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Se il figlio maggiorenne non vuole uscire di casa ..

Quale rimedio hanno i genitori se il figlio maggiorenne non vuole uscire di casa? La vicenda del sessantenne che abitava ancora con mamma e papà.

Bamboccione: “uomo dal comportamento infantile e viziato, poco maturo o responsabile; giovane maturo, che invece di rendersi autonomo continua a stare in casa con i genitori, e si fa mantenere da loro” (wikipedia)
Il termine era tornato di moda quando il ministro dell’economia Padoa Schioppa  gettava un sasso, verosimilmente anche provocatorio, contro la sempre minore inclinazione dei giovani a crescere, ad immettersi nel mercato del lavoro, abbandonando il nucleo famigliare per affrancarsi.

mantenimento figli maggiorenni
il figlio maggiorenne non vuole uscire di casa: dopo i 34 anni no diritto al mantenimento

Fino a quando i genitori debbono mantenere i figli?

Ne abbiamo già più e più volte parlato: ecco i riferimenti link 1, link 2, link 3 

Oggi ci soffermiamo su un caso abbastanza particolare, anche se via via non più così isolato: figli assolutamente cresciuti, ultra maggiorenni, che non se ne vogliono andare di casa, malgrado i genitori facciano di tutto per incentivare l’uscita.

Avere la casa libera, infatti, non solo è la prospettiva cui debbono tendere madri e padri che vogliano vedere indipendenti ed emancipati i propri (non più) piccoli discendenti, ma può talora costituire una vera e propria necessità, dettata – ad esempio – dall’esigenza di impiegare l’immobile familiare in altre soluzioni d’utilizzo, financo alla vendita.

Come è inquadrabile giuridicamente la protratta permanenza dei figli nell’abitazione dei genitori e quale rimedio può essere loro concesso per sollecitarne l’uscita?

Un’interessante sentenza del Tribunale di Modena ci aiuta a fare il punto.

La vicenda sottoposta alla pronuncia del giudice riguardava un’anziana signora che aveva da sempre convissuto col figlio, fino al ricovero in una casa di riposo, ove era stata ospitata per seguire una terapia specialistica e per far fronte alla propria condizione di non autosufficienza.

Nominato un amministratore di sostegno, questi chiedeva per conto della signora beneficiaria che il di lei figlio, ormai sessantenne, fosse condannato ad uscire dalla casa della madre, che aveva necessità di averla libera, anche in considerazione del fatto che il “ragazzo” non versava alcun canone o indennità, né partecipava alle spese in alcun modo ed aveva anche un comportamento violento nei confronti dei genitori, che era stato già oggetto di querela in sede penale.

Le argomentazioni giuridiche svolte dalla madre erano volte a configurare una sorta di contratto di comodato intercorso col figlio, in virtù del quale era facoltà del proprietario chiedere, in difetto della pattuizione di un termine, l’immediata restituzione del bene.

Il figlio si costituiva, negando fosse mai intervenuto alcun contratto di comodato e sostenendo che la propria presenza in casa era attribuibile ad una sorta di spontanea assunzione dei genitori al suo mantenimento o, comunque, alla corresponsione degli alimenti in suo favore, atteso il permanente stato di disoccupazione.

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Il Tribunale ha dapprima demolito la prospettazione del convenuto, da un lato ritenendo che “dopo una certa età, il figlio maggiorenne, non ancora indipendente, raggiunge comunque una dimensione di vita autonoma che lo rende, se del caso, meritevole dei diritti” alimentari “ma non più del mantenimento … in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono”. Ciò anche per non scadere in “forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”.

Il giudice, tra l’altro, ha rilevato che secondo le statistiche europei e nazionali, dopo la soglia dei 34 annilo stato di non occupazione del figlio non essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento”.

Dall’altro lato, il Tribunale ha respinto l’ipotesi di configurare il diritto del convenuto ad abitare la casa materna come declinazione del diritto agli alimenti, non essendo tra l’altro intervenuta alcuna prova in tal senso.

Tra l’altro ben potrebbe il soggetto tenuto a tale obbligazione offrirsi di corrisponderla, anziché in natura -col vitto e alloggio – tramite corresponsione di assegno alimentare e, pertanto, pienamente legittima sarebbe stata l’istanza di rilascio della casa, tenuto conto, tuttavia, che non era nemmeno intervenuta alcuna richiesta di somministrazione alimentare da parte del figlio.

Il giudice modenese ha pertanto ricondotto la fattispecie sottoposta alla sua decisione ad una sorta di “negozio atipico di tipo familiare, concluso per fatti concludenti”: una sorta di contratto, non espressamente previsto dalla legge, con cui le parti – senza prevederne esplicitamente gli elementi – hanno dato luogo con comportamenti accettati tra esse e, in buona sostanza, riconducibili alla facoltà per l’uno di vivere presso l’abitazione dell’altra.

Tale tipo di contratto – seppur non disciplinato dal legislatore – avrebbe potuto essere ricondotto a quello, simile, del “comodato precario”, ossia senza pattuizione di durata, a mente del quale il comodante può richiedere la restituzione del bene a semplice richiesta.

Il giudicante, pertanto, ha ritenuto che “i genitori hanno quindi il diritto di richiedere al figlio convivente di rilasciare e liberare l’immobile occupato con il solo limite – imposto dal principio di buona fede – che sia concesso all’altra parte un termine ragionevole, commisurato alla durata del rapporto”.

 

La sentenza: Tribunale di Modena, Sez. II, 1 febbraio 2018, n. 165.

 

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