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Licenziamento docenti con diploma magistrale: niente inserimento nelle graduatorie ad esaurimento (GAE)

Licenziamento docenti con diploma magistrale: niente inserimento nelle graduatorie ad esaurimento (GAE)

 

 

In questo periodo purtroppo si sta assistendo ad una serie di licenziamenti nel mondo della scuola che sono conseguenza di una decisione del Consiglio di Stato risalente al 2017.

 

Come riportato sui giornali, le ripercussioni della Sentenza avrebbero già investito mille docenti con diploma magistrale a Vicenza e nel vicentino.

 

L’ adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 11 del 2017, ha statuito che il diploma magistrale conseguito prima del 2002 non abilita all’inserimento nelle GAE

Secondo il giudice amministrativo nel nostro ordinamento “manca una norma che riconosca il diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002 come titolo legittimante l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento“.

 

 

licenziamento docenti con diploma magistrale
Licenziamento docenti con diploma magistrale: le conseguenze della Sentenza del Consiglio di Stato

 

In particolare, il Consiglio di Stato ha osservato che la riforma di cui all’art. 3 della legge 341 del 1990 non solo “ha previsto livelli di qualificazione differenziata per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola primaria e nella scuola secondaria, ma, con riferimento specifico alla formazione culturale e professionale degli insegnanti della scuola materna ed elementare, ha ritenuto di non poter prescindere da una formazione universitaria“.

Nell’ambito di tale riforma,  si istituirono due corsi di laurea per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria, con efficacia abilitante (che contestualmente fu esclusa con riguardo ai diplomi magistrali rilasciati successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina).

Con decreto interministeriale 10 marzo 1997, recante “Norme transitorie per il passaggio al sistema di formazione universitaria degli insegnanti della scuola materna ed elementare, previste dall’articolo 3, comma 8 della legge 19 novembre 1990, n. 341” è stato previsto un apposito regime transitorio per il passaggio al sistema di formazione universitaria degli insegnanti della scuola materna ed elementare.

Il regime transitorio prevedeva la salvaguardia dei titoli di studio acquisiti, stabilendo che “i titoli di studio conseguiti al termine dei corsi triennali e quinquennali sperimentali di scuola magistrale e dei corsi quadriennali e quinquennali sperimentali dell’istituto magistrale, iniziati entro l’anno scolastico 1997-1998, o comunque conseguiti entro l’a.s. 2001-2002, conservano in via permanente l’attuale valore legale e consentono di partecipare alle sessioni di abilitazione all’insegnamento nella scuola materna, previste dall’art. 9, comma 2, della citata legge n. 444 del 1968, nonché ai concorsi ordinari per titoli e per esami a posti di insegnante nella scuola materna e nella scuola elementare, secondo quanto previsto dagli articoli 399 e seguenti del citato decreto legislativo n. 297 del 1994” (articolo 2 del citato decreto interministeriale).

 

licenziamento insegnanti con diploma magistrale

 

Secondo il Consiglio di Stato, tale norma “esprime con chiarezza qual è il valore legale del titolo di diploma magistrale conservato in via permanente: il diploma magistrale, se conseguito entro l’a.s. 2001/2002, rimane titolo di studio idoneo a consentire la partecipazione alle sessioni di abilitazione all’insegnamento o ai concorsi per titoli ed esame a posti di insegnamento, ma di per sé non consente l’immediato accesso ai ruoli. Il valore legale conservato in via permanente, quindi, si esaurisce nella possibilità di partecipare alle sessioni di abilitazioni o ai concorsi, dovendo leggersi la l’espressione “conservano in via permanente l’attuale valore legale e consentono di partecipare […]” in senso necessariamente complementare e coordinato“.

Ciò implica” – sempre secondo il giudice amministrativo – “che il valore legale del diploma magistrale può essere riconosciuto solo nei limiti previsti dalla disciplina transitoria in esame, ossia in via “strumentale”, nel senso, come si è chiarito, di consentire a coloro che lo hanno conseguito entro l’a.s. 2001/2002 di partecipare alle sessioni di abilitazioni o ai concorsi pur se privi del diploma di laurea nel frattempo istituito dal legislatore“.

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

licenziamento docenti con diploma magistrale

Asilo nido e disabilità

Asilo nido e disabilità.

 

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

L’integrazione scolastica è fondamentale per lo sviluppo delle potenzialità della persona con handicap nell’ apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione.


Da quanto detto ne deriva che è diritto del bambino con disabilità, anche nella fascia d’età da 0 a 3 anni, ad essere inserito all’asilo nido data l’importante valenza educativa e formativo di questo servizio.

Se in passato l’asilo nido veniva considerato solo come un momento di socializzazione prima dell’ingresso della scuola elementare, oggi siamo tutti convinti della sua importanza e valore pedagogico.


La legge n. 517 del 04.08.1977, oltre ad abolire le classi differenziali per gli alunni cd. “svantaggiati”, viene ad indicare gli strumenti utili all’integrazione così da consentire a tutti gli alunni con handicap di avere accesso alle scuole elementari ed alle scuole medie inferiori, quali:

• La presenza di classi costituite da un massimo di 20 alunni;

• La presenza di insegnanti di sostegno specializzati;

• Il sostegno specialistico da parte degli enti locali e dello Stato.

 

Persona con disabilità asilo nido
Asilo nido e disabilità: ai comuni spettano i programmi di integrazione

 


Con l’approvazione della Legge n. 104/1992, all’art. 12, si vengono finalmente a riconoscere le finalità educative e formative degli asili nido sancendo il diritto all’educazione e all’istruzione del bambino con disabilità anche nella fascia di età da 0 a 3 anni.


Più precisamente, la Legge n.104/92, individua l’integrazione scolastica come passaggio fondamentale per lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione.


A tale scopo, nei casi di maggiore gravità, è la legge stessa a stabilire “priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”.


Questo, in parole povere, significa che i minori con disabilità grave hanno diritto di priorità di accesso agli asili nido.


La legge stabilisce inoltre che gli enti locali e le ASL debbano provvedere all’adeguamento dell’organizzazione e del funzionamento degli asili nido alle esigenze dei bambini con disabilità, al fine di avviarne la socializzazione e l’integrazione, anche con il supporto di operatori, assistenti e personale docente specializzato.


È compito dei Comuni, quindi, provvedere alla costituzione di asili nido che perseguano le finalità inclusive del sistema formativo, mettendo al centro le esigenze di integrazione di tutti i bambini, nelle particolari ed individuali specificità.


Chiarito che l’inserimento all’asilo nido del bambino con disabilità deve essere garantito dal Comune che eroga il servizio, veniamo a concentraci sul costo di tale servizio.


Da più parti, si sente sostenere il diritto alla gratuità di tale frequenza.


Non è possibile dare una risposta


L’eventuale riduzione o esenzione dal pagamento della retta, infatti, sono oggetto di disciplina dei singoli comuni che, di regola, stabiliscono il tetto, le scadenze e altri parametri.


Di norma, per i bambini con disabilità, i Comuni sono tenuti, come visto, a prevedere la priorità nelle graduatorie nell’accesso al nido mente il pagamento della retta mensile dipenderà dall’Isee non essendo, in assoluto, dipendente dalla disabilità.

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Asilo nido e disabilità

Soccorso istruttorio appalti pubblici: il termine di 10 giorni può essere ridotto.

 

Soccorso istruttorio appalti pubblici: il termine di 10 giorni può essere ridotto.

 

 

Nell’ambito delle procedure di affidamento dei contratti pubblici il soccorso istruttorio è lo strumento che consente di rimediare a eventuali omissioni, incompletezze e/o irregolarità di informazioni e documenti utili ai fini della partecipazione alla gara mediante l’integrazione, in caso di omissione od incompletezza della documentazione, o la regolarizzazione di documenti già presentati ma affetti da irregolarità o errori materiali.

 

La ratio dell’istituto è evidentemente quella di limitare le ipotesi di esclusione degli operatori economici dalle procedure di gara ai soli casi di carenze gravi e sostanziali dei requisiti di partecipazione alla gara, conseguentemente ampliando la possibilità di concorrere all’aggiudicazione del contratto pubblico, in ossequio al principio di favorire il numero più ampio possibile di partecipanti.

 

soccorso-istruttorio-appalti-pubblici

 

Nel Codice dei contratti pubblici, il soccorso istruttorio trova disciplina nellart. 83, comma 9 secondo cui “le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all’art. 85 con esclusione di quelle afferenti all’offerta economica e all’offerta tecnica, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa“.

 

Il TAR Abruzzo, in una recente sentenza (la n. 8 del 2020), ha avuto modo di affermare che il termine di 10 giorni previsto dall’articolo in esame è da considerare come termine massimo, ben potendo la stazione appaltante applicare anche un termine inferiore.

 

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soccorso istruttorio appalti pubblici: 10 giorni è termine massimo

 

Osserva il TAR che “è ragionevole applicare siffatto termine nella sua maggiore ampiezza nei casi nei quali l’integrazione possa risultare più gravosa e complessa, avuto riguardo alla quantità e/o qualità degli elementi formali della domanda che siano risultati mancanti, incompleti o comunque affetti da irregolarità“.

L’omessa previsione ex lege di una misura minima di detto termine comporta, quindi, che esso dovrà essere comunque adeguato a consentire la regolarizzazione e dunque proporzionato al numero e alla natura delle irregolarità essenziali accertate, sicché se nell’ipotesi di carenza di una pluralità di documenti o elementi, esso dovrà essere aumentato, viceversa nel caso in cui sia mancante solo il documento di riconoscimento del sottoscrittore di una dichiarazione, il termine com’è evidente potrà essere assai breve“.

 

 

 

 

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soccorso istruttorio appalti pubblici

La revoca del porto d’armi deve essere motivata e ragionevole

 

La revoca del porto d’armi deve essere motivata.

 

 

L’art 43 della Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) prevede che non può essere concessa la licenza di portare armi a coloro che abbiamo riportato condanne penali alla reclusione per determinati delitti “violenti” (rapina, furto, resistenza all’autorità ecc…) e a coloro che non danno affidamento di “non abusare delle armi”.

 

In una recente sentenza, il Consiglio di Stato ( la numero 924 del 23 gennaio 2020) ha statuito che l’applicazione del principio di ragionevolezza comporta che, in alcuni casi peculiari, deve essere privilegiata un’interpretazione dell’art. 43 T.U.L.P.S. conforme ai principi costituzionali.

 

Ciò implica che l’Amministrazione, nel compiere la propria complessiva valutazione in ordine alla affidabilità nel possesso di armi, deve tener conto, oltre alla commissione dei reati da parte del soggetto che chiede la possibilità di detenere armi, anche della sussistenza di altri elementi, che denotano favorevolmente la personalità dell’interessato alla licenza di polizia con carattere di attualità.

 

revoca del porto d'armi
revoca del porto d’armi: la motivazione in base ad un concreto giudizio di affidabilità

 

Secondo il Giudice, il potere di valutare in concreto la sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento di revoca del porto d’armi, “alla luce di un giudizio di affidabilità dell’interessato, in relazione all’uso delle armi, deve muovere sì dalla condanna, ma deve altresì abbracciare l’intero spettro di elementi, anche sopravvenuti, suscettibili di valutazione al suddetto fine (ovvero, esemplificativamente, la concreta entità del fatto criminoso, il lasso temporale trascorso dopo la condanna, la condotta successivamente tenuta dall’interessato, sia sotto un profilo generale che in relazione all’uso delle armi”.

In particolare, il Consiglio di Stato ha rilevato che la Questura, nell’emettere il giudizio prognostico di inaffidabilità all’uso lecito delle armi, non avesse tenuto” in debito conto di circostanze in grado di deporre a favore di un ripristino dei requisiti richiesti dalla normativa vigente ai fini della detenzione delle armi, quali, in particolare, il carattere risalente della condanna, la buona condotta tenuta successivamente dall’interessato, la riabilitazione ottenuta con pronuncia del Tribunale di Sorveglianza, i plurimi rinnovi della licenza di porto di fucile per uso caccia, nonostante i precedenti“.

 

 

 

 

 

 

 

 

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revoca del porto d’armi

Determinazione della sanzione per interventi realizzati senza scia

 

Determinazione della sanzione per interventi realizzati senza scia

 

L’art. 37 del Testo unico in materia di edilizia (dpr 380/2001) stabilisce che “la realizzazione di interventi edilizi in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura non inferiore a 516 euro”.

 

In un caso recentemente deciso dal TAR Veneto, con sentenza n. 41 del 2020, il giudice ha dato ragione ad un cittadino che aveva impugnato un atto comunale che gli aveva imposto il pagamento di 13.664,16 euro quale sanzione per la posa in opera di una pavimentazione in masselli di calcestruzzo autobloccante.

 

La disposizione dell’art. 37, secondo il TAR, è chiara nel presupporre che “un tanto può essere applicata una sanzione in misura maggiore del minimo, in quanto sia accertabile un aumento del valore venale dell’immobile“.

 

quale sanzione per interventi realizzati senza scia?

 

Nel caso preso in esame dal giudice è invece emerso che il Comune aveva ritenuto non sussistere un “aumento di valore” dell’immobile in relazione alle opere difformi ed ha così identificato l’aumento di valore con il costo di costruzione per la realizzazione delle opere.

 

Il giudice ha però rilevato che, in mancanza di una previsione normativa specifica che, in relazione ai fini perseguiti dall’art 37 citato, consenta, in modo espresso, di equiparare i costi di realizzazione dell’opera all’aumento di valore dell’immobile, laddove non sia accertato o accertabile un tale aumento anche solo minimo (perché di fatto le opere non apportano un valore aggiunto sotto il profilo del valore di mercato del bene), ma comunque superiore alla sanzione pecuniaria residuale stabilita dall’art. 37 citato, il Comune deve applicare l’importo minimo previsto dalla suddetta norma (pari ad Euro 516,00)”.

 

Il TAR ha così dato ragione al ricorrente ed ha annullato l’atto comunale.

 

 

 

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sanzione per interventi realizzati senza scia

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: è possibile?

 

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: è possibile?

 

Come noto, l’art. 40 della Legge L. 28 febbraio 1985, n. 47, prevede che gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali sono nulli qualora l’immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia, e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione.

La giurisprudenza ha chiarito che l’atto è nullo anche quando l’immobile sia caratterizzato da totale difformità della concessione e manchi la sanatoria.

 

Nel caso in cui, invece, l’immobile, munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità, non annullati nè revocati, abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione (nella specie, per la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile), non sussiste alcuna preclusione alla stipulazione del rogito notarile.

 

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: possibile se l’abuso non riveste caratteristiche essenziali

 

Ciò è quanto ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 32225/19 che ha esaminato il caso in cui vi era la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile ed ha quindi ritenuto che fosse lecitamente commercializzabile.

 

Ma come si può stabilire se vi è totale o soltanto parziale difformità dalla concessione edilizia?

 

Un aiuto viene offerto dall’art. 32 del Testo Unico in materia di edilizia (DPR 380 del 2001) che elenca quali siano le variazioni essenziali rispetto al progetto approvato.


In particolare, tale articolo stabilisce che “l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni“:

a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968;

b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;

c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;

d) mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito;

e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.

 

comunicazione inizio lavori in sanatoria

 

Il secondo comma dell’art. 32 stabilisce poi che “non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative“.

 

In sostanza, secondo quest’ultima disposizione, non possono dar luogo a totale difformità le modifiche interne che non comportano aumento di volume o superficie ma danno luogo soltanto ad una diversa distribuzione interna degli spazi.

 

 

 

 

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Vendita fabbricato parzialmente abusivo

Decadenza vincolo espropriativo: quali conseguenze?

 

Decadenza vincolo espropriativo: nessuna reviviscenza delle  precedenti destinazioni

 

L’art. 9 del Testo Unico sulle espropriazioni (DPR 327/2001) stabilisce che “un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità“.

 

Il secondo comma dell’articolo in esame stabilisce poi che “il vincolo preordinato all’esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera“.

 

Al riguardo, va osservato che i vincoli urbanistici si dividono sostanzialmente in due categorie: quelli ablativi e quelli di tipo conformativo.

 

I vincoli ablativi sono quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, fino alla privazione dello jus aedificandi

 

I vincoli conformativi sono quelli che non comportano la perdita definitiva della proprietà privata, ma impongono limitazioni e condizioni restrittive agli interventi edilizi in funzione degli obiettivi di tutela dell’interesse pubblico (Es: vincolo paesaggistico, forestale, idrogeologico, rischio idraulico, fascia elettrodotto, ecc).

 

vincolo espropriativo non rinnovato
Decadenza vincolo espropriativo: quali conseguenze?

 

Ora, l’art. 9 si riferisce soltanto ai vincoli ablativi che hanno una durata di cinque anni da quando vengono previsti dallo strumento urbanistico (mentre quelli conformativi sono a tempo indeterminato).

 

Ma che cosa accade se entro il quinquennio non viene emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera?

 

Il comma 4 dell’art. 9 stabilisce che “il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti al comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard“.

 

Ma se il vincolo non viene reiterato, che cosa accade all’area interessata?

 

Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa (si veda ad esempio Consiglio di Stato, sentenza 28 novembre 2019, n. 8125) “la decadenza del vincolo espropriativo, tuttavia, non comporta, di per sé, il riespandersi delle precedenti destinazioni di zona. Alla decadenza dello stesso per inutile decorso del tempo non si verifica, infatti, alcuna reviviscenza della pregressa destinazione. L’inutile decorso di un quinquennio, in difetto di una legittima reiterazione, ne comporta quindi la decadenza, ma l’area già vincolata non riacquista automaticamente l’antecedente sua destinazione urbanistica, ma si configura come area non urbanisticamente disciplinata, ossia come c.d. zona bianca. Rispetto a tali zone, allorché cessino gli effetti dei preesistenti vincoli, l’Amministrazione comunale deve esercitare la sua discrezionale potestà urbanistica, attribuendo agli stessi una congrua destinazione, eventualmente anche a seguito di una istanza degli interessati volta ad ottenere l’emanazione degli atti necessari a conferire una nuova destinazione urbanistica all’area divenuta priva di disciplina“.

 

 

 

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decadenza vincolo espropriativo

Scelta dei requisiti di ammissione concorso pubblico

 

 

Scelta dei requisiti di ammissione concorso pubblico: discrezionalità ma non irrazionalità 

 

Recentemente il Consiglio di Stato, con la sentenza 6972 del 10 ottobre 2019, ha affrontato il caso di un soggetto che aveva partecipato ad un concorso pubblico indetto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali per l’assunzione di 500 funzionari da inquadrare nella III area del personale non dirigenziale, posizione economica F1.

Nel bando di concorso per il Profilo Funzionario architetto, l’Amministrazione richiedeva tra i requisiti di ammissione, oltre alla laurea, il possesso di ulteriori titoli tassativamente determinati.

 

esclusione concorso pubblico

 

In particolare, il bando prevedeva la necessità di un “diploma di specializzazione, o dottorato di ricerca, o master universitario di secondo livello di durata biennale” o di un titolo equipollente/equivalente nella disciplina di riferimento.

Il ricorrente risultava pertanto escluso avendo i seguenti titoli: laurea in architettura, Master di II livello in “Exhibition Design – allestimento museale”, di durata inferiore al biennio; abilitazione alla professione di architetto.

Al riguardo, il Consiglio di Stato ha osservato che “in generale deve essere confermato il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa che riconosce “in capo all’amministrazione indicente la procedura selettiva un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire.”

In altre parole, osserva sempre il Consiglio di Stato “quella che l’amministrazione esercita, nel prevedere determinati requisiti di ammissione, è una tipologia di scelta che rientra tra quelle di ampia discrezionalità spettanti alle amministrazioni”.

 

requisiti concorso pubblico
Scelta dei requisiti di ammissione concorso pubblico

 

 

Il giudice amministrativo ha però richiamato anche la giurisprudenza secondo cui: “in assenza di una fonte normativa che stabilisca autoritativamente il titolo di studio necessario e sufficiente per concorrere alla copertura di un determinato posto o all’affidamento di un determinato incarico, la discrezionalità nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione va esercitata tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico da affidare, ed è sempre naturalmente suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà”.

Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che “i criteri del bando impugnati non risultano proporzionali rispetto all’oggetto della specifica procedura selettiva ed al posto da ricoprire tramite la stessa, risolvendosi pertanto in una immotivata ed eccessiva gravosità rispetto all’interesse pubblico perseguito.

In particolare, osserva infine il Consiglio di Stato, non risulta giustificata la pretesa titolarità di titoli ulteriori rispetto al diploma di laurea, ed in particolare di un master di II livello della durata biennale – con esclusione quindi dei master parimenti di II livello, ma aventi solo una durata annuale – in relazione allo specifico profilo di Funzionario architetto in questione.

 

 

 

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Scelta dei requisiti di ammissione concorso pubblico

Non c’è l’insegnante di sostegno? L’alunno con disabilità ha diritto comunque di andare a scuola!

 

Il diritto ad andare a scuola non deve venir meno perchè non c’è l’insegnante di sostegno

 

 

Ringraziamo la Collega Avv. Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

Ogni anno a settembre, all’inizio del nuovo anno scolastico si ripresenta l’annoso problema della carenza degli insegnanti di sostegno.


Da un sondaggio effettuato recentemente dalla Fish (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), è emerso che, su 1.600 famiglie interpellate, il 41% denuncia “ la mancanza della figura del sostegno


Di particolare gravità è la circostanza che, di queste famiglie circa il “ 30% dichiara di essere stato invitato a non portare a scuola il proprio figlio o a ridurne la frequenza.”


È evidente che un invito di questo tipo costituisce una grave discriminazione che pregiudica in maniera significativa il diritto allo studio in senso lato.


Se la scuola funziona per gli altri bambini, è evidente che debba funzionare anche per l’alunno con disabilità.

 

non c'è l'insegnante di sostegno
non c’è l’insegnante di sostegno: e l’inclusione?

 


Del resto, l’insegnante di sostegno non è l’insegnante dell’alunno con disabilità bensì è un insegnante affidato alla classe per promuovere il suo processo di inclusione.


In poche parole l’alunno con disabilità è affidato, come tutti gli altri, alla scuola e non all’insegnante di sostegno o all’operatore.


Quindi, la mancanza dell’insegnante di sostegno non può comportare per l’alunno l’impossibilità di frequentare la scuola o riduzioni di orario della frequenza.


In conclusione, se l’insegnante di sostegno non c’è, l’alunno con disabilità ha il pieno diritto di andare a scuola e sarà compito dei docenti accoglierlo così come accolgono tutti gli altri bambini.


La scuola deve funzionare per tutti, nessuno escluso e che ogni disagio derivante dalla carenza di personale deve ricadere eventualmente sull’intera comunità scolastica e non solo su alcuni.


Ogni condotta che si scosti dal principio egualitario non solo inibisce ogni possibilità di reale inclusione, ma viene anche a compromettere l’esercizio dei diritti di base sanciti dalla stessa Costituzione.


Ricordiamo, infine, che una tale comportamento è censurabile anche ai sensi e per gli effetti della legge 01.03.2006, n. 67Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni“.

 

Quindi… A settembre la campanella suona per tutti.

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avv. Berto in materia di

inclusione: non c’è l’insegnante di sostegno

Le distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

Le distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

La recente Legge di conversione del DL 32/019 c.d. “sblocca cantieri” ha aggiunto all’art. 2 bis del testo unico edilizia (DPR 380/2001) il comma 1 ter, in base al quale “in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”.

 

In sostanza, è possibile demolire e ricostruire un fabbricato, nel rispetto delle distanze preesistenti, qualora vengano mantenuti l’area di sedime, il volume e l’altezza del fabbricato preesistente.

 

 

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distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

La disposizione in esame si è resa necessaria il quanto il concetto di ristrutturazione, attraverso la demolizione e ricostruzione, si è “allargato” nel tempo.

Nell’ambito dell’art. 3, comma 1 lettera d) del Dpr 380 del 2001, infatti, sono presenti due distinti tipi di ristrutturazione:

– la ristrutturazione “conservativa”, che può comportare anche l’inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma;

– la ristrutturazione edilizia cd “ricostruttiva”, attuata mediante demolizione, anche parziale, e ricostruzione, nel rispetto del volume, con la conseguenza che, in difetto, viene a configurarsi una nuova costruzione.

Tali tipologie di ristrutturazione sono identiche quanto alla finale realizzazione di un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” ma differiscono per la presenza (o meno) della demolizione (anche parziale) del fabbricato preesistente.

Quest’ultima, ove effettuata, nel testo originario dell’art. 3, doveva concludersi con la “fedele ricostruzione di un fabbricato identico”, al punto da avere identità di sagoma, volume, area di sedime e, in generale, caratteristiche dei materiali.

Le leggi che poi si sono succedute nel tempo (dapprima il DPR 27.12.2002, n. 301 e poi il D.L 21 giugno 2013 n. 69, convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98) hanno apportato alla definizione alcune modifiche con il risultato attuale che, nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente… 

In sostanza, con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”.

 

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Dalla ricostruzione normativa sopra riportata emerge dunque che, allo stato attuale, si può avere ristrutturazione anche qualora la ricostruzione a seguito della demolizione avvenga senza rispettare la sagoma e l’area di sedime originarie. Può accadere, infatti, che nel rispetto del volume preesistente, la ricostruzione venga ad occupare aree lasciate libere dalla costruzione preesistente.

In tal caso, però, la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato 4728/2017) aveva anticipato la disposizione normativa prevista dal decreto “sblocca cantieri” stabilendo che

– nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso – proprio perché coincidente per tali profili con il manufatto preesistente – potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze ora vigenti, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze ( e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa);

–  invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso – quanto alla sua collocazione fisica – rappresenta un qualcosa di nuovo, come tale tenuto a rispettare – indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione o nuova costruzione- le norme sulle distanze.

 

 

 

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distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato