Studio Legale Berto

Termine impugnazione del testamento per incapacità del disponente: entro quando?

 

Quali sono e da quando decorrono i termini per l’impugnazione del testamento per incapacità del de cuius?

 

 

Per poter fare testamento occorre averne la capacità, come per tutte le cose.


Per capacità, tuttavia, in quest’ambito intendiamo:

maggiore età
– non essere stati interdetti
– essere capaci di intendere e di volere.


Su questa tematica ce siamo già soffermati – ecco qua il link – richiamando le disposizioni di cui all’art. 591 cc


Oggi ci soffermiamo a porre la nostra attenzione su quali siano i termini per l’impugnazione del testamento per incapacità.


Cinque anni.

L’articolo di legge che abbiamo indicato non dà margini di ambiguità ed è chiarissimo.

Il rimedio accordato è l’azione di annullamento, che comporta il ripristino della situazione ereditaria – successione legittima o eventualmente testamentaria, disposta con atto precedente – che si sarebbe creata se l’atto di ultime volontà, viziato, non fosse stato confezionato.


Il termine è stabilito per dare  certezza nei rapporti giuridici.

Trascorso tale determinato periodo di tempo, i diretti interessati dalla disposizione testamentaria, ma anche i terzi che da questi ne abbiano conseguiti diritti, debbono trovarsi nelle condizioni di non vedersi attaccabili nell’acquisto effettuato.

 

Impugnazione del testamento per incapacità

 


Più complesso è stabilire da quando decorra il termine per poter esercitare questo rimedio.


L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie”, recita l’articolo di legge.


La disposizione è vuoi generica, vuoi sibillina.


Inevitabilmente. Fosse stata più specifica e dettagliata, non avrebbe compreso tutte le situazioni non espressamente stabilite, lasciandone fuori di equipollenti o di non prevedibili, ma altrettanto bisognose di tutela.


Ci pensa la giurisprudenza a dare interpretazione alla legge e ad adattarla al caso concreto.


Ecco, allora, una recente Sentenza della Suprema Corte che ci dà qualche dettaglio in più.


Il casus belli riguardava la richiesta di annullamento di un testamento -, di cui ne era stata appurata la stesura da parte di disponente affetta da incapacità mentale al momento della redazione – proposta a risico, in bilico con lo spirare dei termini prescrizionali.


In prima fase, il Tribunale aveva accolto l’istanza volta ad elidere l’efficacia dell’atto di ultime volontà. La corte d’appello, in sede di impugnazione, confermava tale statuizione, che aveva determinato l’effetto di aprire la successione legittima.


La palla alla Cassazione, che è andata ad esaminare attentamente da quali circostanze, nel caso concreto, era stata determinata la decorrenza del termine di prescrizione.


In particolare, era pacifico che uan delle beneficiarie del testamento impugnato avesse riscosso, fin dall’apertura della successione, i canoni di locazione di un immobile facente parte dei beni caduti in eredità, circostanza – questa – non ritenuta dai giudicati precedenti come “indizio inequivoco della volontà di disporre a titolo esclusivo dei beni ereditari” e conseguentemente “di dare attuazione alle disposizioni testamentarie, in quanto semmai costitutiva in un’attività amministrazione della comune compendio ereditario (per effetto della successione nel contratto di locazione di tutti gli eredi)”.


Ebbene, gli ermellini hanno sottolineato come “per esecuzione del testamento, deve intendersi un’attività diretta alla concreta realizzazione della volontà del testatore come la consegna o l’impossessamento dei beni ereditati o la proposizione delle azioni giudiziarie occorrenti a tale scopo, con la conseguenza che non valgono a far decorrere il detto termine nè la pubblicazione del testamento olografo, che è atto anteriore e soltanto preparatorio alla sua effettiva esecuzione, nè la presentazione della denuncia di successione ed il pagamento dell’imposta, che costituiscono atti dovuti, volti ad evitare conseguenze sfavorevoli alla massa ereditaria”.

 

 

termine impugnazione testamento per incapacità
termine impugnazione testamento per incapacità dalla data di esecuzione delle disposizioni di ultima volontà


Conseguentemente, l’attività di riscossione da parte di un erede dei canoni relativi all’immobile già locato dal testatore costituiva indubbia esecuzione delle relative disposizioni di ultima volontà, dando concreto seguito alla condotta gestionale seguita dalla de cuius, (tra l’altro percependo i relativi frutti come propri), e a nulla rilevando che non fossero intercorsi – in tale contesto – altri atti da cui rinvenire la condotta richiesta dalla legge, in quanto un’esecuzione, seppure parziale, era già idonea a produrre gli effetti prescrittivi indicati.


La Suprema Corte, per inciso, ha sottolineato come il termine prescrizionale – nel caso in cui ci siano più eredi – decorra dal giorno in cui sia stata data, anche da uno soltanto dei chiamati all’eredità, esecuzione alle disposizioni testamentarie, dovendosi tutelare in questo modo le esigenze di certezza nell’acquisizione dei rapporti giuridici, anche dei terzi, risultando altrimenti oltremodo indefinita la qualifica di eredi dei soggetti indicati nel testamento.


Su tali presupposti, è stata cassata la pronuncia che aveva accolto l’azione di annullamento, ritenendola intempestiva, dovendosi far decorrere i termini prescrizionali in data anteriore, sfavorevole al ricorrente che aveva impugnato il testamento, con sua buona pace.

 

 

 

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Nessuna lista d’attesa per l’assistenza a persona con disabilità

 

 

 

Lista d’attesa assistenza a persone con disabilità: nessuna graduatoria subordinata a vincoli di bilancio.

 

 

 

Ringraziamo la Collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1 del 02.01.2020 ) ha affermato che l’assistenza a persone con disabilità non può essere fatta dipendere né dalle risorse finanziarie disponibili, né dai posti presso le strutture semiresidenziali”.


Tale pronuncia segue la sentenza n. 8254/2011 con la quale la Corte di Cassazione  ha evidenziato che “a nessuno è consentito di anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute, né diramare direttive che pongano in secondo piano le esigenze dell’ammalato”.


E ancora la sentenza n. 275/2016  con la quale la Corte Costituzionale ha stabilito che “è la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionare la doverosa erogazione”.


La sentenza riguarda un minore con disabilità che, a causa dell’aggravarsi delle proprie condizioni, non era più in grado di frequentare la scuola.


I genitori, quindi, hanno chiesto alla competente azienda sanitaria l’inserimento in un centro diurno, come suggerito del resto dagli specialisti che da tempo seguivano il ragazzo.


L’ULSS rispondeva che non era possibile procedere ad un inserimento a tempo pieno, in quanto non collocato in posizione utile nella graduatoria.


In particolare, secondo l’Azienda sanitaria, suo obbligo era quello di “garantire i livelli essenziali di assistenza socio sanitaria nel rispetto dei vincoli di bilancio assegnati annualmente dalla Regione e dalla Conferenza dei Sindaci”.

 

 

 

lista attesa assistenza disabili

 

 


Nell’attesa dello scorrimento della graduatoria il ragazzo veniva, quindi, inserito in un centro diurno a tempo parziale con spese pagate dalla famiglia e parzialmente rimborsate dall’ULSS con un voucher della Regione Veneto di 700,00 euro mensili.


I genitori presentavano un ricorso al TAR per il Veneto contro il mancato inserimento nel centro diurno, chiedendo altresì il risarcimento dei danni.


A seguito della presentazione del ricorso da parte dei genitori del ragazzo contro il mancato inserimento nel centro diurno,il ragazzo veniva inserito in un centro diurno a tempo pieno nel luglio del 2018.


Se in primo grado il TAR aveva accolto  le ragioni dell’azienda sanitaria sostenendo che anche il diritto alla salute debba essere bilanciato e contemperato con altri beni di rilevanza costituzionale (come in questo caso l’equilibrio del bilancio pubblico), in sede di appello la situazione  è stata stravolta.


Il Consiglio di Stato, infatti, in linea con quanto già affermato con la sentenza n. 842/2016, viene ad affermare l’illegittimità del provvedimento impugnato “poiché l’interessato è stato privato fino a luglio 2018 di quel grado di assistenza socio sanitaria a cui aveva diritto al fine di consentirne un adeguato sviluppo educativo, di socializzazione, di occupazione, di costruzione della sua condizione di autonomia, tenuto conto delle sue gravi condizioni”.

 

 

 lista d'attesa assistenza persona con disabilità
lista d’attesa assistenza persone con disabilità: i livelli essenziali di assistenza non sono subordinati a vincoli di bilancio

 

 


Le norme a tutela delle persone con disabilità, infatti, nell’ambito di un quadro costituzionale che impone alle Istituzioni di favorire lo sviluppo della personalità, risultano essenziali al sostegno delle famiglie e alla sicurezza e al benessere della società nel suo complesso, poiché evitano la solitudine, l’isolamento, nonché i costi che ne derivano, in termini umani ed economici, potenzialmente insostenibili per le famiglie.

L’inserimento e l’integrazione sociale rivestono fondamentale importanza per la società nel suo complesso perché rendono possibili il recupero e la socializzazione.


Il principio dell’equilibrio di bilancio in materia sanitaria non può essere invocato in astratto dall’azienda sanitaria dovendo, invece, essere dimostrato concretamente come impeditivo, nel singolo caso, all’erogazione delle prestazioni e, comunque, nel caso in cui la disabilità dovesse comportare esigenze terapeutiche indifferibili, il nucleo essenziale del diritto alla salute deve essere salvaguardato (Corte costituzionale n. 304 del 15 luglio 1994)”


Nel caso in esame, preme evidenziare, che l’Azienda sanitaria non aveva concretamente dimostrato di non avere risorse disponibili “nel periodo ottobre 2017/luglio 2018 per l’assolvimento dell’obbligo di prestazione nei confronti del disabile né di essersi adoperato in ogni modo per trovarle o reperire ulteriori risorse finanziarie”. 

Secondo il Consiglio di Stato, quindi, una volta individuate le necessità delle persone con disabilità tramite il Piano individualizzato, “l’attuazione del dovere di rendere il servizio comporta l’attivazione dei poteri -doveri di elaborare tempestivamente le proposte relative all’individuazione delle risorse necessarie a coprire il fabbisogno e, comunque, l’attivazione di ogni possibile soluzione organizzativa”.


Per questo il diniego dell’Asl deve ritenersi illegittimo e fondata la domanda di risarcimento del danno derivato “sussistendo i profili di colpa evidenziati nella gestione dei poteri organizzativi per il reperimento delle risorse atte a dare adeguata assistenza al disabile nel periodo ottobre 2017/luglio 2018”.

 

 

 

 

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Impugnazione mobilità scolastica in base ad algoritmi.

Impugnazione mobilità scolastica in base ad algoritmi. Conoscibilità e trasparenza sono ineludibili.

 

Recentemente il Consiglio di Stato, nella sentenza 4 febbraio 2020 n. 881, ha affrontato il caso di alcuni insegnanti che avevano impugnato una procedura nazionale di mobilità che era stata svolta sulla base di un algoritmo non conosciuto e che non era correttamente funzionato.

In particolare, l’algoritmo aveva disposto i trasferimenti senza tener conto delle preferenze espresse, pur in presenza di posti disponibili nelle province indicate. In sostanza, il meccanismo straordinario di mobilità si era rivelato pregiudizievole per alcuni docenti, i quali erano stati trasferiti in province più lontane da quella di propria residenza o quella comunque scelta con priorità in sede di partecipazione alla procedura, benché in tali province di elezione fossero disponibili svariati  posti.

Il Consiglio di Stato ha osservato che, nel caso dell’utilizzo di strumenti digitali, ci si trova dinanzi ad una situazione che, in sede dottrinaria, è stata efficacemente qualificata con l’espressione di rivoluzione 4.0, la quale, riferita all’amministrazione pubblica e alla sua attività, descrive la possibilità che il procedimento di formazione della decisione amministrativa sia affidato a un software, nel quale vengono immessi una serie di dati così da giungere, attraverso l’automazione della procedura, alla decisione finale.

 

impugnazione-mobilità-scolastica-tramite-algoritm

 

In proposito, il giudice amministrativo ha rilevato che l’utilità di tale modalità operativa di gestione dell’interesse pubblico è particolarmente evidente con riferimento a procedure, come quella oggetto del presente contenzioso, seriali o standardizzate, implicanti l’elaborazione di ingenti quantità di istanze e caratterizzate dall’acquisizione di dati certi ed oggettivamente comprovabili e dall’assenza di ogni apprezzamento discrezionale

Però, osserva sempre il Consiglio di Stato, l’utilizzo di procedure informatizzate non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa

In tale contesto, premessa la generale ammissibilità di tali strumenti, assumono rilievo fondamentale due aspetti preminenti, quali elementi di minima garanzia per ogni ipotesi di utilizzo di algoritmi in sede decisoria pubblica:

a) la piena conoscibilità a monte del modulo utilizzato e dei criteri applicati;

b) l’imputabilità della decisione all’organo titolare del potere, il quale deve poter svolgere la necessaria verifica di logicità e legittimità della scelta e degli esiti affidati all’algoritmo.

Sul versante della piena conoscibilità, rilievo preminente ha il principio della trasparenza: ciò significa che il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”.

 

mobilità scolastica algoritmi
Impugnazione mobilità scolastica in base ad algoritmi: trasparenza, conoscibilità e verifica

 

La conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. Ciò al fine di poter verificare che i criteri, i presupposti e gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali essosia stato impostato

Sul versante della verifica degli esiti e della relativa imputabilità, deve essere garantita la verifica a valle, in termini di logicità e di correttezza degli esiti. Ciò a garanzia dell’imputabilità della scelta al titolare del potere autoritativo, individuato in base al principio di legalità, nonché della verifica circa la conseguente individuazione del soggetto responsabile, sia nell’interesse della stessa p.a. che dei soggetti coinvolti ed incisi dall’azione amministrativa affidata all’algoritmo

Sulla scorta delle argomentazioni sin qui svolte, il Consiglio di Stato ha alla fine sentenziato che, nel caso di specie, l’algoritmo non risulta essere stato utilizzato in termini conformi ai principi predetti, anche in considerazione del fatto che non è dato comprendere per quale ragione le legittime aspettative di soggetti collocati in una determinata posizione in graduatoria siano andate deluse.

 

 

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Impugnazione mobilità scolastica in base ad algoritmi.

Restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti: sì se non ha funzione alimentare

 

La Cassazione si pronuncia sulla restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti: sì, anche senza modifica delle condizioni di separazione o divorzio.

 

Calogero ed Assunta divorziano.


Hanno due figlie e per esse il Tribunale statuisce che il padre debba versare alla madre, presso la quale saranno collocate con prevalenza, un contributo al mantenimento di € 400 mensili, fino al compimento degli studi universitari.


Passano gli anni, le figlie non solo si laureano, ma anche convolano entrambe a giuste nozze.


A quel punto, Calogero cita in giudizio Assunta affinchè venga dichiarata non solo e non tanto la cessazione del suo obbligo di corrispondere all’ex moglie l’assegno di mantenimento delle figlie, ma anche che la stessa venga condannata alla restituzione degli importi nel frattempo percepiti dall’ex marito, in quanto non dovuti, almeno dal momento in cui le figlie si erano sposate, acquisendo pacificamente l’indipendenza economica.


Il tribunale, prima, e la Corte d’appello, poi, accogliendo l’istanza volta alla declaratoria di cessazione dell’obbligo contributivo, hanno entrambi rigettato quella di rimborso delle somme medio tempore corrisposte dal padre, sul presupposto che l’impegno economico di questi fosse venuto meno solamente con la relativa pronuncia che ne aveva statuito la conclusione e non, pertanto, retroattivamente, dal compimento degli studi o dalle nozze delle figlie, come richiesto da Calogero.


Per conseguire un tale risultato egli avrebbe dovuto muoversi allora, quando se ne erano verificati i presupposti, e non ad anni di distanza, in quanto gli importi corrisposti trovavano titolo in un provvedimento giudiziale che rimaneva valido fino ad altro che lo modificasse o lo facesse venir meno.

 

 

restituzione mantenimento figli maggiorenni

 


Cosa hanno statuito gli ermellini in ordine alla restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti?


Per capirlo appieno occorre fare un passo indietro, rispolverando qualche informazione che avevamo avuto modo già in precedenza (link 1, 23, 4, 56) di analizzare ed introducendone altra, preziosa per il tema odierno.


Fino a quando debbono essere mantenuti i figli maggiorenni?


Il compimento della maggiore età non esenta l’obbligo che  hanno i genitori, in forza delle precise disposizioni di legge (art. 147 cc) di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni.


Si dovrà mantener fede a tali obblighi fino a quando il figlio, sia pur divenuto maggiorenne, non abbia acquisito una stabile indipendenza economica (da intendersi quale reperimento di uno stabile lavoro che gli consenta un tenore di vita adeguato e dignitoso) ovvero sia stato posto nelle concrete condizioni per essere autosufficiente e, ciò nondimeno, pur potendo, non si sia attivato almeno per la ricerca seria e concreta di un lavoro.


I criteri da tenere in considerazione per imporre il mantenimento dei figli maggiorenni si sono via via elasticizzati nell’individuazione del limite di età adottato come d-day per la contribuzione.


Alcune recenti pronunce del Tribunale di Milano, ad esempio, hanno rinvenuto nei 34 anni il limite “tollerabile”, tenuto conto che “nell’attuale momento economico ed alla stregua dell’ “id quod plerumque accidit” si deve riconoscere una certa inerzia nella maturazione che porta all’indipendenza dei giovani ragazzi“.


Un’inerzia colpevole dei discendenti nel reperire una stabile e congrua occupazione che li affranchi dai genitori potrebbe comportare la perdita del diritto assistenziale da parte di questi ultimi.


Si sottolinea che, una volta divenuti autosufficienti, non vi sarà possibilità di ripristinare il diritto al mantenimento genitoriale per i figli che abbiano poi perso l’impiego, dovendosi contemperare le esigenze dei rampolli – tutelati fino al momento in cui spiccano il volo – e dei genitori, che non dovranno essere obbligati a far fronte per sempre alle vicissitudini della prole, divenuta ormai grande abbastanza per cavarsela autonomamente.


E fin qua ci siamo.


Ma una volta divenuti indipendenti, che ne sarà delle statuizioni economiche stabilite in sede di separazione o divorzio relative al mantenimento della prole?

 

assegno mantenimento figli autosufficienti

 


I genitori potranno senz’altro chiederne la modifica adendo il giudice competente per i provvedimenti del caso.


E se la richiesta dovesse essere avanzata dopo molto tempo dal verificarsi delle condizioni che la legittimano? Vuoi perchè i genitori sono restiii ad agitare iniziative giudiziarie o semplicemente dormono sul pero e rimangono inerti? È possibile chiedere la restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti?


La Suprema Corte, (pronuncia 3659/2020) nel rispondere a tale quesito, richiama una norma di legge – l’art. 2033 cc – che riconosce il diritto per chi abbia eseguito un pagamento non dovuto di chiedere la restituzione di ciò che ha pagato.


Il percorso seguito dagli ermellini è stato il seguente: le somme versate dal padre Calogero per il mantenimento delle figlie erano dovute? La risposta è stata negativa, almeno a far data del compimento degli studi (termine finale convenuto in sede di divorzio per la cessazione dell’obbligo contributivo), ma anche dal giorno delle nozze, con le quali – ormai indipendenti – avevano instaurato una nuova famiglia e ad esse avrebbero dovuto provvedere i mariti, come obbligazione all’assistenza materiale nascente dal matrimonio.


Non coglieva nel segno l’obiezione dei giudicanti precedenti che sottolineavano come gli assegni di mantenimento non fossero “non dovuti”, in quanto trovavano pur legittimazione in un precedente provvedimento giudiziale che manteneva vigore fino alla sua modifica.


Il precetto di cui all’art. 2033 cc, infatti, ha portata generale e “si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa”. “Spetta al giudice” -come nel caso di specie – “cui sia proposta la domanda restitutoria di indebito di valutarne la fondatezza, in relazione alla sopravvenienza di eventi successivi che hanno messo nel nulla la causa originaria giustificativa dell’obbligo di pagamento”.


Una precisazione, importante/importantissima.


E’ principio diffuso e consolidato in giurisprudenza quello che stabilisce l’irripetibilità delle somme alimentari, ossia di quanto sia stato corrisposto in ossequio ad un onere di non far mancare lo stretto necessario per vivere a chi si trovi in stato di bisogno e non sia in grado di rimediarvi.

 

 

mantenimento figli maggiorenni
Restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti: sì se non ha avuto funzione alimentare

 


Sulla scorta di tale fondamento, numerosissime pronunce hanno rigettato la richiesta di restituzione di quanto versato, ad esempio, dal coniuge tenuto a corrispondere un assegno di mantenimento all’altro consorte in base ad un provvedimento presidenziale (separativo o divorzile) poi modificato.


La motivazione risiedeva nella natura in buona parte alimentare dell’assegno e nella sua funzione: quella di assicurare i mezzi adeguati al sostentamento del beneficiario, il quale non è tenuto ad accantonarne una parte in previsione dell’eventuale riduzione ma possa normalmente consumarla per adempiere a tale loro destinazione.


Con la decisione in commento, la Suprema Corte effettua un’ulteriore considerazione.


L’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato si giustifica solo “ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noti il rischio restitutorio”.


I generali principi di irrepetibilità, impignorabilità e non compensabilità delle prestazioni alimentari, infatti, non operano indiscriminatamente, ma implicano che in concreto gli importi riscossi per questo titolo abbiano assunto o comunque abbiano potuto assumere analoga funzione alimentare, il che non può in linea di principio evincersi nel caso in cui la loro dazione comporti beneficio finale a favore di chi sia già economicamente autonomo ed in cui l’accertamento di tale sopravvenuta circostanza estintiva dell’obbligo di mantenimento di un genitore sia giudizialmente controverso nel procedimento di revisione pendente nei confronti dell’altro genitore abilitato a riscuotere la contribuzione e per il quale tale procedura comporta anche la conoscenza del correlato rischio restitutorio delle somme percepite dalla domanda introduttiva, se accolta.

 

 

 

 

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Licenziamento docenti con diploma magistrale: niente inserimento nelle graduatorie ad esaurimento (GAE)

Licenziamento docenti con diploma magistrale: niente inserimento nelle graduatorie ad esaurimento (GAE)

 

 

In questo periodo purtroppo si sta assistendo ad una serie di licenziamenti nel mondo della scuola che sono conseguenza di una decisione del Consiglio di Stato risalente al 2017.

 

Come riportato sui giornali, le ripercussioni della Sentenza avrebbero già investito mille docenti con diploma magistrale a Vicenza e nel vicentino.

 

L’ adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 11 del 2017, ha statuito che il diploma magistrale conseguito prima del 2002 non abilita all’inserimento nelle GAE

Secondo il giudice amministrativo nel nostro ordinamento “manca una norma che riconosca il diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002 come titolo legittimante l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento“.

 

 

licenziamento docenti con diploma magistrale
Licenziamento docenti con diploma magistrale: le conseguenze della Sentenza del Consiglio di Stato

 

In particolare, il Consiglio di Stato ha osservato che la riforma di cui all’art. 3 della legge 341 del 1990 non solo “ha previsto livelli di qualificazione differenziata per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola primaria e nella scuola secondaria, ma, con riferimento specifico alla formazione culturale e professionale degli insegnanti della scuola materna ed elementare, ha ritenuto di non poter prescindere da una formazione universitaria“.

Nell’ambito di tale riforma,  si istituirono due corsi di laurea per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria, con efficacia abilitante (che contestualmente fu esclusa con riguardo ai diplomi magistrali rilasciati successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina).

Con decreto interministeriale 10 marzo 1997, recante “Norme transitorie per il passaggio al sistema di formazione universitaria degli insegnanti della scuola materna ed elementare, previste dall’articolo 3, comma 8 della legge 19 novembre 1990, n. 341” è stato previsto un apposito regime transitorio per il passaggio al sistema di formazione universitaria degli insegnanti della scuola materna ed elementare.

Il regime transitorio prevedeva la salvaguardia dei titoli di studio acquisiti, stabilendo che “i titoli di studio conseguiti al termine dei corsi triennali e quinquennali sperimentali di scuola magistrale e dei corsi quadriennali e quinquennali sperimentali dell’istituto magistrale, iniziati entro l’anno scolastico 1997-1998, o comunque conseguiti entro l’a.s. 2001-2002, conservano in via permanente l’attuale valore legale e consentono di partecipare alle sessioni di abilitazione all’insegnamento nella scuola materna, previste dall’art. 9, comma 2, della citata legge n. 444 del 1968, nonché ai concorsi ordinari per titoli e per esami a posti di insegnante nella scuola materna e nella scuola elementare, secondo quanto previsto dagli articoli 399 e seguenti del citato decreto legislativo n. 297 del 1994” (articolo 2 del citato decreto interministeriale).

 

licenziamento insegnanti con diploma magistrale

 

Secondo il Consiglio di Stato, tale norma “esprime con chiarezza qual è il valore legale del titolo di diploma magistrale conservato in via permanente: il diploma magistrale, se conseguito entro l’a.s. 2001/2002, rimane titolo di studio idoneo a consentire la partecipazione alle sessioni di abilitazione all’insegnamento o ai concorsi per titoli ed esame a posti di insegnamento, ma di per sé non consente l’immediato accesso ai ruoli. Il valore legale conservato in via permanente, quindi, si esaurisce nella possibilità di partecipare alle sessioni di abilitazioni o ai concorsi, dovendo leggersi la l’espressione “conservano in via permanente l’attuale valore legale e consentono di partecipare […]” in senso necessariamente complementare e coordinato“.

Ciò implica” – sempre secondo il giudice amministrativo – “che il valore legale del diploma magistrale può essere riconosciuto solo nei limiti previsti dalla disciplina transitoria in esame, ossia in via “strumentale”, nel senso, come si è chiarito, di consentire a coloro che lo hanno conseguito entro l’a.s. 2001/2002 di partecipare alle sessioni di abilitazioni o ai concorsi pur se privi del diploma di laurea nel frattempo istituito dal legislatore“.

 

 

 

 

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Addebito separazione e assegno divorzile

 


Addebito separazione e assegno divorzile: quali effetti e quali preclusioni?

 

Andiamo dritti al punto: quali sono i riflessi che la pronuncia separativa può comportare sull’assegno divorzile?


Diversi sono i presupposti tra le due pronunce, anche se vi è un comune denominatore: la mancanza di mezzi adeguati del coniuge richiedente.

In caso di separazione vi è ancora un vincolo coniugale che resta in piedi (e per tale motivo i “redditi adeguati” cui va rapportato l’assegno di mantenimento sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio).


Col divorzio è proprio lo scioglimento del rapporto che determina la possibilità per il giudice di disporre la corresponsione di un assegno.


Possiamo affermare che il diritto all’assegno di separazione viene a cessare con la pronuncia divorzile, che ha basi diverse.


La giurisprudenza è granitica nell’osservare come non vi sia alcun automatismo tra riconoscimento dell’assegno di mantenimento e quello divorzile.


La determinazione dell’assegno di divorzio, infatti, è “indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti e in virtù di decisione giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi, atteso che l’assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento del matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti operanti nel regime di convivenza e di separazione e costituisce effetto diretto della pronuncia di divorzio” (Trib. Monza 25.01.2010).

 

addebito separazione

 


L’approdo è meno certo e consolidato quando si faccia riferimento alle conseguenze che la pronuncia di addebito possa avere non già e non tanto sulle statuizioni patrimoniali in sede separativa, quanto sulle condizioni divorzili.


Cosa dice la legge?


Non vi è un’espressa disciplina al riguardo.


L’art. 5 della legge sul divorzio stabilisce che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento….del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto …delle ragioni della decisione… dispone l’obbligo per un coniuge” di somministrare all’altro un assegno.


Un paradigma piuttosto vago e di non univoca applicazione.


Qui si aprono due orizzonti interpretativi.


Uno più recente, ma meno autorevole, che viene a leggere l’inciso “ragioni della decisione” parafrasandolo come causa del fallimento matrimoniale e conseguente impossibilità al ripristino della comunione materiale e spirituale tra i coniugi.


Ecco, allora, che l’eventuale violazione degli obblighi matrimoniali, accertata in sede di separazione con pronuncia di addebito, può essere una chiave di lettura della menzione di legge alle “ragioni della decisione” per la statuizione o meno dell’obbligo contributivo.


Fermo infatti che non può tenersi conto delle vicende successive alla separazione …. le condotte anteriori, tenute nel corso della vita matrimoniale, possono essere valutate, quali “ragioni della decisione”:

a) se, in quanto integranti violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, siano alla base di una pronuncia di addebito della separazione, abbiano cioè costituito motivi di addebito

b) se tali motivi siano anche le cause che ostano alla ricostituzione della comunione tra i coniugi, ex art. 1 L. div., giustificando, quindi, la pronuncia di divorzio” (Corte d’Appello Napoli, 10/01/2019).


Di contro, va segnalato un diverso orientamento – più risalente ma fatto proprio dalla Suprema Corte – che non attribuisce alcuna efficacia preclusiva all’eventuale addebito della separazione per ciò che concerne la statuizione dell’assegno divorzile, bensì solamente lo ascrive a circostanza da tenere in considerazione per determinarne l’ammontare.

 

assegno divorzile addebito
Addebito separazione e assegno divorzile: l’incidenza sulle “ragioni della decisione”

 


“ Nel giudizio di divorzio il riconoscimento dell’assegno non è precluso … dall’addebito della separazione, che può incidere soltanto sulla misura dell’assegno, per effetto della valutazione demandata al giudice di merito in ordine alle cause del venir meno della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi”. (Cass. Civ. 18539/13)


Infatti, una volta stabilita la spettanza in astratto dell’assegno divorzile, per non essere il coniuge richiedente in grado, per ragioni oggettive, di godere di mezzi adeguati, il giudice dovrebbe poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5 (ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno od a quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione – ma non di automatica esclusione – della somma considerabile in astratto.


In buona sostanza, “le ragioni della decisione”, intese con riferimento ai comportamenti che hanno cagionato il fallimento dell’unione, costituiscono uno dei parametri per la liquidazione dell’importo dovuto.


La valutazione di tali elementi, da effettuarsi anche in rapporto alla durata del vincolo, rappresenta infatti una fase ulteriore rispetto a quella del riconoscimento del diritto all’assegno, ed agisce ordinariamente come fattore di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, potendo valere ad azzerarla soltanto in ipotesi estreme”.

 

 

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Addebito separazione e assegno divorzile

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Asilo nido e disabilità

Asilo nido e disabilità.

 

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

L’integrazione scolastica è fondamentale per lo sviluppo delle potenzialità della persona con handicap nell’ apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione.


Da quanto detto ne deriva che è diritto del bambino con disabilità, anche nella fascia d’età da 0 a 3 anni, ad essere inserito all’asilo nido data l’importante valenza educativa e formativo di questo servizio.

Se in passato l’asilo nido veniva considerato solo come un momento di socializzazione prima dell’ingresso della scuola elementare, oggi siamo tutti convinti della sua importanza e valore pedagogico.


La legge n. 517 del 04.08.1977, oltre ad abolire le classi differenziali per gli alunni cd. “svantaggiati”, viene ad indicare gli strumenti utili all’integrazione così da consentire a tutti gli alunni con handicap di avere accesso alle scuole elementari ed alle scuole medie inferiori, quali:

• La presenza di classi costituite da un massimo di 20 alunni;

• La presenza di insegnanti di sostegno specializzati;

• Il sostegno specialistico da parte degli enti locali e dello Stato.

 

Persona con disabilità asilo nido
Asilo nido e disabilità: ai comuni spettano i programmi di integrazione

 


Con l’approvazione della Legge n. 104/1992, all’art. 12, si vengono finalmente a riconoscere le finalità educative e formative degli asili nido sancendo il diritto all’educazione e all’istruzione del bambino con disabilità anche nella fascia di età da 0 a 3 anni.


Più precisamente, la Legge n.104/92, individua l’integrazione scolastica come passaggio fondamentale per lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione.


A tale scopo, nei casi di maggiore gravità, è la legge stessa a stabilire “priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”.


Questo, in parole povere, significa che i minori con disabilità grave hanno diritto di priorità di accesso agli asili nido.


La legge stabilisce inoltre che gli enti locali e le ASL debbano provvedere all’adeguamento dell’organizzazione e del funzionamento degli asili nido alle esigenze dei bambini con disabilità, al fine di avviarne la socializzazione e l’integrazione, anche con il supporto di operatori, assistenti e personale docente specializzato.


È compito dei Comuni, quindi, provvedere alla costituzione di asili nido che perseguano le finalità inclusive del sistema formativo, mettendo al centro le esigenze di integrazione di tutti i bambini, nelle particolari ed individuali specificità.


Chiarito che l’inserimento all’asilo nido del bambino con disabilità deve essere garantito dal Comune che eroga il servizio, veniamo a concentraci sul costo di tale servizio.


Da più parti, si sente sostenere il diritto alla gratuità di tale frequenza.


Non è possibile dare una risposta


L’eventuale riduzione o esenzione dal pagamento della retta, infatti, sono oggetto di disciplina dei singoli comuni che, di regola, stabiliscono il tetto, le scadenze e altri parametri.


Di norma, per i bambini con disabilità, i Comuni sono tenuti, come visto, a prevedere la priorità nelle graduatorie nell’accesso al nido mente il pagamento della retta mensile dipenderà dall’Isee non essendo, in assoluto, dipendente dalla disabilità.

 

 

 

 

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Asilo nido e disabilità

Mancata accettazione dell’eredità: l’amministrazione dei beni ereditari durante la giacenza.

 

Mancata accettazione dell’eredità. La gestione del patrimonio ereditario durante il termine per accettare.

 

 

Con la morte di una persona si “apre la successione”, ossia il (più o meno) complesso iter di subentro di un soggetto ad un altro nella sua situazione giuridico-patrimoniale.


Dal momento della morte decorrono una serie di termini che la legge fissa relativamente a possibili attività collegate al fenomeno successorio: tra questi – ma ve ne sono molti altri – vi è il termine per accettare l’eredità, che si prescrive in 10 anni dall’apertura della successione. (art. 480 cc). 


Sulle possibili modalità di accettazione o rinuncia all’eredità ci siamo soffermati in altri articoli ( 1).


Tali attività sono rilevanti, non solo per il materiale consolidamento della successione nei rapporti giuridici dal de cuius all’erede, con l’accettazione, ma anche per l’individuazione di eventuali ulteriori successibili, con la rinuncia.


Riepiloghiamo per arrivare al nocciolo della questione che oggi ci interessa:


dall’apertura della successione (morte del de cuius) il chiamato all’eredità (ossia il potenziale erede legittimo o testamentario) ha dieci anni di tempo per accettare, trascorsi i quali perde tale diritto. Se accetta diviene in tutto e per tutto erede, se rinuncia altri al posto suo saranno individuati con criteri che la legge espressamente disciplina.


Dieci anni.


Gli altri possibili eredi, ossia gli ulteriori chiamati che diventerebbero eredi se il primo chiamato non accettasse, potrebbero rimanere sulla graticola per un periodo non indifferente.

 

eredità giacente


Non solo.


E che ne sarebbe dei beni ereditari (e anche dei crediti e debiti ereditari) in tutto questo tempo che il chiamato può darsi per accettare?


Al primo quesito rispondiamo: azione interrogatoria.


Si tratta di un rimedio giudiziale che la legge (art. 481 cc) ha individuato per eliminare lo stallo conseguente al protrarsi nel tempo della scelta per il chiamato all’eredità di accettarla o meno.


E così, “Chiunque vi ha interesse può chiedere che l’autorità giudiziaria fissi un termine entro il quale il chiamato dichiari se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accettare”.


Si tratta, in buona sostanza, di un rimedio volto ad abbreviare il termine decennale su iniziativa di chi vi abbia interesse, tramite un provvedimento giudiziale.


Sarà il giudice a valutare se chi eserciti tale azione vi abbia interesse o meno.

Generalmente possono praticarla sia i chiamati ulteriori (che, si noti e non è indifferente, incorrono nella prescrizione ad accettare l’eredità nel medesimo termine fissato per il primo chiamato: dieci anni dalla morte del de cuius, non già dal verificarsi del loro possibile subentro), sia eventuali creditori, tanto del defunto quanto del possibile erede, sia i legatari, che proprio dall’erede potrebbero percepire il lascito particolare loro effettuato.

 

azione interrogatoria


L‘istanza per la fissazione del termine deve essere proposta con ricorso al tribunale dove si è aperta la successione (ultimo domicilio del de cuius), il quale stabilirà la data entro la quale il chiamato debba effettuare l’eventuale accettazione.


Quest’ultimo potrà accettare anche con beneficio d’inventario (link) entro il medesimo termine, eventualmente potrà chiedere una proroga se dovesse essere insufficiente per espletare tale formalità.


Per inciso, il chiamato non deve trovarsi nel possesso dei beni ereditari, altrimenti la legge stabilisce che decorsi tre mesi dall’apertura della successione senza che questi abbia chiesto l’inventario, si considererà erede puro e semplice.


Ove questi non si pronunci nel termine assegnato dal Tribunale decadrà dal diritto di accettare e vi sarà la delazione ad altri chiamati ulteriori.


E nel caso di mancata accettazione dell’eredità senza che sia stata esercitata alcuna azione d’impulso da parte di possibili interessati, che ne sarà delle sorti dei beni ereditari, dei crediti da riscuotere, dei debiti da pagare durante l’inerzia del chiamato?

 


Anche questa ipotesi è stata prevista dal codice civile (art 528 cc ) che la denomina “eredità giacente” ed occupa lo spazio temporale intercorrente dalla morte del de cuius all’eventuale accettazione (o prescrizione del diritto di accettare).


Il tribunale su istanza delle persone interessate o d’ufficio, potrà nominare un curatore dell’eredità.


Il decreto di nomina dovrà essere iscritto nel registro delle successioni per rendere nota la circostanza.


Quali sono gli obblighi del curatore.


Innanzitutto, egli dovrà operare l’inventario dell’eredità, attivo e passivo, così da cristallizzare la situazione patrimoniale giacente.


Successivamente, il curatore dovrà prendere possesso dei beni ereditari, esercitando – se del caso – le dovute azioni possessorie a loro tutela.


La presa in possesso dei beni ereditari è strumentale all’amministrazione dei medesimi da parte sua, tanto ordinaria – per la quale potrà muoversi con autonomia e senza vincoli particolari (ad es. concedendo in locazione i beni immobili, riscuotendone i canoni, provvedere alla manutenzione dei beni, pagare utenze, rate di mutuo, versare le tasse o imposte) – quanto straordinaria, facendosi autorizzare dal Tribunale.

 

curatore eredità
mancata accettazione dell’eredità: può essere nominato un curatore per amministrare l’eredità giacente


Più in particolare, dovrà essere chiesto ed autorizzato ogni atto di alienazione, di sottoposizione a pegno o ipoteca dei beni ereditari, nonché qualsiasi transazione ad essa attinente.


Per quanto riguarda i beni mobili, che nel corso del tempo potrebbero essere soggetti a dispersione, riduzione di valore, alterazione, sottrazione, deperimento, deve esserne promossa la vendita da parte dal curatore nei trenta giorni successivi alla formazione dell’inventario, salvo che il giudice, con decreto motivato, non disponga altrimenti.


Per gli immobili, in assenza delle urgenze dianzi indicate, la vendita potrà essere solo eventuale e sarà legata a particolari necessità esistenti o che si verranno a verificare, quali – ad esempio – il pagamento dei debiti ereditari o degli oneri legati all’amministrazione dell’eredità.


Sia ben chiaro: Il curatore può provvedere al pagamento dei debiti ereditari e dei legati solamente previa autorizzazione del tribunale.


I versamenti potranno essere effettuati nella misura e nel tempo in cui i creditori si faranno vivi, mantenendo salvi eventuali privilegi che essi abbiano.


Se però qualcuno dei creditori o dei legatari farà opposizione, il curatore non potrà procedere ad alcun pagamento, ma dovrà provvedere alla liquidazione dell’eredità facendosi assistere da un notaio e provvedendo alla graduazione dei crediti.


In ogni caso, il curatore è sempre tenuto a rendere il conto della propria amministrazione, al giudice (che ha, anzi, esplicito obbligo di vigilanza), durante il suo operato, a chi ne abbia interesse, al termine dell’incarico.


Durata del mandato.


Il curatore cessa dalle sue funzioni quando l’eredità sia stata accettata. (532 cc).


In tal caso, dovrà consegnare i beni al legittimo erede, senza che sia necessaria un’esplicita autorizzazione in tal senso da parte del Tribunale, ma essendo sufficiente che la prova e la validità dell’accettazione sia stata acquisita.

Se più sono gli eredi, è verosimile che la distribuzione dei beni avvenga in base alla quota a ciascuno spettante, anche a seguito di un progetto di distribuzione.

 

 

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mancata accettazione dell’eredità – eredità giacente

Chi paga la retta della casa di riposo ed altre preziose informazioni

 

Chi paga la retta della casa di riposo? quali capitoli di spesa sobbarcarsi? il reddito dei familiari fa testo? quale procedura si deve seguire?

 

La guida, preziosa, redatta dalla collega Stefania Cerasoli

 

INDICE

1.COME ENTRARE IN CASA DI RIPOSO
2.COSA PAGO IN CASA DI RIPOSO
3.IL PROBLEMA DELLE LISTE DI ATTESA
4.LA CASA DI RIPOSO MI CHIEDE LA FIRMA DI UN CONTRATTO, POSSO RIFIUTARMI?
5.HO FIRMATO MA ORA NON SONO PIU’ IN GRADO DI PAGARE LA RETTA, POSSO TIRARMI INDIETRO?
6.E SE LA PENSIONE NON BASTA, CHI PAGA LA RETTA DELLA CASA DI RIPOSO?

 

 come entrare in casa di riposo

 


1. COME ENTRARE IN CASA DI RIPOSO ?

Come abbiamo già avuto modo di spiegare (LINK), per entrare in casa di riposo l’anziano che si trova in condizione di bisogno (o chi per esso) deve presentare apposita domanda presso il distretto socio-sanitario di residenza al fine di richiedere la convocazione dell’Unità valutativa multidimensionale distrettuale (Uvmd).


La UVMD, composta da un’équipe di operatori sociali (assistente sociale comunale) e sanitari (medico di famiglia, infermiere, medico di distretto, ecc.), ha il compito di valutare la situazione dell’anziano sotto il profilo sanitario, assistenziale e sociale attraverso la compilazione della cd. scheda Svama.


La scheda Svama è, infatti, una scheda di valutazione che viene compilata dal medico di famiglia, dall’infermiere e dall’assistente sociale del Comune, che riassume tutte le informazioni utili a descrivere, sotto il profilo sanitario e socio-assistenziale nonché delle abilità residue, le condizioni dell’anziano.


Se l’équipe valuta l’inserimento in residenza per anziani come il progetto di assistenza che meglio risponde alle esigenze della persona, questa, sulla base di un punteggio di gravità determinato dalla condizione sanitaria, sociale e dall’assenza di alternative all’istituzionalizzazione, viene inserita in una “graduatoria” unica per tutta l’Ulss (Registro unico della residenzialità).

 

quota sanitaria

 


2. COSA PAGO IN CASA DI RIPOSO ?


Le prestazioni che l’anziano non autosufficiente riceve in una RSA (oggi non si parla più di case di riposo bensì di Residenze Sanitarie Assistenziali) sono qualificate come socio-sanitarie integrate e sono disciplinate dall’art. 3, septies, del Decr.Leg,ivo n. 502/1992.


In particolare, tali prestazioni si distinguono in:


– prestazioni sanitarie a rilevanza sociale di competenza e a carico delle aziende sanitarie locali;


– prestazioni sociali a rilevanza sanitaria sono di competenza ed a carico dei comuni con la compartecipazione alla spesa dell’utenza;


– prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria erogate ed a carico del Fondo Sanitario nazionale.


Chiarito questo aspetto, è chiaro cosa debba intendersi per retta e di cosa si componga.


In particolare, la retta nel caso di ricovero in regime convenzionato si compone


della cd. QUOTA SANITARIA a carico del Sistema sanitario regionale ed erogata tramite l’ASL di appartenenza direttamente alla casa di riposo


e da una QUOTA SOCIALE/ALBERGHIERA a carico dei Comuni con la compartecipazione del beneficiario della prestazione.


Nel caso in cui, invece, il ricovero avvenga in regime privato, a carico dell’ utente sarà non solo la quota alberghiera ma anche quella sanitaria.

 

soccorso-istruttorio-appalti-pubblici

 

3. IL PROBLEMA DELLE LISTE DI ATTESA

 

Nel momento in cui, presso una delle strutture indicate dall’utente, tra quelle presenti nell’elenco sottoposto al momento della UVMD, dovesse rendersi disponibile un posto convenzionato, sarà cura della struttura contattare l’utente al fine di valutare l’inserimento.

 

In caso di ricovero in regime convenzionato, quindi, la parte sanitaria della retta sarà riconosciuta e corrisposta direttamente alla struttura dal Sistema sanitario regionale tramite le Asl di appartenenza rimanendo a carico dell’utente e dei Comuni la parte sociale o alberghiera della retta.


È importante precisare, però, che, anche una volta ottenuto l’inserimento nel Registro Unico di Residenzialità, non è detto che il beneficiario riesca ad acquisire immediatamente la cd. impegnativa di residenzialità e, quindi, ad accedere immediatamente ad un posto letto in regime convenzionato.


A fronte di tante richieste, infatti, solo alcune vengono accolte e questo per mancanza di disponibilità delle cd. “quote” regionali sanitarie: il riconoscimento dell’impegnativa di residenzialità avviene, infatti, nei limiti della programmazione di bilancio già stimata dalla Regione in sede di programmazione dei posti letto (anche se si può discutere della legittimità di tali liste di attesa LINK).


Quindi, per intenderci, se l’utente viene ad essere contattato dalle strutture prescelte è perché si trova in posizione utile in graduatoria per l’ottenimento dell’impegnativa di residenzialità rientrando, quindi, nei limiti della predetta programmazione di bilancio.


Da quanto detto si deduce che potrebbero trascorrere anche diversi mesi prima dell’ottenimento dell’impegnativa di residenzialità.


E che fare nell’attesa?


Se la famiglia non può attendere, e sempre che ne abbia la disponibilità economica, potrebbe procedere ad un inserimento dell’anziano in via privata e, quindi, facendosi carico sia della quota sociale che della quota sanitaria della retta.

 

dimissioni anziano ospedale


4. LA CASA DI RIPOSO MI CHIEDE LA FIRMA DI UN CONTRATTO, POSSO RIFIUTARMI ?

 


Capita che, una volta contattati dalla struttura perché utilmente collocati in graduatoria, ci si senta dire che l’accoglimento del nostro familiare in struttura sia condizionato alla prestazione di una garanzia.


È importante precisare che, ogni qualvolta l’accesso alla struttura da parte dell’anziano non autosufficiente avvenga in quanto lo stesso si trovi in posizione utile in graduatoria per l’ottenimento dell’impegnativa di residenzialità, il rapporto tra l’utente e la struttura stessa troverà la propria fonte giuridica nelle leggi e nei regolamenti e non in eventuali contratti di ricovero privatistici.


La struttura, quindi, non potrà vantar somme in base ad accordi privati con l’utente e con i parenti di quest’ultimo, invocando di essere un soggetto privato.


Né tantomeno potrà subordinare l’ingresso in struttura alla prestazione di garanzia come si è già avuto modo di chiarire (LINK).


Ovviamente stiamo parlando dell’inserimento in regime convenzionato perché, nel caso di ricovero in regime privato, tutto cambia potendo la struttura, in questo caso, apporre tutte le condizioni possibili all’ingresso in struttura.

 

Risarcimento danni per mancato pagamento assegno di mantenimento


5. HO FIRMATO MA ORA NON SONO PIU’ IN GRADO DI PAGARE, POSSO TIRARMI INDIETRO ?


In ogni caso, anche volendo considerare valido il contratto eventualmente firmato al momento dell’ingresso in regime convenzionato del nostro familiare in struttura, si precisa che è sempre possibile “tornare indietro”.


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26863/2008, ha statuito, infatti, che gli impegni assunti dai parenti dei ricoverati in una Rsa o altra struttura a titolo di integrazione della retta di degenza sono sempre revocabili.


In particolare, secondo la Corte di Cassazione, tale impegno può configurarsi giuridicamente come obbligazione di garanzia per futuri possibili debiti dell’obbligato, in relazione alla quale la facoltà di recesso è pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza. 

In secondo luogo, per i contratti ad esecuzione continuata o periodica,  la facoltà di recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, in sintonia con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, spetta al terzo che assume l’obbligazione altrui.


Sarà, quindi, sufficiente l’invio alla struttura di una lettera a mezzo raccomandata con la quale si comunica la propria volontà di risolvere/recedere/revocare l’impegno economico.


Ovviamente questa scelta va valutata con attenzione in quanto espone il soggetto sottoscrittore al rischio, tutt’altro che remoto, della notifica di un decreto ingiuntivo da parte della struttura ospitante.

 

figli casa di riposo

 

6. E SE LA PENSIONE NON BASTA, CHI PAGA LA RETTA DELLA CASA DI RIPOSO ?

 


Nel caso in cui la pensione del nostro familiare non sia sufficiente a coprire la retta, è possibile presentare istanza di integrazione retta al comune in cui l’anziano risiedeva prima dell’ingresso in struttura.


La Legge n. 328/2000, all’art. 6, IV comma, prevede che “per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica”.


Ovviamente la domanda di integrazione dovrà essere corredata dall’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (meglio noto come ISEE) avente lo scopo di calcolare la capacità reddituale e patrimoniale di un nucleo familiare chiarendo chi può avere diritto ad una prestazione assistenziale gratuita o ad un costo ridotto.


In particolare, l’Isee dovrà essere di tipo “socio sanitario residenze assistenziale” che, alla luce della riforma intervenuta con il DPCM n. 159 del 05.12.2013, oltre a permettere di scegliere il nucleo familiare più ristretto, prevede, in ogni caso, di tenere in considerazione anche la condizione economica dei figli del beneficiario anche se non facenti parte del nucleo familiare.


Precisiamo subito una cosa.


L’art. 2 del D.P.C.M. 159/20139 prevede che “la determinazione e l’applicazione dell’indicatore ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”.


Quindi, non sono ammessi ISEE “fai da te”, predisposti a livello regionale o, addirittura, comunale, giacché la competenza a disciplinare i contenuti dell’ISEE è riconducibile, in via esclusiva, in capo allo Stato.


L’unica autonomia che hanno le Regioni e i Comuni è di tipo migliorativo nel senso che potranno garantire un trattamento migliorativo rispetto all’ISEE nazionale, ma non certamente peggiorativo rispetto ad esso e questo proprio perché, come già detto, questo rappresenta un “livello essenziale”.

 

chi paga la retta della casa di riposo?


Come già evidenziato, “il nucleo familiare del beneficiario è composto dal coniuge, dai figli minori di anni 18, nonché dai figli maggiorenni” (cfr. art. 6, II comma, del D.P.C.M. n. 159/2013).


Dato il carattere modulare dell’indicatore ISEE, sorge spontanea una domanda: cosa succede nel caso in cui il figlio, non convivente e nelle disponibilità economiche per integrare la retta, si dichiari comunque indisponibile a tale integrazione?


Chi è il soggetto direttamente legittimato ad agire nei suoi confronti? Il Comune o il ricoverato?

Occorre precisare che unico soggetto debitore nei confronti del Comune è il beneficiario della prestazione e, quindi, l’anziano ricoverato.


I parenti dell’anziano non sono direttamente obbligati al pagamento di alcuna quota della retta sociale né verso i Comuni né verso le Rsa, a meno che non si siano autonomamente impegnati.

 

Non solo.


Unicamente il ricoverato, e mai il Comune e tantomeno la struttura, potrà, da solo se ne ha la capacità o tramite un rappresentante legale, chiedere ai figli il pagamento di una somma a titolo di alimenti (art.433 e ss.).


I figli, effettuando spontaneamente (non essendovi alcun obbligo) la consegna del proprio ISEE nei termini che seguono, aiutano il proprio genitore a richiedere un beneficio economico alla prestazione, altrimenti irricevibile, nel senso che se il paziente ha un figlio, in assenza di detta sua componente aggiuntiva, si avrà come conseguenza che la quota sociale della retta sarà posta interamente a carico dell’anziano.

 

 

 

 

 

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Soccorso istruttorio appalti pubblici: il termine di 10 giorni può essere ridotto.

 

Soccorso istruttorio appalti pubblici: il termine di 10 giorni può essere ridotto.

 

 

Nell’ambito delle procedure di affidamento dei contratti pubblici il soccorso istruttorio è lo strumento che consente di rimediare a eventuali omissioni, incompletezze e/o irregolarità di informazioni e documenti utili ai fini della partecipazione alla gara mediante l’integrazione, in caso di omissione od incompletezza della documentazione, o la regolarizzazione di documenti già presentati ma affetti da irregolarità o errori materiali.

 

La ratio dell’istituto è evidentemente quella di limitare le ipotesi di esclusione degli operatori economici dalle procedure di gara ai soli casi di carenze gravi e sostanziali dei requisiti di partecipazione alla gara, conseguentemente ampliando la possibilità di concorrere all’aggiudicazione del contratto pubblico, in ossequio al principio di favorire il numero più ampio possibile di partecipanti.

 

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Nel Codice dei contratti pubblici, il soccorso istruttorio trova disciplina nellart. 83, comma 9 secondo cui “le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all’art. 85 con esclusione di quelle afferenti all’offerta economica e all’offerta tecnica, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa“.

 

Il TAR Abruzzo, in una recente sentenza (la n. 8 del 2020), ha avuto modo di affermare che il termine di 10 giorni previsto dall’articolo in esame è da considerare come termine massimo, ben potendo la stazione appaltante applicare anche un termine inferiore.

 

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soccorso istruttorio appalti pubblici: 10 giorni è termine massimo

 

Osserva il TAR che “è ragionevole applicare siffatto termine nella sua maggiore ampiezza nei casi nei quali l’integrazione possa risultare più gravosa e complessa, avuto riguardo alla quantità e/o qualità degli elementi formali della domanda che siano risultati mancanti, incompleti o comunque affetti da irregolarità“.

L’omessa previsione ex lege di una misura minima di detto termine comporta, quindi, che esso dovrà essere comunque adeguato a consentire la regolarizzazione e dunque proporzionato al numero e alla natura delle irregolarità essenziali accertate, sicché se nell’ipotesi di carenza di una pluralità di documenti o elementi, esso dovrà essere aumentato, viceversa nel caso in cui sia mancante solo il documento di riconoscimento del sottoscrittore di una dichiarazione, il termine com’è evidente potrà essere assai breve“.

 

 

 

 

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