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Conto corrente e comunione dei beni

 

Conto corrente e comunione dei beni: a chi appartiene il denaro che vi confluisce?

 

 

“Nella vita ci sono cose ben più importanti del denaro. Il guaio è che ci vogliono i soldi per comprarle!”
GROUCHO MARX


ma se le cose si comprano, poi cadono in regime di comunione dei beni immediato, mentre il denaro no.

 

 

 

Avevamo creato scalpore.


Quando avevamo pubblicato l’articolo “Comunione dei beni: i soldi dello stipendio appartengono solo a chi li guadagna.” eravamo ben consci che non a tutti tornavano i conti.


Eppure la legge parla chiaro: “i proventi oggetto dell’attività separata di ciascuno dei coniugi” costituiscono oggetto di comunione solo se “non consumati allo scioglimento della comunione” (art. 177 cc).


Avevamo operato una distinzione: vi sono beni che entrano immediatamente a far parte della comunione: gli acquisti. Marito o mia moglie vanno ognuno per i fatti propri a comprare un divano ed una televisione. Entrambi i beni apparterranno al dominio comune dei consorti, anche se conseguiti con denaro del proprio stipendio.


Determinati beni entreranno a far parte della comunione solo se “non consumati allo scioglimento” della stessa. Si tratta della comunione de residuo. Il denaro che guadagno con la mia attività professionale appartiene soltanto a me. Se mi compro un divano, quello apparterrà anche a mia moglie, perchè è un acquisto. I soldi che residueranno al termine della comunione entreranno, ahime’, nell’orbita della (con)titolarità di entrambi.

 


Oggi facciamo un passo avanti.


E se il denaro, anziché impiegarlo in acquisti, o nasconderlo sotto al letto, lo depositassi in banca? La liquidità contenuta nel conto corrente apparterrebbe soltanto a me oppure entrerebbe a far parte della comunione?


Si tratta di appurare se l’apertura di conto corrente con conseguente movimentazione bancaria costituisce oppure no “acquisto”, soggetto al regime patrimoniale che oggi analizziamo.


Vediamo: quando si deposita del denaro in un c/c cosa  ne si consegue? La possibilità di poterlo chiedere indietro quando si vuole. E’ un diritto di credito, quindi. E ciò che ne deriverà sarà sempre e comunque la somma che si è versata.


E poiché il diritto di credito fa parte del novero delle obbligazioni e queste sono escluse dall’orbita della comunione dei beni, il denaro sussistente nel conto corrente derivante dalla propria attività separata, apparterrà solo al titolare che lo abbia conseguito, fino al termine del regime di comunione, allorquando dovrà essere spartita la porzione che ne sarà residuata.


Assistiamo spesso, al culmine delle crisi matrimoniali, ad improvvisi sussulti in ordine alla movimentazione dei conti correnti. Somme rimaste giacenti da tempo sparite in un soffio. Accantonamenti, frutto di risparmi e sacrifici, repentinamente volatilizzati.


L’intento, senza voler peccare di eccessiva malizia, è quello di lasciare meno possibile liquidità sul conto da spartire al termine della comunione.

 

Conto corrente e comunione dei beni
Conto corrente e comunione dei beni


Si faccia attenzione: costituiscono oggetto della comunione de residuo tutti i redditi, percetti o percipiendi rispetto ai quali il titolare dei redditi stessi non riesca a dare prova o che sono stati consumati per il soddisfacimento di bisogni della famiglia (anche suoi personali) o per investimenti già caduti in comunione.


La legge, tuttavia, non pone obblighi di destinazione sui beni oggetto della comunione “de residuo” né limiti o controlli alla facoltà di “consumazione”.

L’esercizio di quest’ultima, ovvero l’impiego nei più vari modi, ma senza che l’operazione comporti nuovi, durevoli acquisti, sottrae “lecitamente” cespiti a quella che, al momento dello scioglimento della comunione, diverrà esattamente la comunione “de residuo”.


Quali rimedi potranno essere accordati al coniuge che si sente defraudato di somme che potrebbero appartenergli di lì a poco, allo scioglimento della comunione?


Potrà, ad esempio, chiedere l’anticipata separazione dei beni: art. 193 c.c.,  il quale, in caso di cattiva gestione di uno dei coniugi nei propri affari o di mala amministrazione dei beni, riconosce l'”interesse” dell’altro coniuge, esprimendo un concetto che può comprendere l’aspettativa inerente la comunione residuale.


Potrebbe anche avvalersi di strumenti di tutela di carattere generale spettanti ad ogni creditore, del genere delle azioni revocatoria e surrogatoria nonché del risarcimento dei danni, sia, infine, in via di estremo subordine, invocare il principio di buona fede ed il divieto dell’abuso del diritto, fermo l’obbligo, per il coniuge “dissipatore”, di rendere il conto delle sue entrate e di come sono state spese (così Cass. Civ. 13441/2003).

 

 

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Visita ai figli di genitori separati durante l’emergenza Coronavirus.

 

Visita ai figli di genitori separati durante l’emergenza Coronavirus.

 

Dalla crisi sanitaria, a quella economica, alla crisi degli affetti.


Coronavirus appare essere un’emergenza che coinvolge tutti i segmenti della vita delle persone, tant’è che gli studiosi – ma non ci vuole una laurea per predirlo – ipotizzano ripercussioni sulla salute psicologica per un italiano su due.


I DPCM si sono susseguiti ed hanno via via ristretto il campo della libera circolazione dei cittadini.

 

 

Restare a casa”: un obbligo di civiltà, prima ancora che un’ordine dell’autorità da rispettare.


Come per tutti i provvedimenti improvvisati dall’urgenza, molte sono le zone grigie, rispetto alle quali vi sono margini di dubbio sull’applicazione del divieto.


Oggi ci occupiamo del diritto alla visita ai figli dei genitori separati durante l’emergenza Coronavirus.

 

Riduzione assegno mantenimento per emergenza coronavirus

 


Il Decreto Del Presidente Del Consiglio Dei Ministri 22 marzo 2020  proibisce “a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute”.


Non solo. A differenza di quanto statuito nel precedente Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020, ora non è nemmeno più consentito “il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”.

Conosciamo, quindi, le motivazioni per cui il divieto contempli una deroga e, di primo acchito, non sembrerebbero consentiti spostamenti per far visita a parenti.


Ci sono  un “ma” e due “però”.


Un’apertura la rinveniamo dal sito del Governo, laddove alle FAQ, in risposta ai quesiti interpretativi sul decreto, ve ne è uno apposito, concernente il diritto di visita dei genitori separati.


Domanda: Sono separato/divorziato, posso andare a trovare i miei figli?
, gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio.


Tutto bene? Tutti d’accordo?


No, e il motivo è presto detto.


Logica vuole che se è rischioso il contatto tra nuclei di persone diverse, quali – purtroppo – sono quelli composti da due genitori separati, propugnare la spola ai figli, da una casa all’altra, oppure sottoporli alla frequenza, pur familiare, di soggetti con ulteriore esposizione contaminosa, potrebbe costituire un rischio non da poco.


Ed ecco i due “però”.


Due pronunce giudiziali, venute a pronunciarsi proprio sulla possibilità di visita e di spostamento dei figli durante il periodo di emergenza.


Il Tribunale di Napoli, con provvedimento recante data 26 marzo scorso, ha disposto che la disciplina delle visite non preveda più lo spostamento dei minori ritenuta la “inopportunità di tale spostamento” atteso il delicato momento in essere e “l’esposizione al rischio”.


Dello stesso avviso la Corte di Appello di Bari, Sezioni Minori e famiglia, che ha ritenuto non sicuri e prudenti gli incontri dei minori con genitori dimoranti in comune diverso da quello di residenza.


Per la corte pugliese, infatti, lo scopo primario della normativa che ha limitato il libero movimento sul territorio è il contenimento del contagio, con conseguente sacrificio di tutti i cittadini ed anche dei minori, rispetto ai quali, tra l’altro, “non è verificabile” se nel corso del rientro presso il genitore collocatario siano stati esposti a rischio sanitario con conseguente rischio per coloro che ritroveranno al rientro presso la propria abitazione.

 

Diritto di visita figli separati coronavirus
Visita ai figli di genitori separati durante l’emergenza Coronavirus: per la corte d’appello una telefonata allunga la vita

 


Conseguentemente, si è ritenuto di limitare il diritto di visita, da esercitare attraverso lo strumento delle videochiamate per periodi di tempo uguali a quelli fissati e secondo il medesimo calendario.


Una statuizione, peraltro, in linea con le stesse interpretazioni governative che, proprio nelle medesime FAQ cui abbiamo accennato, sconsigliava la visita dei nipoti ai nonni, seppur motivata dalle esigenze lavorative dei genitori, giustificandola “solo in caso di estrema necessità, se entrambi i genitori sono impossibilitati a tenere i figli con sé per ragioni di forza maggiore. In tale caso i genitori possono accompagnare i bambini dai nonni, percorrendo il tragitto strettamente necessario per raggiungerli e recarsi sul luogo di lavoro, oppure per andare a riprendere i bambini al ritorno. Ma si sottolinea che ciò è fortemente sconsigliato, perché gli anziani sono tra le categorie più esposte al contagio da COVID-19 e devono quindi evitare il più possibile i contatti con altre persone. È quindi assolutamente da preferire che i figli rimangano a casa con uno dei due genitori che usufruiscono di modalità di lavoro agile o di congedi”.

 

 

 

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Riduzione assegno mantenimento per emergenza coronavirus?

 


Riduzione assegno mantenimento per emergenza coronavirus?

 

Uno dei quesiti più ricorrenti che vengono sottoposti agli avvocati in questi periodi così concitati e drammatici della crisi sanitaria in atto è se sia possibile procedere alla riduzione dell’assegno di mantenimento per l’emergenza legata al coronavirus.


La notizia è già finita sui giornali da qualche giorno: per i coniugi/genitori vi è il rischio di non riuscire a far fronte ai proprio obblighi statuiti nelle condizioni di separazione/divorzio, vuoi per quanto attiene l’assegno a favore del coniuge, vuoi per il contributo al mantenimento dei figli


Siamo ancora in mezzo al turbillon: impossibile fare precise previsioni su quando terminerà e su quali saranno le ripercussioni economiche che porterà con sé.


Un dato, per molti, è già palpabile: una contrazione lavorativa estrema, entrate nulle, spese immutate a cui far fronte attingendo i propri risparmi (per chi sia riuscito a metterne da parte).


Gli interventi di sostegno alle famiglie costituiscono un tampone striminzito che non fa cessare l’emorragia.


Non sono state previste, al momento, misure ad hoc di sussidio alle famiglie di separati e divorziati, le più penalizzate, se si tenga conto che debbono far fronte a doppie spese di casa, utenze, vitto eccetera.

 

riduzione mantenimento figli coronavirus

 


La situazione è drammatica per il coniuge/genitore che sia tenuto a corrispondere un assegno di mantenimento, per il consorte o per i figli: egli potrebbe, infatti, avere difficoltà non solo per far fronte alle spese vive personali, detratto il contributo separativo o divorzile, ma anche ed addirittura a versare tutto o in parte l’importo mensile all’altro coniuge.


Procedere all’auto riduzione della contribuzione potrebbe comportare conseguenze spiacevoli al soggetto obbligato: un’esposizione ad azioni esecutive per il recupero degli arretrati, in sede civile, la possibilità di essere coinvolto in un procedimento penale, relativamente alle fattispeci di cui agli art. 570 e 570 bis cp, concernenti rispettivamente la violazione degli obblighi di assistenza familiare e violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio.


Rimedi?


La soluzione migliore sarebbe, senza dubbio, quella di perseguire la via del dialogo, cercando di trovare un accordo con il coniuge percipiente volto a convenire la riduzione dell’assegno di mantenimento per tutto il periodo di emergenza coronavirus ed anche per quello successivo, limitatamente alla fase in cui l’onda distruttiva della crisi avrà mietuto le risorse delle famiglie più esposte.


Con una precisazione ed una distinzione.


Se oggetto del contendere sia solamente la corresponsione dell’assegno separativo o divorzile in favore di un coniuge, nessun problema, sarà sufficiente darne contezza probatoria in un documento scritto, ricognitivo del sopraggiunto accordo.

 

 


La giurisprudenza ha da tempo affermato la validità degli accordi di natura patrimoniale successivi alla separazione o al divorzio, con i quali i coniugi contrattualmente modifichino le condizioni già oggetto di pronuncia giudiziale, sia sulla scorta di un loro ripensamento, sia alla stregua di circostanze sopravvenute e rilevanti, purché non siano volti a travolgere completamente gli obblighi ed i diritti nati col matrimonio. Nel rispetto di tali condizioni, le modificazioni acquistano efficacia indipendentemente dall’intervento del giudice (ex multis, vedasi Cass. civ. Sez. I, 10/10/2005, n. 20290).


Se, al contrario, si debba regolare la contribuzione mensile per i figli, questioni di opportunità giuridica suggeriscono alle parti concilianti di sigillare l’accordo col benestare del Tribunale, chiamato a verificarne la congruità, giacchè la giurisprudenza è oscillante nell’attribuire validità ad accordi a latere relativi alle condizioni di affidamento della prole, senza l’omologazione della pronuncia giudiziale a controllo della relativa adeguatezza.


Alternativo al percorso in Tribunale, potrà essere efficacemente esperito dai genitori – ognuno assistito dal proprio avvocato – quello alternativo della negoziazione assistita, il cui accordo conclusivo dovrà essere trasmesso entro il termine di dieci giorni al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente, il quale, se riterrà che l’accordo risponda all’interesse dei figli, lo autorizzerà.


Riduzione assegno mantenimento per emergenza coronavirus: se i coniugi/genitori non trovano un accordo, quali rimedi?

 


Il ricorso alla via giudiziale.


Le parti possono sempre chiedere, con le forme del procedimento in camera di consiglio, la modificazione dei provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole conseguenti la separazione”


Qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, in camera di consiglio e, per i provvedimenti relativi ai figli, con la partecipazione del pubblico ministero, può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere”

Tanto per la separazione quanto per il divorzio, il Tribunale, su istanza della parte interessata, può pronunciare la modifica del provvedimento concernente il mantenimento.


Presupposto comune ad entrambe le fattispecie è che ricorrano sopravvenuti e giustificati motivi.


Sopravvenuti, nel senso che debbono essere modificativi della situazione in relazione alla quale le condizioni di separazione o divorzio erano state disciplinate, essendosi verificato un mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della pronuncia.


Per giustificati motivi si intendono quelli che legittimino una revisione delle condizioni patrimoniali, atteso il disequilibrio che si è venuto a creare col sopraggiungere di circostanze impreviste al momento della pronuncia (ad esempio la perdita/riduzione da parte dell’obbligato di un cespite o di un’attività produttiva di reddito che abbia generato un effettivo mutamento della situazione rispetto a quella valutata in sede di determinazione dell’assegno, la perdita del lavoro, la diminuzione dello stipendio).

 

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Riduzione assegno mantenimento per emergenza coronavirus

 


Si ritiene che una crisi economica come quella che si sta delineando con l’emergenza sanitaria legata al Coronavirus rientri senza dubbio tra le cause che potrebbero legittimare la revisione delle disposizioni separative o divorzili.


Tale valutazione, tuttavia, deve essere attentamente vagliata e ponderata alla luce degli sviluppi che questa crisi porterà con sé.


Presupposto per l’istanza di revisione delle condizioni patrimoniali è la prova di un consistente e consacrato deperimento delle condizioni economiche del soggetto obbligato.


Non una difficoltà transeunte e passeggera, ma apprezzabile quanto ad effetti e durata.


Si ritiene, al riguardo, utile strumento per calibrare il provvedimento del Tribunale al caso concreto la possibilità da parte di quest’ultimo di adottare provvedimenti provvisori ove il procedimento non possa essere immediatamente definito, il cui contenuto sarà suscettibile di essere ulteriormente modificato nel corso della causa, anche alla luce dell’avvenuta attestazione del consolidamento o meno della crisi economica denunciata. 

 

 

 

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Restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti: sì se non ha funzione alimentare

 

La Cassazione si pronuncia sulla restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti: sì, anche senza modifica delle condizioni di separazione o divorzio.

 

Calogero ed Assunta divorziano.


Hanno due figlie e per esse il Tribunale statuisce che il padre debba versare alla madre, presso la quale saranno collocate con prevalenza, un contributo al mantenimento di € 400 mensili, fino al compimento degli studi universitari.


Passano gli anni, le figlie non solo si laureano, ma anche convolano entrambe a giuste nozze.


A quel punto, Calogero cita in giudizio Assunta affinchè venga dichiarata non solo e non tanto la cessazione del suo obbligo di corrispondere all’ex moglie l’assegno di mantenimento delle figlie, ma anche che la stessa venga condannata alla restituzione degli importi nel frattempo percepiti dall’ex marito, in quanto non dovuti, almeno dal momento in cui le figlie si erano sposate, acquisendo pacificamente l’indipendenza economica.


Il tribunale, prima, e la Corte d’appello, poi, accogliendo l’istanza volta alla declaratoria di cessazione dell’obbligo contributivo, hanno entrambi rigettato quella di rimborso delle somme medio tempore corrisposte dal padre, sul presupposto che l’impegno economico di questi fosse venuto meno solamente con la relativa pronuncia che ne aveva statuito la conclusione e non, pertanto, retroattivamente, dal compimento degli studi o dalle nozze delle figlie, come richiesto da Calogero.


Per conseguire un tale risultato egli avrebbe dovuto muoversi allora, quando se ne erano verificati i presupposti, e non ad anni di distanza, in quanto gli importi corrisposti trovavano titolo in un provvedimento giudiziale che rimaneva valido fino ad altro che lo modificasse o lo facesse venir meno.

 

 

restituzione mantenimento figli maggiorenni

 


Cosa hanno statuito gli ermellini in ordine alla restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti?


Per capirlo appieno occorre fare un passo indietro, rispolverando qualche informazione che avevamo avuto modo già in precedenza (link 1, 23, 4, 56) di analizzare ed introducendone altra, preziosa per il tema odierno.


Fino a quando debbono essere mantenuti i figli maggiorenni?


Il compimento della maggiore età non esenta l’obbligo che  hanno i genitori, in forza delle precise disposizioni di legge (art. 147 cc) di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni.


Si dovrà mantener fede a tali obblighi fino a quando il figlio, sia pur divenuto maggiorenne, non abbia acquisito una stabile indipendenza economica (da intendersi quale reperimento di uno stabile lavoro che gli consenta un tenore di vita adeguato e dignitoso) ovvero sia stato posto nelle concrete condizioni per essere autosufficiente e, ciò nondimeno, pur potendo, non si sia attivato almeno per la ricerca seria e concreta di un lavoro.


I criteri da tenere in considerazione per imporre il mantenimento dei figli maggiorenni si sono via via elasticizzati nell’individuazione del limite di età adottato come d-day per la contribuzione.


Alcune recenti pronunce del Tribunale di Milano, ad esempio, hanno rinvenuto nei 34 anni il limite “tollerabile”, tenuto conto che “nell’attuale momento economico ed alla stregua dell’ “id quod plerumque accidit” si deve riconoscere una certa inerzia nella maturazione che porta all’indipendenza dei giovani ragazzi“.


Un’inerzia colpevole dei discendenti nel reperire una stabile e congrua occupazione che li affranchi dai genitori potrebbe comportare la perdita del diritto assistenziale da parte di questi ultimi.


Si sottolinea che, una volta divenuti autosufficienti, non vi sarà possibilità di ripristinare il diritto al mantenimento genitoriale per i figli che abbiano poi perso l’impiego, dovendosi contemperare le esigenze dei rampolli – tutelati fino al momento in cui spiccano il volo – e dei genitori, che non dovranno essere obbligati a far fronte per sempre alle vicissitudini della prole, divenuta ormai grande abbastanza per cavarsela autonomamente.


E fin qua ci siamo.


Ma una volta divenuti indipendenti, che ne sarà delle statuizioni economiche stabilite in sede di separazione o divorzio relative al mantenimento della prole?

 

assegno mantenimento figli autosufficienti

 


I genitori potranno senz’altro chiederne la modifica adendo il giudice competente per i provvedimenti del caso.


E se la richiesta dovesse essere avanzata dopo molto tempo dal verificarsi delle condizioni che la legittimano? Vuoi perchè i genitori sono restiii ad agitare iniziative giudiziarie o semplicemente dormono sul pero e rimangono inerti? È possibile chiedere la restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti?


La Suprema Corte, (pronuncia 3659/2020) nel rispondere a tale quesito, richiama una norma di legge – l’art. 2033 cc – che riconosce il diritto per chi abbia eseguito un pagamento non dovuto di chiedere la restituzione di ciò che ha pagato.


Il percorso seguito dagli ermellini è stato il seguente: le somme versate dal padre Calogero per il mantenimento delle figlie erano dovute? La risposta è stata negativa, almeno a far data del compimento degli studi (termine finale convenuto in sede di divorzio per la cessazione dell’obbligo contributivo), ma anche dal giorno delle nozze, con le quali – ormai indipendenti – avevano instaurato una nuova famiglia e ad esse avrebbero dovuto provvedere i mariti, come obbligazione all’assistenza materiale nascente dal matrimonio.


Non coglieva nel segno l’obiezione dei giudicanti precedenti che sottolineavano come gli assegni di mantenimento non fossero “non dovuti”, in quanto trovavano pur legittimazione in un precedente provvedimento giudiziale che manteneva vigore fino alla sua modifica.


Il precetto di cui all’art. 2033 cc, infatti, ha portata generale e “si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa”. “Spetta al giudice” -come nel caso di specie – “cui sia proposta la domanda restitutoria di indebito di valutarne la fondatezza, in relazione alla sopravvenienza di eventi successivi che hanno messo nel nulla la causa originaria giustificativa dell’obbligo di pagamento”.


Una precisazione, importante/importantissima.


E’ principio diffuso e consolidato in giurisprudenza quello che stabilisce l’irripetibilità delle somme alimentari, ossia di quanto sia stato corrisposto in ossequio ad un onere di non far mancare lo stretto necessario per vivere a chi si trovi in stato di bisogno e non sia in grado di rimediarvi.

 

 

mantenimento figli maggiorenni
Restituzione mantenimento figli maggiorenni divenuti indipendenti: sì se non ha avuto funzione alimentare

 


Sulla scorta di tale fondamento, numerosissime pronunce hanno rigettato la richiesta di restituzione di quanto versato, ad esempio, dal coniuge tenuto a corrispondere un assegno di mantenimento all’altro consorte in base ad un provvedimento presidenziale (separativo o divorzile) poi modificato.


La motivazione risiedeva nella natura in buona parte alimentare dell’assegno e nella sua funzione: quella di assicurare i mezzi adeguati al sostentamento del beneficiario, il quale non è tenuto ad accantonarne una parte in previsione dell’eventuale riduzione ma possa normalmente consumarla per adempiere a tale loro destinazione.


Con la decisione in commento, la Suprema Corte effettua un’ulteriore considerazione.


L’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato si giustifica solo “ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noti il rischio restitutorio”.


I generali principi di irrepetibilità, impignorabilità e non compensabilità delle prestazioni alimentari, infatti, non operano indiscriminatamente, ma implicano che in concreto gli importi riscossi per questo titolo abbiano assunto o comunque abbiano potuto assumere analoga funzione alimentare, il che non può in linea di principio evincersi nel caso in cui la loro dazione comporti beneficio finale a favore di chi sia già economicamente autonomo ed in cui l’accertamento di tale sopravvenuta circostanza estintiva dell’obbligo di mantenimento di un genitore sia giudizialmente controverso nel procedimento di revisione pendente nei confronti dell’altro genitore abilitato a riscuotere la contribuzione e per il quale tale procedura comporta anche la conoscenza del correlato rischio restitutorio delle somme percepite dalla domanda introduttiva, se accolta.

 

 

 

 

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Addebito separazione e assegno divorzile

 


Addebito separazione e assegno divorzile: quali effetti e quali preclusioni?

 

Andiamo dritti al punto: quali sono i riflessi che la pronuncia separativa può comportare sull’assegno divorzile?


Diversi sono i presupposti tra le due pronunce, anche se vi è un comune denominatore: la mancanza di mezzi adeguati del coniuge richiedente.

In caso di separazione vi è ancora un vincolo coniugale che resta in piedi (e per tale motivo i “redditi adeguati” cui va rapportato l’assegno di mantenimento sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio).


Col divorzio è proprio lo scioglimento del rapporto che determina la possibilità per il giudice di disporre la corresponsione di un assegno.


Possiamo affermare che il diritto all’assegno di separazione viene a cessare con la pronuncia divorzile, che ha basi diverse.


La giurisprudenza è granitica nell’osservare come non vi sia alcun automatismo tra riconoscimento dell’assegno di mantenimento e quello divorzile.


La determinazione dell’assegno di divorzio, infatti, è “indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti e in virtù di decisione giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi, atteso che l’assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento del matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti operanti nel regime di convivenza e di separazione e costituisce effetto diretto della pronuncia di divorzio” (Trib. Monza 25.01.2010).

 

addebito separazione

 


L’approdo è meno certo e consolidato quando si faccia riferimento alle conseguenze che la pronuncia di addebito possa avere non già e non tanto sulle statuizioni patrimoniali in sede separativa, quanto sulle condizioni divorzili.


Cosa dice la legge?


Non vi è un’espressa disciplina al riguardo.


L’art. 5 della legge sul divorzio stabilisce che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento….del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto …delle ragioni della decisione… dispone l’obbligo per un coniuge” di somministrare all’altro un assegno.


Un paradigma piuttosto vago e di non univoca applicazione.


Qui si aprono due orizzonti interpretativi.


Uno più recente, ma meno autorevole, che viene a leggere l’inciso “ragioni della decisione” parafrasandolo come causa del fallimento matrimoniale e conseguente impossibilità al ripristino della comunione materiale e spirituale tra i coniugi.


Ecco, allora, che l’eventuale violazione degli obblighi matrimoniali, accertata in sede di separazione con pronuncia di addebito, può essere una chiave di lettura della menzione di legge alle “ragioni della decisione” per la statuizione o meno dell’obbligo contributivo.


Fermo infatti che non può tenersi conto delle vicende successive alla separazione …. le condotte anteriori, tenute nel corso della vita matrimoniale, possono essere valutate, quali “ragioni della decisione”:

a) se, in quanto integranti violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, siano alla base di una pronuncia di addebito della separazione, abbiano cioè costituito motivi di addebito

b) se tali motivi siano anche le cause che ostano alla ricostituzione della comunione tra i coniugi, ex art. 1 L. div., giustificando, quindi, la pronuncia di divorzio” (Corte d’Appello Napoli, 10/01/2019).


Di contro, va segnalato un diverso orientamento – più risalente ma fatto proprio dalla Suprema Corte – che non attribuisce alcuna efficacia preclusiva all’eventuale addebito della separazione per ciò che concerne la statuizione dell’assegno divorzile, bensì solamente lo ascrive a circostanza da tenere in considerazione per determinarne l’ammontare.

 

assegno divorzile addebito
Addebito separazione e assegno divorzile: l’incidenza sulle “ragioni della decisione”

 


“ Nel giudizio di divorzio il riconoscimento dell’assegno non è precluso … dall’addebito della separazione, che può incidere soltanto sulla misura dell’assegno, per effetto della valutazione demandata al giudice di merito in ordine alle cause del venir meno della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi”. (Cass. Civ. 18539/13)


Infatti, una volta stabilita la spettanza in astratto dell’assegno divorzile, per non essere il coniuge richiedente in grado, per ragioni oggettive, di godere di mezzi adeguati, il giudice dovrebbe poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5 (ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno od a quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione – ma non di automatica esclusione – della somma considerabile in astratto.


In buona sostanza, “le ragioni della decisione”, intese con riferimento ai comportamenti che hanno cagionato il fallimento dell’unione, costituiscono uno dei parametri per la liquidazione dell’importo dovuto.


La valutazione di tali elementi, da effettuarsi anche in rapporto alla durata del vincolo, rappresenta infatti una fase ulteriore rispetto a quella del riconoscimento del diritto all’assegno, ed agisce ordinariamente come fattore di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, potendo valere ad azzerarla soltanto in ipotesi estreme”.

 

 

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Addebito separazione e assegno divorzile

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Ammontare mantenimento figli maggiorenni in sede di divorzio. Quanto?

Ammontare mantenimento figli maggiorenni in sede di divorzio. Quantifichiamolo.

 

 

 


Sul “fino a quando i genitori debbono contribuire al mantenimento dei figli” ci eravamo già soffermati. (link 1, link 2, link 3)     

 

Oggi citiamo una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione che compendia efficacemente la risposta al quesito “di che misura deve essere l’ammontare del mantenimento dei figli maggiorenne in sede di divorzio”.


Ci riferiamo al divorzio, perchè potrebbe comportare dei risvolti differenti rispetto al giudizio effettuato in sede di separazione. Lì, magari, i figli erano più piccoli, meno autosufficienti, con meno necessità, oggi sono cresciuti, hanno esigenze maggiori ma anche più autonomia.


Ebbene, la Suprema Corte esordisce con una sottolineatura: nella sua valutazione il giudice del divorzio non può ritenersi vincolato dalle statuizioni del giudizio di separazione nè da un criterio di adeguamento automatico dipendente dall’età e dal miglioramento delle condizioni economiche dei genitori.


In buona sostanza: il divorzio è un giudizio nuovo e differente rispetto a quello separativo e, in quanto tale, non può comportare alcun automatismo nel traslare i provvedimenti precedenti alla situazione attuale, ma deve rieffettuare – daccapo – le valutazioni conferenti al caso concreto, come rappresentato dalla situazione di fatto al momento del procedimento.

 

assegno di mantenimento in caso di separazione

 

Ammontare mantenimento figli maggiorenni in sede di divorzio.Quanto?

 


In base al chiaro paradigma degli ermellini, “la fissazione dell’assegno destinato al mantenimento del figlio, operata dal giudice della cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve essere parametrata sulle effettive e attuali esigenze del figlio alla luce delle circostanze che attengono in primo luogo alla condizione economica dei genitori ma non sulla base di una mera corrispondenza proporzionale e che prescinda dall’effettiva valutazione delle concrete esigenze di vita del minore”.


Quindi:


1. attualità e concretezza delle esigenze dei figli: sono occupati, sia pur senza raggiungere l’indipendenza economica? Seguono un ciclo di studi? Che attività ricreativa svolgono? Dove vogliono andare? A cosa ambiscono? Dove vogliono vivere?


2. come se la passano i genitori dal punto di vista economico.
Lavorano ancora entrambi? Il loro reddito è aumentato o diminuito? La loro compagine familiare post separazione è rimasta inalterata? Il loro patrimonio complessivo?


Effettuate tali valutazioni, occorre obbligo anche considerare il tenore di vita goduto dai figli in costanza di matrimonio.


Infatti, “a seguito della separazione personale tra coniugi, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantire un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo per quanto possibile a quello goduto in precedenza, continuando a trovare applicazione l’art. 147 c.c. che, imponendo il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, obbliga i genitori a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli stessi lo richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione”.

 

 mantenimento figli maggiorenni divorzio
Ammontare mantenimento figli maggiorenni in sede di divorzio: vale ancora il tenore di vita

 


Tale considerazione deve essere ben ponderata non solo con riferimento al contributo al mantenimento “ordinario” dei figli, ma anche per quanto concerne le spese “straordinarie”, quelle cioè “che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli”.


E’ possibile contemplare la corresponsione di un unico assegno che comprenda mantenimento ordinario e spese straordinarie?

 

Per la Cassazione, l’eventualità di includere le spese straordinarie in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, potrebbe rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonchè recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti.

 

 

 

 

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Separazione e divorzi a Vicenza: i dati del 2019

 

Separazione e divorzi a Vicenza: i dati del 2019

 

 

Sono stati recentemente pubblicati sul sito del Comune di Vicenza i dati relativi alla nuzialità che ha riguardato la nostra città.


Risulta confermato un trend complessivamente negativo per ciò che concerne il numero di matrimoni.


Nel 2019, infatti, si è attestato il calo di cerimonie nuziali, tanto religiose quanto civili.


Si sono celebrati complessivamente 243 matrimoni, a fronte dei 279 dell’anno precedente.


Di questi 62 con rito religioso e 181 civile.


A fronte di un precedente consolidato primato religioso rispetto a quello civile, dal 2005 si assiste al progressivo, ma irreversibile mutamento di preferenza da parte dei concittadini circa la tipologia di cerimonia prescelta.

 

avvocato separazione divorzio vicenza
separazione e divorzi a Vicenza: il trend è in costante aumento.

 


Non smette mai di stupire – almeno per chi è digiuno da approfondite valutazioni sociologiche –l’età media con la quale i nubendi decidono di convolare: 37,3 anni per le donne e, udite udite, 41 anni per gli uomini.

Il trend vede complessivamente, nell’ultimo decennio, un innalzamento di quasi dieci anni dell’età prescelta per le nozze.


E veniamo alle separazioni e divorzi a Vicenza.


Nei dati offerti dal sito comunale non sono rilevabili quante separazioni e divorzi siano stati pronunciati nel nostro comune.


Il dato appurabile è il numero dei cittadini divorziati residenti in città.


Ben 4.829, dei quali 3.017 donne e 1812 uomini.


Anche in questo caso l’indice è in costante crescita: più 200 rispetto all’anno precedente. 1400 in più rispetto a 10 anni fa.


Ed il trend Veneto ?


A mente del rapporto statistico 2019 operato per la nostra regione 
Ci si sposa sempre meno e più tardi: se all’inizio degli anni ‘80 si celebravano quasi 24mila matrimoni all’anno in Veneto, circa 5,4 ogni 1.000 abitanti, nel 2017 si scende a 14.270, appena 2,9 ogni 1.000 residenti. Anche quando si sceglie di sposarsi, si opta sempre di più per il rito civile, tanto che i matrimoni civili hanno sorpassato quelli religiosi e sono oggi quasi il 60% di tutte le unioni coniugali, più che a livello medio nazionale (49,5%). La progressiva diffusione di comportamenti più secolarizzati è confermata anche dall’aumento delle convivenze more uxorio e delle nascite dei figli al di fuori o prima del matrimonio. Nello specifico, nel 2017 il 10% delle coppie venete risulta non sposata, quando 10 anni prima erano il 6% e nemmeno il 2% nel 1997, e la maggioranza delle coppie non sposate ha figli (56%, erano il 27% nel 2007)


Interessante rilevare, in base a tale documento, che “sono aumentate le famiglie uni­personali, che nel 1971 costituivano il 10% delle famiglie, mentre oggi sono quasi il 31%, e si sono ridotte quelle numero­se, con cinque o più componenti (dal 26% al 6%). Ciò è la conseguenza di una serie di processi so­cio-demografici che hanno investito il nostro Paese negli ultimi decenni. In primis la persistente bassa fecondità e la crisi delle nascite, .. il pro­gressivo invecchiamento della popolazione e l’insta­bilità coniugale

 

 

 

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Abbandono del tetto coniugale senza motivo? Addebito della separazione

 

Abbandono del tetto coniugale senza motivo? Addebito della separazione.

 

 

Alzi la mano.


A chiunque si chieda quali obblighi nascano dal matrimonio e quale tra questi obblighi possa comportare l’addebito della separazione viene in mente l’obbligo di fedeltà.


Ci sta.


Quello che spesso sembra passare in sordina è che con le nozze due persone decidono di vivere sotto lo stesso tetto, formando una nuova famiglia.


E tra i diritti e i doveri reciproci dei coniugi, l’art. 143 cc contempla l’obbligo di coabitazione.


Un dovere la cui violazione può comportare severe conseguenze.


Innanzitutto, il diritto all’assistenza morale e materiale – nato dal matrimonio – è sospeso nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare rifiuta di tornarvi. Art. 146 cc


In secondo luogo, è noto come la violazione degli obblighi matrimoniali possa comportare l’addebito della separazione per il coniuge colpevole.


E qui veniamo al tema della nostra riflessione odierna.

 

 abbandono della casa coniugale

 


Quando l’abbandono del tetto coniugale è sanzionabile?


Una recente sentenza della Corte di Cassazione ci aiuta a fare il punto, riprendendo l’articolo di legge che abbiamo indicato: vi deve essere una giusta causa.

E tale causa deve essere provata.


Vediamo il caso esaminato: il Tribunale, prima, e la Corte d’appello, poi, avevano addebitato la separazione alla moglie, ritenuta colpevole di aver abbandonato l’abitazione familiare.


Quest’ultima ricorre in Cassazione, lamentando che l’allontanamento sia stato solo temporaneo, prolungatosi per la sostituzione delle chiavi operata dal coniuge, e comunque fosse dovuto al clima di accesa conflittualità domestica.


Gli ermellini, nel respingere l’impugnativa avanzata dalla signora, hanno sottolineato come l’addebito della separazione fosse dovuto dalla decisione unilaterale della moglie di allontanarsi dalla residenza familiare senza che fosse dimostrata l’esistenza di precedenti pressioni, violenze o minacce del marito che l’avrebbero indotta a tale decisione.


In difetto di prova di un preteso comportamento del consorte che giustificasse l’allontanamento e di un immediato ripensamento della moglie in vista della ricostituzione del legame familiare, la scelta di questa risultava del tutto sguarnita di alcun valido supporto e pertanto doveva giustamente essere sanzionata con l’addebito.

 

lasciare casa familiare
Abbandono del tetto coniugale: quando comporta l’addebito?

 


E’ utile sottolineare come sia la legge stessa a pretendere che l’allontanamento dalla residenza familiare sia legittimo solo in presenza di giusta causa.

 

Nel novero di tale fattispecie ricorre – per espressa previsione del codice – la proposizione della domanda di separazione o di annullamento o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.


Per il resto, il novero delle “giuste cause di allontanamento” non è tassativo, proprio per dare al giudice la possibilità di valutare il caso in concreto.


In linea di massima, si deve trattare di fatti che rendano intollerabile la convivenza, o possano comportare grave pregiudizio per l’educazione della prole.


Tralasciando i casi di lapalissiana legittimità concernenti episodi di violenza o manifesto tradimento, la Corte di Cassazione ha ritenuto, ad esempio, “giusta causa” di abbandono del tetto coniugale la mancanza di intesa sessuale tra i coniugi, poiché, “in siffatto caso, mancando un rapporto sereno e appagante, l’abbandono non può sorreggere una pronuncia di addebito” Cass. civ. Sez. I Sent., n. 8773/2012  


Del pari, è stato considerato legittimo l’allontanamento operato per i frequenti litigi domestici con la suocera convivente e per il conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra gli stessi coniugi Cass. civ. n. 4540 / 2011


Il volontario abbandono del domicilio coniugale è causa di per sé sufficiente di addebito della separazione, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, salvo che si provi – e l’onere incombe su chi ha posto in essere l’abbandono- che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata ed in conseguenza di tale fatto.


Si è precisato che «tale prova è più rigorosa nell’ipotesi in cui l’allontanamento riguardi pure i figli, dovendosi specificamente ed adeguatamente dimostrare, anche riguardo ad essi, la situazione d’intollerabilità».

 

 

 

 

 

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La morte del coniuge durante il giudizio di divorzio

 

La morte del coniuge durante il giudizio di divorzio

 

Il cinquanta per cento dei matrimoni termina tristemente con un divorzio. L’altra metà con la morte. Tu potresti essere uno dei fortunati.
(Richard Jeni, attore e sceneggiatore statunitense)

 

 

Mors omnia solvit, dicevano i romani. La morte scioglie tutto.


Porta via con sé la vita ed anche le beghe, le amarezze e le delusioni che durante la vita, inevitabilmente, possono essersi accumulate.


La morte scioglie il vincolo matrimoniale. Come il divorzio (art. 149 cc )


Oggi ci soffermiamo a considerare cosa potrebbe accadere nel caso in cui queste tristi vicende si accavallassero contemporaneamente.


Partiamo dal caso concreto, vagliato tra l’altro da una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione.


Moglie e marito. Si separano. Poi interviene il procedimento di divorzio.


La causa di primo grado si conclude con una sentenza che scioglie  il vincolo ed dispone un assegno di mantenimento per i figli e per la (ex) moglie.


Il provvedimento viene impugnato dal marito, che non contesta la pronuncia in ordine allo stato, ossia all’avvenuto scioglimento del matrimonio (che, pertanto, passa in giudicato), bensì in merito al suo obbligo di contribuzione economica.


L’appello viene rigettato, ma – prima che scada il termine per l’ultimo grado di giudizio – purtroppo, viene a mancare l’ex moglie.

 

morte coniuge divorziato


Il marito ricorre in Cassazione, evidenziando come fosse suo interesse venisse dichiarata la cessazione della materia del contendere, volendo mantenere lo status di coniuge superstite separato e non divorziato.


Una tale scelta poggia, evidentemente, sulla circostanza che con la separazione non viene meno il vincolo matrimoniale, come si verifica col divorzio, per cui il coniuge separato diviene erede di quello defunto.


La Suprema Corte ha giudicato “manifestamente fondato” il motivo d’impugnazione, relativamente alle disposizioni della sentenza che erano state oggetto di precedente contestazione, (quelle, per intenderci, che disponevano il suo obbligo di corrispondere il mantenimento).


La morte del coniuge, hanno osservato gli ermellini, sopravvenuta nel giudizio di divorzio, determina la “cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi: onde l’evento della morte sortisce l’effetto di travolgere ogni pronuncia in precedenza emessa e non ancora passata in giudicato, assumendo esso rilevanza in relazione alla specifica res litigiosa…pertanto, atteso che il capo di pronuncia sullo status era passato in giudicato, va accolta l’istanza di declaratoria di cessazione della materia del contendere con riguardo alla materia residua, ossia con riguardo ai capi sulle disposizioni patrimoniali a carico dell’obbligato, che non hanno ancora acquisito definitività”.


La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto non fosse possibile rimettere in discussione la pronuncia sull’avvenuto scioglimento del matrimonio, in quanto ormai si era consolidata per non essere mai stata impugnata.


Gli ex coniugi – pertanto – dovevano ancora considerarsi tali, degli ex, poiché divorziati e non solamente separati, con buona pace delle aspirazioni successorie del marito.


Quindi?


Quindi, in sintesi: se durante il giudizio di divorzio interviene la morte di uno dei coniugi si viene a determinare la cessazione della materia del contendere, che travolgerà tanto la pronuncia sullo status (purchè non sia passata in giudicato) tanto quella sulle condizioni del divorzio, come le statuizioni economiche.

 

morte durante divorzio
morte del coniuge durante il giudizio di divorzio: è cessazione materia del contendere

 


A sommesso avviso di chi scrive, vi è però una falla in tale impostazione.


Se la pronuncia sullo status non impugnata scioglie definitivamente il vincolo, far venir meno, per effetto della morte sopravvenuta, le statuizioni – quelle sì impugnate – conseguenti il divorzio, significa privare il coniuge (ex) superstite di alcune legittime prerogative.


Ad esempio: la pensione di reversibilità, che spetta all’ex coniuge, divorziato, che non sia passato a nuove nozze e che sia titolare di assegno divorzile.


Oppure l’assegno successorio, posto a carico dell’eredità, per il superstite a cui sia stato riconosciuto, in sede divorzile, il diritto alla corresponsione periodica di somme di denaro, qualora versi in stato di bisogno (art.9-bis delle l. 898/70).

 

Da ultimo, anche quota parte del Tfr,  che spetta  al “coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno”.

 


Prerogative queste talora di essenziale rilevanza che meritano di essere tutelate, seppur costringendo gli eventuali eredi del defunto coniuge, (talvolta i figli del coniuge superstite) a terminare il percorso giudiziario intrapreso da colui il quale li ha lasciati.

 

 

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A chi spetta la pensione di reversibilità?

A chi spetta la pensione di reversibilità?

 

Un ringraziamento alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

La pensione ai superstiti, è una prestazione che viene riconosciuta ad alcuni familiari del lavoratore o del pensionato deceduto ed iscritto presso una delle gestioni dell’INPS.


Più precisamente si parla di pensione di reversibilità se l’assicurato era già pensionato al momento del decesso e di pensione indiretta qualora l’assicurato lavorasse ancora al momento del decesso.


La pensione ai superstiti spetta:


-al coniuge anche se legalmente separato mentre se già divorziato avrà diritto solo se beneficiario di un assegno divorzile;


-ai figli sino a 26 anni se studenti universitari, sino a 21 anni, se studenti delle superiori, altrimenti sino alla maggiore età, o senza limiti di età se inabili;

– in mancanza, ai genitori over 65 senza pensione o ai fratelli ed alle sorelle inabili.

Le quote della pensione di reversibilità sono differenti a seconda del numero dei concorrenti: ecco il link dell’Inps che compendia gli importi dovuti.

 

pensione reversibilità
A chi spetta la pensione di reversibilità?

 

Ulteriore requisito affinchè possa essere riconosciuta la pensione di reversibilità ai familiari diversi dal coniuge, è la cd. “vivenza a carico” del defunto che si presume per i figli minori mentre negli altri casi dovrà essere provata.


La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 651 del 15.01.2019, ha chiarito quali siano i criteri per l’accertamento del requisito della “inabilità” richiesto ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità ai figli superstiti del lavoratore o del pensionato.


L’accertamento di tale requisito, infatti, deve essere effettuato in modo concretoossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto, in modo da verificare, anche nel caso del mancato raggiungimento di una riduzione del cento per cento della astratta capacità di lavoro, la permanenza di una capacità dello stesso, di svolgere attività idonee nel quadro dell’art. 36 Costituzione e tali da procurare una fonte di guadagno non simbolico


Più semplicemente,dovremo parlare di inabilità ogni qualvolta le residue capacità lavorative siano talmente esigue da consentire solo lo svolgimento di operazioni elementari, di “un’attività del tutto priva di produttività, oltre che in perdita economica” esercitata esclusivamente all’interno di strutture protette, con esclusione di qualsiasi apprezzabile fonte di guadagno.

 

pensione superstiti


Quanto al requisito della cd. “vivenza a carico”, sarà sufficiente dimostrare che il genitore abbia integrato il reddito del figlio, perché inidoneo a garantire il suo sostentamento.


La Corte di Cassazione, sez. VI Civile, con l’ordinanza n. 26642 del 17.12.2014  ha precisato, infatti, che la cd. “vivenza a carico” non deve necessariamente tradursi in una forma di convivenza o in una situazione di “totale soggezione finanziaria” da parte del figlio essendo necessario, invece, che il genitore deceduto abbia, in vita, offerto un contributo economico prevalente e decisivo per il mantenimento del figlio superstite.


In pratica, l’accertamento della “vivenza a carico” non risulta legato al solo profilo della coabitazione o della totale soggezione economica, ma anche ad ulteriori elementi quali il mancato svolgimento di attività lavorativa da parte dell’aspirante alla pensione e la risalenza della coabitazione.

 

 

 

 

 

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