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Rispetto delle distanze da immobile abusivo

Ciao, avvocatiberto

Rispetto delle distanze da immobile abusivo: cambio di rotta del Consiglio di Stato.

 

Poniamo il caso di dover costruire un fabbricato sulla nostra proprietà.

E’ noto che debbano essere rispettate, in base a diverse norme di legge, determinate distanze dalle altrui costruzioni.

Bene.

E se le costruzioni confinanti fossero abusive? Si dovrebbero rispettare le distanze stabilite come se tali costruzioni fossero legittime oppure si potrebbe fare a meno di considerarle nel computo, proprio perché eventualmente destinate ad essere demolite?

Signori, la risposta non è semplice né univoca.

In passato il Consiglio di Stato aveva escluso potesse esigersi il rispetto delle distanze da immobile abusivo.

Era stato osservato, infatti, che “l’abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare”: ciò in quanto – in caso contrario – si addiverrebbe “al risultato aberrante che, a causa dell’illecito ampliamento dell’edificio” confinante il vicino si vedrebbe costretto “ad arretrare il proprio manufatto rispetto alla sua legittima ubicazione originaria“. (Consiglio di Stato, sez. IV, 21 agosto 2015, n. 3968). 

Il ragionamento, di per sé, non fa una piega. Ci mancherebbe che per le illegittimità altrui debbano rimetterci altri.

Però…

La questione, come si diceva, non è così pacifica ed una recentissima pronuncia, sempre del Consiglio di Stato, ci dice il perché.

La considerazione muove da un quesito. Qual è la ragione per cui vengono emanate norme che prescrivono distanze tra costruzioni? “quella di preservare l’ordinato sviluppo dell’attività edilizia, nonché quella di preservare la salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane”.

Quindi?

Ne consegue che, all’atto del rilascio del permesso di costruire per una nuova costruzione, devono comunque essere rispettate le distanze previste dalle norme applicabili, anche in riferimento ad un fabbricato che risulti abusivo”.

Invero, ragionando a contrario, l’accennata finalità della disciplina sulle distanze verrebbe ad essere sostanzialmente vanificata, posto che il mancato rispetto delle distanze da un fabbricato, nonostante il carattere abusivo dello stesso, porta di fatto a quel disordinato svilupparsi dell’attività edilizia ed al formarsi di intercapedini insalubri che l’ordinamento vuole evitare”.

demolizione immobile abusivo

I Giudici di Palazzo Spada precisano anche l’ovvia considerazione che incomba sull’amministrazione il compito di emanare provvedimenti sanzionatori volti alla demolizione delle opere abusive ed ai privati, interessati, l’onere/interesse a sollecitare tali provvedimenti, emanati i quali, una volta abbattute le opere illegittime, potranno costruire le loro alla distanza di legge.


La sentenza: Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 26-06-2018) 11-07-2018, n. 4229.

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Chiudere con un cancello l’accesso ad un fondo è illegittimo se non si consegni copia delle chiavi agli altri possessori

E’ possibile chiudere con un cancello l’accesso ad un fondo? Vanno consegnate le chiavi agli altri possessori.

Estate. Si parte per le vacanze.

Mare o montagna. Si raggiunge l’appartamentino acquistato con i sudati risparmi.

All’arrivo l’amara sorpresa: l’accesso al fondo sul retro, quello sul quale da sempre abbiamo portato il nostro cane a fare le corse, o andavamo a raccogliere i fiori, o passeggiavamo per diletto è chiuso da un cancello.

Dovevo farlo per la sicurezza della mia proprietà” farfuglia il titolare del terreno.

Ma poteva? Ci passavamo da sempre, più volte l’anno, da quando avevamo i pantaloncini corti e il moccio al naso.

azione possessoria

Cosa dice la legge?

Si opera una distinzione.

Se fossimo stati ospiti occasionali, se il nostro accesso fosse stato consentito eccezionalmente, per cortesia, allora il proprietario avrebbe agito legittimamente, esercitando una sua prerogativa, quella di inibire il passaggio a chiunque transitasse senza il suo consenso.

E’ stabilito, infatti, che “gli atti compiuti con altrui tolleranza non possono servire a fondamento dell’acquisto del possesso” (art. 1144 cc).

Così, “le attività che traggono origine da un atteggiamento di condiscendenza del proprietario, da rapporti di amicizia e di buon vicinato a fronte di limitate e saltuarie ingerenze altrui e consistono in un godimento di portata modesta e tale da incidere molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell”effettivo titolare o possessore….non danno luogo, invero, a una situazione possessoria poiché non socialmente valutabili quali affermazioni di potere sulla cosa”. (Tribunale Cassino, 16/11/2009, n. 995).

Da cosa si può evincere che un atto venga compiuto per mera tolleranza?

Il giudice, eventualmente chiamato a decidere sulla controversia, potrà valutare discrezionalmente in base agli elementi che verranno forniti.

Avranno, tuttavia, rilevanza:

  • gli elementi di transitorietà e saltuarietà dell’attività esercitata, tali da incidere minimamente sul pieno diritto dell’effettivo titolare;
  • la conclamata origine degli atti effettuati da rapporti di buon vicinato, di familiarità o di amicizia.

Se il passaggio fosse stato esercitato con regolarità, seppure ciclicamente, come se si fosse trattato di agire secondo una prerogativa dovuta, acquisita, allora sarebbe un altro paio di maniche.

Approfondiamo.

Il possesso per il nostro codice civile è “il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale” (art. 1140 cc).

In buona sostanza, ci si comporta come se la “cosa” (nel nostro caso il terreno) fosse propria, o come se avessimo diritti su tale cosa (nel nostro caso il diritto di passaggio).

Talvolta, si esercita tale comportamento senza essere proprietari della “cosa” e senza avere diritti – almeno consacrati – sulla stessa.

Tuttavia, proprio perché il godimento del bene è frutto di un’attività non occasionale e caratterizzata da un esercizio assimilabile a quello svolto dal titolare del diritto, non si può interromperlo arbitrariamente, ex abrupto, quand’anche si contestasse la legittimità di tale comportamento.
Sarebbe come farsi giustizia da se’.

consegna chiavi possessore

In questo caso, sarà necessario svolgere un’azione giudiziale per contestare la propria piena titolarità del bene e l’assenza di diritti altrui.

In difetto, ossia spogliando il possessore del bene della possibilità di esercitare tale potestà, con atti che la precludano o la limitino, si rischierebbe un’azione cd possessoria da parte sua, volta a chiedere la reintegrazione o la manutenzione nel possesso perduto o deteriorato.

In questo caso il giudice non deciderà se il possessore spogliato abbia o meno un titolo risalente che lo legittimi all’esercizio del possesso, bensì si limiterà ad accertare la sussistenza stessa del possesso ed il verificarsi dello spoglio. Ad un giudizio futuro, che potrà essere iniziato da chi agisca in rivendica solo dopo la cessazione di quello possessorio, sarà demandata la statuizione dell’esistenza di diritti in capo al possessore.

Torniamo al nostro caso, al passaggio precluso dall’apposizione di un cancello.

Tale attività, di per sé, pregiudicherebbe il nostro possesso, non consentendoci di esercitare il passaggio di cui avevamo sempre beneficiato.

Certamente il proprietario ha diritto di rendere sicuro il proprio fondo da incursioni esterne, ma anche il nostro diritto di passaggio andrà tutelato.

Ecco, allora, che per effettuare un bilanciamento tra le contrapposte esigenze, il proprietario deve consegnare copia delle chiavi del cancello al possessore, per consentirgli il transito e non incorrere nella possibilità di subire un’azione di spoglio.

Attenzione. Tale consegna potrebbe non essere sufficiente: occorrerà, infatti, esaminare attentamente la situazione dei luoghi e le prerogative attribuibili ai singoli diritti.

Nel mentre, infatti, la consegna delle chiavi, in casi simili a quello rappresentato, è stata ritenuta rimedio sufficiente e, seppur il dover aprire e chiudere il nuovo varco possa arrecare un disagio minimo per chi debba esercitarvi il passaggio, costituirebbe idoneo contemperamento con le esigenze del proprietario, (Cass. Civ. 17550/2014), talora potrebbe essere necessaria anche l’installazione di un citofono, per consentire il libero e comodo accesso a chi abbia il possesso del passaggio e ai terzi da lui autorizzati nei limiti della normalità” (Cass. n. 6826/2013), ovvero “l’apposizione di un meccanismo automatico con telecomando a distanza o di altro similare rimedio” per rendere meno disagevole l’apertura del cancello.

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Tubi interrati: la loro presenza è sufficiente per accertare la servitù

La presenza di tubi interrati è ritenuta sufficiente per l’accertamento della costituzione di servitù per usucapione o destinazione del padre di famiglia.

 

 

Apparenza.

 

 

Per poter invocare l’acquisto per usucapione di una servitù è necessario non solo un possesso pubblico, pacifico, continuato e non interrotto per il tempo prescritto dalla legge (di regola 20 anni) ma anche che tale possesso sia appurabile dalla presenza di  opere (naturali o artificiali) visibili e permanenti che rivelino in modo inequivocabile l’esistenza della servitù. (art. 1061 cc): si parla, per l’appunto, di servitù apparenti.

 

tubi interrati
Possono essere usucapite solamente le servitù apparenti, ossia rilevabili dalla presenza di opere visibili e inequivocabilmente destinate all’esercizio della servitù

Perchè tale specifica?

Per cercare di impedire possano essere invocati a fondamento dell’acquisto del diritto attività esercitate clandestinamente o per mera tolleranza.

Ebbene, è innegabile che talvolta sia difficile configurare per certa l’esistenza di opere dall’inequivoca destinazione all’esercizio della servitù.

 

La giurisprudenza, al riguardo, ha chiarito che si dovrà effettuare una verifica caso per caso, nella specifica realtà sociale, negli usi e nelle consuetudini propri di un determinato luogo e di un’epoca precisa.

Non rileva che tutta l’opera sia apparente, essendo sufficiente la presenza di segni visibili, idonei a farne supporre l’esistenza.

Si è, inoltre, specificato, che tali segni potranno essere visibili da un punto di osservazione non necessariamente coincidente col fondo servente ma dovranno essere tali da rendere obiettivamente manifesta, per chi possegga detto fondo, la situazione di asservimento.

 

Tubi interrati sono opera apparente?

Viene da chiedersi se l’appurata presenza di un tubo, seppur interrato o cementato su un muro, possa ritenersi opera visibile, volta a consentire l’accertamento della servitù oppure debba considerarsi non apparente.

tubi interrati
Tubi interrati: non è necessario che l’opera sia interamente e sempre visibile, ma sufficiente anche sia rilevabile saltuariamente.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione depone per la prima ipotesi.

I giudici ermellini si erano trovati a dirimere una controversia attinente l’accertamento o meno della servitù di acquedotto, la cui opera asseritamente idonea a renderla apparente era la presenza di tubatura idrica posizionata al di sotto dell’appartamento costituente fondo servente.

La suprema Corte ha rilevato che  “la visibilità dal fondo servente è, dunque, un’ipotesi normale ma non per questo esclusiva, essendo, piuttosto, sufficiente che le opere destinate all’esercizio della servitù siano visibili – anche se solo saltuariamente ed occasionalmente – da qualsivoglia altro punto d’osservazione, anche esterno al fondo servente, purchè il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica

 

A tal fine l’opera non dovrà necessariamente essere “a vista” e nemmeno sarà necessario che il proprietario del fondo asservito sia a conoscenza dell’esistenza dei tubi interrati, essendo, per l’appunto, sufficiente la loro obiettiva ed inequivoca destinazione a servire altro fondo.

 

La sentenza della Corte di Cassazione: Cass Civ. 14292/2017

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Tubi interrati

Distanza costruzioni dal confine

Distanza costruzioni dal confine: una recente sentenza della Corte di Cassazione rammenta come non si debba fare confusione. Torniamo ad occuparci della questione, dopo averla trattata in altro post. Il nostro codice civile disciplina una nutrita schiera di norme volte a tutelare la proprietà fondiaria. Tra queste, un ruolo preminente trovano le disposizioni attinenti le distanze.

Distanze tra costruzioni, distanze da luci e vedute.

In particolare,l’art. 873 cc stabilice che “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”. La norma quindi: – riguarda le distanze tra costruzioni. – impone il distacco minimo di tre metri (salvo non siano unite o aderenti) – riconosce ai regolamenti locali di stabilire diverse distanze, purchè siano maggiori di quella appena indicata. Attenzione.

distanze dal confine
Distanza costruzioni dal confine. I regolamenti locali possono imporre distanze delle costruzioni dal confine, ma non vanno confuse con quelle stabilite dal codice civile, che riguardano le distanze tra costruzioni

La norma riguarda le distanze tra costruzioni, non le distanze delle costruzioni dal confine. In realtà, il codice civile non stabilisce alcun distacco minimo per quest’ultime, limitandosi a disciplinare il principio della cd prevenzione.

Prevenzione

In base a tale istituto  nell’ipotesi in cui su due fondi confinanti non esistano ancora costruzioni, chi edifichi per primo può:

– realizzare la propria opera a distanza di un metro e mezzo dal confine, in tal caso il vicino dovrà osservare almeno il medesimo distacco;

– costruire sul confine: il confinante potrà, allora, edificare in comunione o aderenza, oppure distanziarsi di tre metri.

– edificare a distanza inferiore al metro e mezzo dal confine. Per il vicino si aprirà una duplice possibilità: o rispettare la distanza di tre metri dalla costruzione, oppure occupare la porzione di suolo del confinante che abbia edificato per primo, chiedendone la comunione del muro (e pagando un’indennità per il suolo occupato).

Il vicino che intenda  domandare la comunione dovrà interpellare preventivamente il proprietario se preferisca di estendere il muro al confine o di procedere alla sua demolizione.

Questi dovrà manifestare la propria volontà entro il termine di giorni quindici e dovà procedere alla costruzione o alla demolizione entro sei mesi dal giorno in cui avrà comunicato la risposta. Il nostro codice civile, pertanto, non dispone distanze dal confine delle le costruzioni.

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Il nostro codice civile non disciplina distanze delle costruzioni dal confine, ma il principio della prevenzione

Esse possono essere, come in effetti molto spesso avviene, stabilite dalle normative locali che, si noti, intervengono per preminenti interessi di igiene pubblica e quindi non possono essere derogate, nemmeno su accordo dei vicini confinanti.

Ma non bisogna confondere i due istituti come, purtroppo, molto spesso si verifica.

La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza oggetto le distanze dal confine, ha riconosciuto come il giudice di merito avesse “commesso l’errore di ritenere applicabile alla fattispecie il limite di metri tre di cui all’art. 873 c.c., ancorchè quest’ultimo si riferisca alla distanza tra costruzioni presenti su fondi finitimi e non alla distanza dai confini“.

Nel contempo, è degno di interesse l’ulteriore rilievo operato dalla Suprema Corte, secondo cui nel mentre ai regolamenti locali non spetti la competenza di stabilire cosa sia costruzione e cosa invece non lo sia, essendo concetti promanati dalla legislazione statale e non modificabili, vada “giudicata legittima la previsione di un regolamento comunale la quale, senza in alcun modo violare il limite della distanza minima tra costruzioni previsto dall’art. 873 c.c., preveda distanze differenziate in relazione a ciascuna tipologia di costruzione; e tale principio opera tanto nell’ipotesi in cui il regolamento locale fissi una distanza minima tra costruzioni maggiore di tre metri, quanto nell’ipotesi in cui il regolamento locale fissi una distanza minima tra costruzione e confine“. La sentenza: Cass. civ. Sez. II,  n. 20529/2017

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Lo stillicidio è lecito solo se concordato

Lo scarico di acque piovane  (stillicidio) deve avvenire sul fondo del proprietario del tetto da cui provengono.

Piove, ma guarda come viene giù!

Il codice espressamente disciplina il classico caso della goccia che faccia traboccare il vaso.

All’art. 908 cc., infatti, si impone al proprietario di un edificio di costruire i tetti in maniera che le acque piovane scolino nel suo terreno e non sul fondo del vicino.
La previsione è figlia di quella più ampia, disciplinata dall’art. 913 cc, secondo cui il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l’opera dell’uomo.
Se lo scolo, pertanto, avvenga naturaliter, senza alcun contributo o artifizio umano, allora il deflusso delle acque sul fondo altrui è legittimo e deve essere sopportato dal vicino.

avvocati stillicidio Vicenza
il proprietario del tetto deve far ricadere l’acqua piovana sul suo fondo

Un tetto ,però, è parte terminale di una costruzione e la costruzione è frutto dell’opera dell’uomo. Ne discende che l’acqua che cade dal tetto non possa spandersi sul fondo finitimo.

A meno che…

A meno che non intervenga un accordo tra proprietari dei fondi confinanti in base al quale si consenta lo scarico delle acque.

Si parla, in questo caso, di vera e propria servitù di stillicidio.

 

 

servitù di stillicidio
servitù di stillicidio

 

Bene. Poniamo caso che siano utilizzate apposite grondaie e il deflusso delle acque venisse scolato sul fondo del proprietario del tetto.

Ci si chiede: se l’acqua caduta dalla grondaia, scesa sul terreno appartenente al medesimo titolare del fondo, di lì si espandesse e andasse ad immettersi in quello del vicino, come ci si dovrebbe regolare?
Da una parte si può ritenere che il proprietario dell’immobile da cui scolino le acque sia obbligato, in quanto custode del fabbricato, ad eseguire ogni intervento necessario per la manutenzione di eventuali tombinature e canali di scolo e comunque sia responsabile di eventuali infiltrazioni o danni conseguiti dai vicini.

Dall’altra parte, suvvia, se la molestia è del tutto contenuta  e limitata in un semplice ed innocuo schizzo d’acqua o in una temporanea pozzanghera, il vicino sarà tenuto a tollerarla.

 

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Vendita di immobile locato

Vendita di immobile locatofacciamo il punto sulla normativa che la disciplina.

Il caso è abbastanza frequente: il proprietario di un immobile stipula un contratto di locazione con un terzo.

Poi la proprietà dello stabile passa ad un altro soggetto per il tramite di un contratto di compravendita o per successione.

Che ne è del contratto d’affitto stipulato prima della cessione del bene?

L’acquirente, o comunque il nuovo proprietario, sarà tenuto a rispettare la locazione in essere.

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L’acquirente è tenuto a rispettare la locazione in essere al momento del trasferimento della proprietà

Il codice civile, infatti, stabilisce che “Il contratto di locazione è opponibile al terzo acquirente, se ha data certa anteriore all’alienazione della cosa ” (art. 1599 cc).

Non solo.

“Il terzo acquirente tenuto a rispettare la locazione  subentra, dal giorno del suo acquisto, nei diritti e nelle obbligazioni derivanti dal contratto di locazione”

Potrà, pertanto, legittimamente richiedere il pagamento dei canoni di locazione, sostituendosi al precedente proprietario.

Alcune precisazione sono necessarie.

In primis, è ovvio che la tutela dei diritti dell’affittuario viene data per i contratti posti in essere prima dell’alienazione del bene locato.

Al riguardo, il legislatore non precisa come debba essere data prova dell’anteriorità della stipula.

Si ritiene possa essere utilmente richiamata la disposizione codicistica secondo cui “La data della scrittura privata della quale non è autenticata la sottoscrizione non è certa e computabile riguardo ai terzi, se non dal giorno in cui la scrittura è stata registrata o dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di coloro che l’hanno sottoscritta o dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti pubblici o, infine, dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento” (Art. 2704 cc).

Vieppiù che il contratto di locazione, per non ricadere sotto la sanzione della nullità, deve essere necessariamente registrato, di tal che l’incombenza è utile per efficacemente appurare la data – o quanto meno il periodo – di stipula.

Tale previsione normativa ha un limite temporale.

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La durata della locazione da rispettare non supererà il novennio, a meno che il contratto non sia stato trascritto

Nel caso, infatti, di locazioni che siano state pattuite per un tempo molto prolungato, il nuovo proprietario sarà tenuto a rispettarle solo nel limite di un novennio dall’inizio della locazione. A meno che il contratto non sia stato trascritto: in questo caso l’acquirente dovrà rispettare la scadenza prestabilita. Altre due precisazioni. La legge previene eventuali pattuizioni elusive delle disposizioni poste a tutela del conduttore, stabilendo  la nullità della “clausola che prevede la risoluzione del contratto in caso di alienazione della cosa locata”. (art. 7 L.392/1978)

In secondo luogo, va evidenziato che la tutela è stata disciplinata solamente per le locazioni ed è tassativa: non potrà essere invocata, pertanto, in fattispecie diverse, quali comodato, usufrutto o leasing.

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Distanze tra costruzioni con pareti finestrate

La sentenza n. 4799/2017 del Tar Campania ci aiuta a fare il punto sulle distanze tra costruzioni con pareti finestrate.

Nell’interesse della collettività“.

Le distanze tra costruzioni con pareti finestrate sono imposte a tutela della salubrità, dell’igiene, della sicurezza delle persone: e sono valori assoluti, di tutti, non del singolo individuo, o di questo o quel proprietario di edifici, in quanto sono volte a  garantire sia l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell’edilizia, sia l’interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili .

distanze tra costruzioni
La distanza si osserva anche se una sola parete è finestrata e se gli immobili sono a quote diverse

In quanto tali sono imperative: non possono essere derogate, nemmeno con il consenso del vicino.

Leggiamo la norma attentamente: Art. 9 DM 1444/1968 (prima parte) “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;

2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;

3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.

Bene, ponendo l’attenzione al caso più diffuso, previsto al punto 2), ossia “nuovi edifici ricadenti in altre zone”, appuriamo che tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti deve intercorrere la distanza minima di metri 10.

E’ interessante notare l’applicazione di tale norma.

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In primis, la distanza va applicata in caso di pareti finestrate antistanti, ma – attenzione – dovrà essere osservata con riferimento “ad ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano” (cons. Stato n. 2086/ 2017).

In secondo luogo, la norma si applica anche alle sopraelevazioni, realizzate su immobili che si trovino già a distanza inferiore da quella prescritta, ma legittimamente, in quanto costruiti prima dell’entrata in vigore della legge in parola. Sopraelevazione, infatti, si considera in tutto e per tutto come nuova costruzione, come tale soggetta alle normative sopravvenute.

Non solo.

Per l’applicazione della disposizione in esame è sufficiente che un solo edificio, tra quelli antistanti, sia dotato di finestre, non essendo, al contrario, necessario che entrambi gli immobili abbiano vedute.

Da ultimo, come ha avuto modo di rilevare, una volta di più, la sentenza del Tar Campania con cui abbiamo aperto questo articolo, “il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti “.

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Rumori molesti: quale tutela?

Rumori molesti, facciamo il punto sulla tutela in tema di immissioni acustiche.

Va innanzitutto detto che il diritto al tranquillo godimento della dimora è tutelato sia dalla legislazione europea che da quella nazionale.

Per quel che concerne la normativa europea, secondo la Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo devono essere considerate condotte lesive del (tutelato dall’articolo 8 della convenzione europea) non solo l’accesso non autorizzato agli spazi di privata dimora, ma anche le immissioni di rumore, di odori e le altre forme di interferenza nel godimento della propria dimora.

A livello nazionale, è consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione quello secondo cui, a fronte delle immissioni acustiche, esistono due livelli di tutela: un regime pubblicistico che tutela la quiete pubblica e un regime civilistico, che tutela i rapporti tra privati. Secondo la Corte però l’eventuale rispetto dei limiti posti dalla normativa pubblicistica non fa venire meno l’illiceità della immissione da un punto di vista civilistico. Sotto tale punto di vista, infatti, il criterio per stabilire se un rumore è molesto non è quello del rispetto della normativa pubblicistica, ma quello della normale tollerabilità stabilito dall’articolo 844 codice civile e, in relazione a ciò, la Corte ha rilevato che “il superamento della soglia codicistica di tollerabilità delle immissioni ben può essere riscontrata pur nell’accertato rispetto di limiti di cui alla normativa tecnica” (Corte di Cassazione, n. 20927 del 2015).

Ancora più chiaramente, la Corte ha affermato che “in materia di immissioni, mentre è illecito il superamento dei livelli di accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell’interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di tollerabilità, l’eventuale rispetto degli stessi non può far considerare senz’altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi in concreto alla stregua dei principi di cui all’art. 844 Codice civile” (Cassazione, n. 8474 del 2015).

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Rumori molesti: doppia valutazione, pubblicistica e civilistica

Dunque, in sintesi, secondo la giurisprudenza della suprema Corte ben possono essere intollerabili (perché lesive, in concreto, del diritto ad una normale qualità della vita) quelle immissioni che pur rispettano la normativa tecnica (come ad esempio i regolamenti comunali sull’inquinamento acustico).

Il citato articolo 844 c.c. stabilisce poi che il giudice deve contemperare le esigenze della produzione con quelle della proprietà , tenendo eventualmente conto della priorità di un determinato uso.

In relazione a tale contemperamento, la Suprema Corte ha già somministrato un criterio guida, cui orizzontare il prudente apprezzamento del giudice, chiarendo che tale formula “deve essere interpretata, tenendo conto che il limite della tutela della salute e dell’ambiente è da considerarsi ormai intrinseco nell’attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, dovendo considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della produzione il soddisfacimento del diritto ad una normale qualità della vita.” (così Cassazione, n. 5564 del 2010)

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Sopraelevazione del fabbricato e distanza dall’edificio confinante

Sopraelevazione del fabbricato e distanza dall’edificio confinante: facciamo il punto. Il quesito è se, in caso di sopraelevazione del proprio immobile tale che la nuova costruzione sopraelevata risulti più alta dell’edificio confinante, si debba comunque rispettare la distanza di 10 metri prevista dal DM 1444 del 1969, dato che le parti dei due stabili non si fronteggiano. L’art. 9 del D.M. sopra citato prescrive per le nuove costruzioni “la distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.

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La distanza si computa solo tra pareti munite di finestre qualificabili come vedute

La finalità del DM n. 1444 del 1968 di prescrivere precise distanze tra fabbricati è quella di garantire sia l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell’edilizia, sia quello alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili.

Secondo la pacifica giurisprudenza amministrativa, le opere costruite in sopraelevazione rispetto ad un edificio preesistente costituiscono “nuova costruzione” e pertanto sono soggette alla disciplina sulle distanze. In merito, poi, alle modalità di calcolo della distanza, il Consiglio di Stato ha più volte statuito che “la distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (si veda, per tutte, Consiglio di Stato n. 2086 del 2017) E’ stato poi precisato che nel computo delle distanze vanno considerati tutti gli elementi costruttivi avanti i caratteri della solidità, stabilità e della immobilizzazione (in tal senso, Consiglio di Stato n. 2861 del 2015). La giurisprudenza ha, inoltre, chiarito, che la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all’art. 9 del D.M. n.1444/1968 si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute (secondo l’art. 900 Codice Civile sono vedute le finestre che permettono di affacciarsi sul fondo del vicino e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente) e e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre aventi caratteristiche di luce (quelle cioé che non permettono l’affaccio sul fondo del vicino).

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Usucapione: come si interrompe?

Usucapione: come si interrompe? Vediamo innanzitutto in cosa consiste.

usucapione possesso come proprietario
usucapione è il possesso di un bene in modo pacifico, continuo e non interrotto per il tempo stabilito dalla legge

L’usucapione è un metodo legale di acquisto della proprietà altrui attraverso il . In pratica è necessario che qualcuno si impossessi del bene altrui, utilizzandolo come se fosse l’effettivo proprietario, in modo indisturbato, per 20 anni nel caso di acquisto della proprietà (mobili o immobili), 15 per i fondi rustici, 10 per i beni mobili registrati (come, ad esempio, le automobili).   La Corte di Cassazione, anche recentemente (ordinanza 20611 del 31 agosto 2017) ha statuito che né la diffida né la messa in modo sono sufficienti  ad interrompere l’usucapione? Per la Suprema Corte  possono avere efficacia interruttiva solo atti che comportino per il possessore la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, come la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la consegna materiale di tutti i beni immobili sui quali si vanti un diritto di proprietà, per esempio, perché passati in proprietà esclusiva con sentenza passata in giudicato per effetto di divisione in lotti di un compendio ereditario. Secondo la Cassazione non è sufficiente neppure l’atto di disposizione da parte del proprietario, poiché la vendita in favore di altri soggetti, anche se conosciuta dal possessore, non esercita alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell’usucapione, rappresentando, rispetto al possessore, un cosa ininfluente. Ma allora che cosa deve fare il proprietario per interrompere l’usucapione? Sotto un profilo pratico, si può agire nel seguente modo:

usucapione causa
Usucapione, in assenza di riconoscimento del proprio diritto, inevitabile la causa in Tribunale

  • – se c’è la collaborazione del possessore e, quindi, i rapporti con il titolare sono pacifici: sarà sufficiente far firmare a questi una dichiarazione con cui egli riconosce espressamente all’effettivo proprietario tutti i diritti sul bene, ammettendo di poterne disporre solo in virtù del consenso del primo;
  • – se non c’è la collaborazione del possessore: si potrà notificare a questi un atto di citazione con cui il proprietario chiede la restituzione del proprio bene. Si tratta dell’atto che serve per intraprendere la normale causa in tribunale: un rimedio estremo, ma l’unico utile a rivendicare il diritto ed a conseguire il bene.

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