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Vendita immobile usucapito: è preliminarmente necessaria una sentenza che accerti l’acquisto della proprietà?


Vendita di immobile usucapito: senza provvedimento che accerti l’usucapione è possibile?

Premessa: tra il niente e il piuttosto, meglio il piuttosto.


Potremmo concludere qui il nostro articolo: se si avesse intenzione di vendere un immobile usucapito, sarebbe meglio essersi preventivamente dotati di un provvedimento che riconosca l’intervenuta usucapione piuttosto che esserne sprovvisti.


Questo per – in termini giuridici – “evitare teghe”, problemi, ottenere tombalmente un giudicato che ponga fine ad ogni questione in merito all’appartenenza dell’oggetto della futura vendita.

E se non avvenisse così?


Voglio dire, sono 50 anni che utilizziamo quel fondo come se ne fossimo i proprietari e nessuno ci ha mai detto nulla o è venuto a reclamare qualcosa. Ora avremmo la possibilità di venderlo ad un acquirente, che non ha tempo di attendere un provvedimento del tribunale che accerti l’usucapione.

Come si fa? Si può vendere ugualmente?

Facciamo un passo indietro, ma solo di un attimo, senza rifare tutta la storia dell’orso e perderci in meandri di discorsi giuridici già battuti, anzi fin troppo conosciuti in merito all’usucapione.


La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni.


Tale possesso deve essere stato continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico.

Stop.
Per ora basta così. Se lo desiderate, informazioni ulteriori potrete trovarle ai seguenti post (1, 2 , 34 ).

vendita senza dichiarazione di usucapione
vendita immobile usucapito: possibile senza sentenza?


Bene.


Poniamo caso che abbiamo tutti i requisiti richiesti dalla legge per l’acquisto a titolo di usucapione: ci vuole dell’altro? Ci vuole una sentenza che lo accerti?


No.


Avete letto bene, no!


Non lo diciamo noi, ma la Cassazione con una sentenza datata, non smentita, interessantissima.

La sentenza è dichiarativa non costitutiva


In buona sostanza, il nocciolo della questione risiede nell’attenta lettura della norma attinente l’usucapione di beni immobili, art. 1158 cc, la quale, lo abbiamo visto poco sopra, richiede il semplice possesso con i requisiti poc’anzi richiamati online patika.


Il possesso, di per sé, è una situazione di fatto, un potere, ma non un diritto, sicchè esso non può essere oggetto di compravendita, che ha ad oggetto il trasferimento della proprietà o di un diritto.


Se è protratto per oltre vent’anni, è pacifico, pubblico, ininterrotto allora determina l’acquisto per usucapione della proprietà: quella sì può essere trasferita con compravendita.


In sintesi, è l’esercizio stesso del possesso valido ad usucapionem che determina l’acquisto della proprietà, non già una sentenza di Tribunale. Questa, infatti, può tutt’al più accertare e dichiarare qualcosa che già è avvenuto  a prescindere, ma non già “costituire” il diritto di proprietà, in quanto quello si è già maturato, a titolo originario, per effetto del possesso stesso.


Argomentando diversamente, “si verificherebbe la strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario, ma non potrebbe disporre validamente del bene fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente”. Circostanza incompatibile con il normale contenuto del diritto di proprietà, che è assoluto.


Conseguentemente, la Suprema Corte ha espresso il seguente principio di diritto “Non è nullo il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell’usucapione, ancorchè l’acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario”.

vincolo espropriativo non rinnovato

Ma non ci vuole la trascrizione?


Potrebbe essere obiettato dai più eruditi che la legge impone la trascrizione delle sentenze dichiarative di usucapione, ai fini di segnare la continuità dei passaggi di proprietà che seguono un bene, quasi a volerne richiamare la necessità.

Tuttavia, tale incombente è qualificabile come “pubblicità notizia”, necessaria cioè a rendere noto a terzi una circostanza, l’avvenuto acquisto della proprietà, non già come requisito indispensabile per l’acquisto stesso.

Non tutti le ciambelle riescono col buco


Attenzione, e torniamo alla premessa  effettuata all’inizio di questo contributo, tra il niente e il piuttosto…meglio una sentenza che abbia messo le cose in chiaro e sia inattaccabile.


In difetto, un’eventuale trasferimento della proprietà potrebbe essere senz’altro oggetto di contestazioni da parte di chi si proclami reale proprietario del bene, negando l’usucapione e rivendicando il proprio diritto.


Chi abbia venduto, conseguentemente, dovrà farsi carico della responsabilità di quanto dichiari davanti al notaio: sia perchè potrà essere oggetto di contestazione da parte di terzi interessati, esponendo il bene ad una eventuale retrocessione al legittimo proprietario, con conseguenti danni che potranno essere richiesti dal (mancato) acquirente, sia per le conseguenze che la legge penale impone a chi rilasci dinanzi al pubblico ufficiale dichiarazioni false.

Il notaio, comunque, ha un obbligo di informazione e di chiarimento nei confronti delle parti: dovrà accertarsi che il compratore abbia ben chiaro il rischio che assume con l’acquisto.

L’acquirente, adeguatamente informato, per una maggior sicurezza del suo acquisto, in assenza delle visure ipocatastali ventennali, potrà, allora, richiedere specifiche garanzie, oltre quelle già previste dalla legge per l’evizione (art. 1483  e 1484 cc.) oppure preventivare un congruo risarcimento nel caso di esito infelice della vendita.  


Tra il niente e il piuttosto….

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Vendita immobile usucapito

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: è possibile?

 

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: è possibile?

 

Come noto, l’art. 40 della Legge L. 28 febbraio 1985, n. 47, prevede che gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali sono nulli qualora l’immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia, e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione.

La giurisprudenza ha chiarito che l’atto è nullo anche quando l’immobile sia caratterizzato da totale difformità della concessione e manchi la sanatoria.

 

Nel caso in cui, invece, l’immobile, munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità, non annullati nè revocati, abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione (nella specie, per la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile), non sussiste alcuna preclusione alla stipulazione del rogito notarile.

 

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: possibile se l’abuso non riveste caratteristiche essenziali

 

Ciò è quanto ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 32225/19 che ha esaminato il caso in cui vi era la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile ed ha quindi ritenuto che fosse lecitamente commercializzabile.

 

Ma come si può stabilire se vi è totale o soltanto parziale difformità dalla concessione edilizia?

 

Un aiuto viene offerto dall’art. 32 del Testo Unico in materia di edilizia (DPR 380 del 2001) che elenca quali siano le variazioni essenziali rispetto al progetto approvato.


In particolare, tale articolo stabilisce che “l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni“:

a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968;

b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;

c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;

d) mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito;

e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.

 

comunicazione inizio lavori in sanatoria

 

Il secondo comma dell’art. 32 stabilisce poi che “non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative“.

 

In sostanza, secondo quest’ultima disposizione, non possono dar luogo a totale difformità le modifiche interne che non comportano aumento di volume o superficie ma danno luogo soltanto ad una diversa distribuzione interna degli spazi.

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Vendita fabbricato parzialmente abusivo

Le responsabilità del proprietario di sito inquinato

Quali sono le responsabilità del proprietario di sito inquinato?

 

L’obbligo di bonifica dei siti inquinati grava solo sul responsabile dell’inquinamento in forza del consolidato principio “chi inquina paga“.

Pertanto, una volta riscontrato un fenomeno di contaminazione, i conseguenti interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento: soggetti che possono essere diversi dal proprietario dell’area.

 

 responsabilità del proprietario di sito inquinato
responsabilità del proprietario di sito inquinato

Secondo la giurisprudenza, il proprietario che non è responsabile dell’inquinamento, è tenuto ad adottare soltanto le misure di prevenzione come previsto dall’art. 245, comma 2, del d. lgs n. 152/2006.

Secondo tale disposizione “il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione che, secondo la definizione data dall’art. 240 D.lgs 152 sono quelle iniziative adottate “per contrastare un evento un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia“.

Gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e sicurezza gravano invece soltanto sul responsabile della contaminazione, cioé sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento.

 

proprietario sito inquinato

 

Il sopra citato art 245 comunque riconosce “al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità.

Anche la giurisprudenza, in una recente sentenza (TAR Trentino Alto Adige, n. 154 del 15 novembre 2019) ha confermato la differente disciplina prevista per il proprietario dell’area che non ha inquinato e quella prevista per il responsabile dell’inquinamento.

Infatti, ha statuito che “la previsione dell’obbligo di porre in essere le suddette procedure operative e amministrative in capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e la previsione di una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro comporta che l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga”) e non sul proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in tutto o in parte, la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.

 

 

 

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responsabilità del proprietario di sito inquinato

Le distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

Le distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

La recente Legge di conversione del DL 32/019 c.d. “sblocca cantieri” ha aggiunto all’art. 2 bis del testo unico edilizia (DPR 380/2001) il comma 1 ter, in base al quale “in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”.

 

In sostanza, è possibile demolire e ricostruire un fabbricato, nel rispetto delle distanze preesistenti, qualora vengano mantenuti l’area di sedime, il volume e l’altezza del fabbricato preesistente.

 

 

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distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

La disposizione in esame si è resa necessaria il quanto il concetto di ristrutturazione, attraverso la demolizione e ricostruzione, si è “allargato” nel tempo.

Nell’ambito dell’art. 3, comma 1 lettera d) del Dpr 380 del 2001, infatti, sono presenti due distinti tipi di ristrutturazione:

– la ristrutturazione “conservativa”, che può comportare anche l’inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma;

– la ristrutturazione edilizia cd “ricostruttiva”, attuata mediante demolizione, anche parziale, e ricostruzione, nel rispetto del volume, con la conseguenza che, in difetto, viene a configurarsi una nuova costruzione.

Tali tipologie di ristrutturazione sono identiche quanto alla finale realizzazione di un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” ma differiscono per la presenza (o meno) della demolizione (anche parziale) del fabbricato preesistente.

Quest’ultima, ove effettuata, nel testo originario dell’art. 3, doveva concludersi con la “fedele ricostruzione di un fabbricato identico”, al punto da avere identità di sagoma, volume, area di sedime e, in generale, caratteristiche dei materiali.

Le leggi che poi si sono succedute nel tempo (dapprima il DPR 27.12.2002, n. 301 e poi il D.L 21 giugno 2013 n. 69, convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98) hanno apportato alla definizione alcune modifiche con il risultato attuale che, nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente… 

In sostanza, con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”.

 

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Dalla ricostruzione normativa sopra riportata emerge dunque che, allo stato attuale, si può avere ristrutturazione anche qualora la ricostruzione a seguito della demolizione avvenga senza rispettare la sagoma e l’area di sedime originarie. Può accadere, infatti, che nel rispetto del volume preesistente, la ricostruzione venga ad occupare aree lasciate libere dalla costruzione preesistente.

In tal caso, però, la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato 4728/2017) aveva anticipato la disposizione normativa prevista dal decreto “sblocca cantieri” stabilendo che

– nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso – proprio perché coincidente per tali profili con il manufatto preesistente – potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze ora vigenti, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze ( e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa);

–  invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso – quanto alla sua collocazione fisica – rappresenta un qualcosa di nuovo, come tale tenuto a rispettare – indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione o nuova costruzione- le norme sulle distanze.

 

 

 

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

Perchè è rischioso comprare un immobile donato?

Alcune cose da sapere se si ha intenzione di comprare un immobile donato (e che il mediatore dovrebbe comunicare).

“La generosità significa dare più di quello che puoi, e l’orgoglio sta nel prendere meno di ciò di cui hai bisogno.”
KHALIL GIBRAN

Caro Khalil, il discorso non fa una piega, ma dare di più di quello che si può potrebbe creare delle difficoltà a chi riceve, specie se vi fossero potenziali coeredi.

Andiamo con ordine e partiamo da ciò che già abbiamo discusso più e più volte (link 1, link 2 link 3): la donazione è una sorta di anticipo di eredità.


Chi abbia ricevuto in vita deve poi mettere quanto conseguito nel calderone del patrimonio successorio da considerarsi al fine di valutare se vi siano state lesioni delle quote spettanti ad alcuni eredi, definiti necessari o legittimari.


Se, infatti, a questi ultimi rimarrà meno di quanto la legge abbia stabilito nei loro confronti, essi potranno agire in riduzione, ossia chiedere che i lasciti e le donazioni effettuate in vita dal defunto siano ridotti nella misura tale da reintegrare la quota lesa.

Comprare un immobile donato: le ragioni del cuore debbono considerare quelle della legge


Quando oggetto di donazione sia stato un bene immobile, la riduzione si opererà separando dall’immobile medesimo la parte occorrente per integrare la quota riservata, se ciò potrà avvenire comodamente (art. 560 cc), altrimenti dovrà essere messe interamente a disposizione dei coeredi che abbiano agito in riduzione, i quali potranno soddisfarsi sulla porzione di loro competenza, lasciando il residuo al beneficiario del lascito.


Si afferma al riguardo che l’azione di riduzione abbia effetti reali: non sarà aggredibile tanto il valore dell’immobile donato, ma il bene stesso, che fisicamente entrerà nel computo ereditario e potrà essere spartito (o venduto, con suddivisione del ricavato).

E se il bene oggetto di donazione fosse stato nel frattempo venduto ?


Se, cioè, il beneficiario dell’immobile donato avesse trasferito la proprietà del bene prima dell’esercizio dell’azione di riduzione operata dai coeredi lesi?

L’azione di riduzione ha effetti retroattivi e, seppure con alcune limitazioni, si esplica anche nei confronti dei terzi, siano essi acquirenti della proprietà o acquirenti di diritti reali di godimento o di garanzia.

Stabilisce, infatti, la legge che se i donatari contro i quali è stata pronunziata la riduzione hanno alienato a terzi gli immobili donati … il legittimario, premessa l’escussione dei beni del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti … la restituzione degli immobili. (art. 563 cc)

azione di riduzione
L’azione di riduzione da parte dei legittimari potrebbe mettere a rischio la stabilità dell’affare di chi volesse comprare un immobile donato.


Così l’acquisto del donatario e quello dei suoi aventi causa sono posti in condizione di instabilità per l’intero spazio di tempo che va dal momento della donazione a quello in cui il titolo di acquisto può essere impugnato dall’attore in riduzione.


Il donatario, tuttavia, trascorsi almeno vent’anni dal conseguimento della donazione potrà disporre del proprio diritto senza che i suoi aventi causa abbiano a temere di subire le conseguenze di un eventuale vittorioso esercizio dell’azione di riduzione da parte dei legittimari del donante. In tal caso è per legge preclusa la possibilità di restituzione dell’immobile da parte dei nuovi acquirenti, essendo assogettato alla riduzione il solo donatario, senza il coinvolgimento di terzi soggetti.

Orbene. Tiriamo le fila.


Se chi riceve in donazione un bene immobile potrebbe essere destinatario, in futuro, di un’azione di riduzione da parte di eventuali eredi lesi nella loro quota di legittima e se tale azione potrebbe comportare la retrocessione dell’immobile nell’ambito ereditario, per soddisfare i diritti dei soggetti che abbiano chiesto la riduzione, intaccando anche l’acquisto avvenuto ad opera di terzi medio tempore, allora potrebbero nascere delle grane e, quanto meno, la disponibilità del bene donato potrebbe essere limitata dalle eventualità sopra accennate.


Va aggiunto, circostanza non trascurabile, che il sistema bancario non concede agilmente credito garantito da ipoteca, se l’immobile offerto in garanzia è stato acquistato a titolo gratuito.

Vale a dire che potrebbero emergere gravi problemi di reperibilità di fondi per chi, interessato all’acquisto di un immobile donato, volesse conseguire un mutuo per pagarlo, in quanto la banca, se anche vi iscrivesse ipoteca, sarebbe considerata soccombente rispetto ai diritti di chi agisca in riduzione e vedrebbe volatilizzarsi il bene oggetto della ipoteca a garanzia delle somme erogate.


L’art. 561 cc infatti, stabilisce che gli immobili restituiti in conseguenza della riduzione sono liberi da ogni peso o ipoteca cui il donatario possa averli gravati.


Bisognerà, conseguentemente, essere alquanto fortunati a reperire un istituto di credito che si assuma questo rischio.


Certo, talvolta il possibile quadro ereditario è facilmente ricostruibile al momento della donazione, tanto da lasciare pochi margini di possibilità ad eventuali azioni di riduzione. Pensiamo al donatario figlio unico.


Anche in tali casi, tuttavia, l’insidia astrattamente potrebbe essere possibile e limitare comunque l’appetibilità commerciale del bene.


L’instabilità si verifica anche se il donante al momento dell’atto di disposizione non abbia coniuge, discendenti o ascendenti perchè i legittimari potrebbero sopravvenire in un secondo tempo.

Va ricordato, infatti, che ai fini della riducibilità non è consentita distinzione tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario (Cass. n. 1373/2009): il figlio nato nel matrimonio legittimo ha diritto di calcolare la legittima anche sui beni donati prima della sua nascita, il figlio nato fuori dal matrimonio sui beni donati prima del riconoscimento, il figlio adottivo sui beni donati prima del provvedimento che pronunzia l’adozione, il coniuge sui beni donati prima del matrimonio.
Senza contare l’ipotesi in cui il donante che abbia attribuito il bene al proprio unico figlio, potrebbe ledere i diritti del coniuge, legittimando l’azione di riduzione da parte di costui.


Donazione, pertanto, è una determinazione da valutare attentamente e da considerare alla luce di tutte le possibili insidie che ne potrebbero conseguire.

Il mediatore diligente è tenuto a rendere edotte le parti dei rischi che potrebbero emergere dall’acquisto di un bene donato?


Al quesito ha dato risposta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 965/2019)


Nel caso concreto i promissari acquirenti di un immobile si erano rifiutati di stipulare il contratto definitivo a fronte della scoperta, successiva al preliminare, che il bene fosse stato oggetto di donazione in capo alla parte venditrice.


La banca che avrebbe dovuto erogare il mutuo aveva ritrattato la propria disponibilità, non volendo incorrere in potenziali rischi di riduzione.
Conseguentemente gli attori erano a chiedere il rimborso dell’assegno versato al mediatore a titolo di provvigione per l’affare concluso.


La Corte Suprema ha preso le mosse per la propria decisione da una disposizione di legge, art. 1759 cc., a mente della quale il mediatore deve comunicare alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso.


Ebbene, “In considerazione degli inconvenienti cui dà normalmente luogo la provenienza da donazione deve pertanto affermarsi il principio che la provenienza da donazione costituisce circostanza relativa alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, rientrante nel novero delle circostanze influenti sulla conclusione di esso, che il mediatore deve riferire ex art. 1759 c.c. alle parti”

L’obbligo del mediatore di comunicare, ai sensi dell’art. 1759 c.c., comma 1, alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso, non è limitato alle circostanze conoscendo le quali le parti o taluna di essa non avrebbero dato il consenso a quel contratto, ma si estende anche alle circostanze che avrebbero indotto le parti a concludere quel contratto con diverse condizioni e clausole. Il dovere di imparzialità che incombe sul mediatore è, infatti, violato e da ciò deriva la sua responsabilità – tanto nel caso di omessa comunicazione di circostanze che avrebbero indotto la parte a non concludere l’affare, quanto nel caso in cui la conoscenza di determinate circostanze avrebbero indotto la parte a concludere l’affare a condizioni diverse” (Cass. n. 2277/1984).”.

Conclusione? Siate generosi, ma siatelo con avvedutezza, cercando di considerare le conseguenze della vostra liberalità, mettendo in condizioni chi ne beneficerà di non rischiare, in futuro, di perdere quanto conseguito o di non poterne disporre.

Per una consulenza sul rischio di comprare un immobile donato

da parte degli Avvocati Berto

Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione?

Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione? Il punto della giurisprudenza.

Gli Italiani sono famosi nel mondo per due cose: il Diritto romano e il diritto d’infischiarsene.
(Stellario Panarello)

L’istituto dell’usucapione è figlio di entrambi i sopracitati paradigmi.


Il diritto romano, infatti, ha fatto derivare dal sostanziale disinteresse del proprietario di un bene la possibilità di considerare in tutto e per tutto titolare dello stesso chi lo abbia posseduto ed utilizzato come proprio per un periodo di tempo consistente.


Del tema ce ne siamo già occupati (link 1, link 2, link 3).


Basti, per ora, ricordare che l’usucapione è un modo di acquisto della proprietà o di altri diritti reali tramite il possesso
continuato,
pubblico (non clandestino),
pacifico (non violento),
ininterrotto
per un periodo di tempo che – salvo alcuni casi particolari – per i beni immobili deve protrarsi per 20 anni.

usucapione terreno per coltivazione


Bene, oggi ci occupiamo di valutare se il semplice fatto di coltivare un fondo altrui può comportare l’usucapione, da parte di un soggetto che non sia il proprietario – ed in assenza di un rapporto giuridico che a monte costituisca titolo per detta attività.


Partiamo da una premessa.


Solo la sussistenza di un corpus, accompagnata dall’animus possidendi, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, che si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell’usucapione, raffigura il fatto cui la legge riconduce l’acquisto del diritto di proprietà.


Spieghiamo.


Chi agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi imposti per tale istituto e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, – ossia la materiale disposizione del bene oggetto del preteso diritto e l’esercizio di un’attività corrispondente a quella del proprietario – ma anche dell’animus, ossia dell’intenzione di tenere la cosa come se ne fosse titolari.


La Giurisprudenza, tuttavia, ha precisato che tale “animus” può eventualmente essere desunto in via presuntiva dalla stesso esercizio di attività corrispondente al diritto di proprietà se detta circostanza sia già di per sè indicativa dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria.


Sarà, allora, il convenuto a dover dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene sia stata conseguita dall’attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale.

coltivazione terreno usucapione
Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione? Corpus ed animus.


La coltivazione del terreno, con la messa a dimora di piante configura una attività, specifica ed importante, senza dubbio corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà; coltivare il terreno, infatti, significa disporre materialmente di esso. Se la coltivazione configura un comportamento pubblico, pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul fondo un potere di fatto corrispondente a quello del proprietario.


La coltivazione del terreno, con la messa a dimora di piante configura una attività, specifica ed importante, senza dubbio corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà; coltivare il terreno, infatti, significa disporre materialmente di esso. Se la coltivazione configura un comportamento pubblico, pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul fondo un potere di fatto corrispondente a quello del proprietario.


Ovviamente, a monte, l’acquisizione del possesso del terreno non deve essere avvenuta per un mero atto di tolleranza o di cortesia da parte dell’effettivo titolare.


La circostanza è dirimente, in quanto in tal caso la legge qualifica diversamente la disposizione del fondo da parte del soggetto che ne invochi l’usucapione: di detenzione si tratterà, (caratterizzata dall’assenza del cd animus, in quanto vi è la consapevolezza di non agire come proprietari), non già di possesso.


E poiché è il possesso che fonda l’acquisto per usucapione, sarà eventualmente necessario, per il preteso usucapiente, dimostrare l’interversione del possesso, art. 1141 cc, ossia che siano intervenuti atti esterni dai quali possa desumersi la modificata relazione di fatto con la cosa detenuta, vuoi per cause provenienti da un terzo, vuoi in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore (per esempio giudizialmente o extragiudizialmente, tramite una semplice dichiarazione di volontà, purchè dai caratteri inequivoci).


Il detentore deve, cioè, esercitare dei comportamenti contro il possessore volti a palesare esteriormente l’intenzione di sostituire la preesistente situazione detentiva con una nuova, in cui vanti per sé il diritto esercitato (ad esempio sostituendo le chiavi dell’ingresso al fondo, senza darne copia ai proprietari).


Da allora potranno decorrere i termini per l’acquisto ad usucapionem.


Per concludere, la coltivazione del fondo per il tempo richiesto dalla legge può costituire titolo d’usucapione, purchè si tratti dell’esercizio di un possesso con i caratteri richiesti dalla legge, non basato su alcun titolo che lo connoti come detenzione e, se acquisito per cortesia, ospitalità, tolleranza, siano intervenute circostanze idonee a modificare l’originario titolo.

Due sentenze interessanti: Cassazione civile, sez. II, sentenza 26/04/2011 n° 9325 Cassazione civile, sez. II, ordinanza 25 febbraio 2019, n. 5404

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione?

Risoluzione preliminare di compravendita di bene immobile: non basta una stretta di mano.

Risoluzione preliminare di compravendita: se riguarda un immobile è richiesta la forma scritta.

Dove regna l’onore la parola data sarà sempre sacra.”
PUBLILIO SIRO

Quante volte lo si sentiva dire in epoca passata: “è un uomo d’onore, basta la parola”.


In effetti, una volta, era sufficiente una stretta di mano tra gentiluomini per consacrare un patto, un accordo, un contratto. La forma scritta era ulteriore e ultronea, utile per dare ricognizione di ciò che era avvenuto più che per dargli origine.


Il contratto, per legge, è un accordo, per cui trova la sua genesi proprio sulla comune volontà, come ci siamo detti.

Più in particolare, il contratto è è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321 cc)


Tale accordo per il nostro codice civile riveste dignità massima, tanto che ha addirittura “forza di legge tra le parti” (art. 1372 cc) e può essere risolto in forza di un altro accordo, di senso contrario, volto ad eliminarne retroattivamente gli effetti: il mutuo consenso (o dissenso).

risoluzione verbale contratto preliminare


Ci eravamo soffermati qualche tempo fa (link), per determinati contratti il nostro legislatore al fine di consentire la certezza dei rapporti giuridici, imponga la forma scritta, senza la quale tali accordi sono nulli, per assenza di un requisito fondamentale.


L’art. 1350 cc ci dà un compiuto elenco di quali contratti debbano essere consacrati per iscritto.

Tra di essi “i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”.


Anche il contratto preliminare che abbia per oggetto l’alienazione di beni immobili deve essere stipulato per iscritto. L’art. 1351 cc, infatti, impone per il preliminare la medesima forma del contratto definitivo


Bene, abbiamo tutti gli elementi per occuparci dell’odierna questione attinente la risoluzione preliminare di compravendita.


Se due parti contraenti avevano sottoscritto un preliminare, possono, con una stretta di mano, in base ad un accordo solamente verbale, sciogliere il contratto?


La risposta è negativa ed una freschissima sentenza della Corte di Cassazione, che si unisce a molteplici altre, tutte dello stesso tenore, ci dice il perchè.


La fattispecie sottoposta all’attenzione degli ermellini riguardava la richiesta di condanna al versamento del doppio della caparra avanzata dai promissari acquirenti di un appartamento, a fronte del perdurante inadempimento del promittente venditore che, a loro modo di intendere, legittimava il recesso dal contratto preliminare e l’istanza risarcitoria.


Il convenuto si era costituito eccependo di non dovere alcunchè perchè il contratto era stato risolto verbalmente, di comune accordo tra le parti, cosicchè non era nemmeno possibile concepire un recesso da un contratto non più esistente.


A fondamento della propria tesi, il convenuto chiedeva fosse deferito giuramento decisorio per dimostrare la verità di quanto sostenuto.

risoluzione scritta preliminare compravendita
risoluzione preliminare di compravendita di bene immobile: è necessaria la forma scritta.


La statuizione della Suprema Corte è stata ineccepibile: “la risoluzione consensuale di un contratto riguardante il trasferimento, la costituzione o l’estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta ad substantiam non soltanto quando il contratto da risolvere sia definitivo, ma anche quando sia preliminare… Con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 2739 c.c., il giuramento non può essere ammesso”.


Va, infatti, osservato che le esigenze poste a fondamento della prescrizione della forma scritta con riguardo ad un determinato contratto concernente diritti reali immobiliari, sussistano anche per l’accordo risolutorio di esso.


Conseguentemente, la risoluzione consensuale di un contratto preliminare riguardante il trasferimento, la costituzione o l’estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta, al pari del contratto risolutorio di un definitivo, rientrante nell’espressa previsione dell’art. 1350 c.c., dato che la ragione giustificativa dell’assoggettamento del preliminare alla forma ex art. 1351 c.c., da ravvisare nell’incidenza che esso spiega su diritti reali immobiliari, sia pure in via mediata, tramite l’assunzione di obbligazioni, si pone in termini identici per il contratto risolutorio del preliminare stesso.

Il promittente venditore, pertanto, è stato condannato a restituire il doppio della caparra ricevuta, a fronte della legittimità del recesso operata dalle controparti.

La sentenza:Cass. civ. Sez. II, n. 30446/2018

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risoluzione preliminare di compravendita

Rumore traffico stradale: il rispetto della normativa di settore non fa venir meno il criterio della normale tollerabilità

Rumore traffico stradale: la normativa di settore per la realizzazione della strada non elide le disposizioni codicistiche in materia di immissioni rumorose.

Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada.

(Jack Kerouac)

L’immagine dipinta dal fantastico scrittore statunitense, padre del movimento beat, è splendida: peccato che spesso ai margini della strada vi siano residenti non del tutto ammaliati dal rumore e dalle emissioni della macchina veloce.


La riflessione di oggi si sofferma sul fenomeno estremo, ma purtroppo ricorrente, di una strada il cui rumore del traffico veicolare sia divenuto insopportabile.


Sulla disciplina codicistica (art. 844 cc.) contemplante i limiti delle cosiddette immissioni moleste ci siamo soffermati più volta (link 1, 2 , 3) quando abbiamo rilevato come sia previsto che il proprietario di un fondo debba sopportare i rumori che non superino la normale tollerabilità, vietando, implicitamente, quelli che la oltrepassino.


Bene.


In materia di inquinamento acustico derivante da traffico veicolare vi sono normative specifiche volte a disciplinare opportunamente misure di contenimento e di prevenzione del rumore stradale. Fra queste il DPR 142 del 2004.

rumore traffico veicolare


Che succede nel caso in cui le strade vengano realizzate nel rispetto di tutti i canoni stabiliti da tali normative, ma ciononostante promanino rumori molesti?


Sul punto sono intervenute più pronunce della Corte di Cassazione, la più recente delle quali – n 28893/2018 – ci serve di spunto per rispondere al quesito.


Il caso verteva due abitanti di una cittadina piemontese che avevano convenuto in giudizio la società autostrade lamentando l’insopportabile rumore proveniente da un tratto autostradale finitimo alla loro dimora e, conseguentemente all’accertamento del superamento del livello massimo di immissioni rumorose, chiedevano un provvedimento volto a imporre l’esecuzione di opere necessarie per l’eliminazione della rumorosità, oltre al risarcimento dei danni alla salute ed esistenziali patiti a causa di tali fenomeni.


La società convenuta si costituiva rilevando di aver rispettato rigorosamente tutte le normative di settore in materia immissioni rumorose derivanti da traffico stradale e conseguentemente chiedeva il rigetto delle istanze attoree.

rumore autostrada
rumore traffico stradale: se l’infrastruttura risponde ai parametri per il contenimento delle immissioni si deve operare comunque il riferimento alla normale tollerabilità ex art. 844 cc


La Suprema Corte si è pronunciata con estrema chiarezza, rilevando che “mentre è senz’altro illecito il superamento dei livelli di accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell’interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità, l’eventuale rispetto degli stessi non può fare considerare senz’altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi alla stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni”.


In buona sostanza, non è corretto affermare che il rispetto dei limiti fissati dalla disciplina di settore precluderebbe qualunque ulteriore vaglio di tollerabilità ex art. 844 c.c., ossia che la normativa speciale faccia venire meno le previsioni generali del codice civile in materia di immissioni.

Varrà sempre il criterio della tollerabilità, posto dalla legge a bilanciamento di opposte esigenze di chi abbia o faccia un’attività che promani rumore e chi tale immissione debba sopportarla.




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RUMORE TRAFFICO STRADALE

Quali rimedi in caso di acquisto di un bene viziato?

Rimedi in caso di acquisto di un bene viziato: cosa sapere e come muoversi.

“Ho comprato delle batterie, ma non erano incluse.


(StevenWright)

Partiamo da una battuta per stemperare i toni.

Anche se quando si scopre che un acquisto appena effettuato risulta essere viziato, malgrado i “dineri” li abbiamo versati uno sopra l’altro, c’è poco da ridere.

Partiamo da una considerazione di fondo: tra le principali obbligazioni poste a carico del venditore c’è quella di “garantire il compratore dai vizi della cosa”. (art. 1473 cc).

Soffermiamoci, allora, ad esaminare alcuni rimedi che la legge assicura al compratore sfortunato, in caso di acquisto di un bene viziato.

  • Punto primo: la garanzia è operativa anche se il venditore non sia a conoscenza che il bene presenti difetti. Pertanto, la sua buona fede non lo discolperà, perché in ogni caso dovrà rispondere dell’obbligo che la legge gli pone a capo (e che tra poco vedremo in cosa consisterà).
  • Punto secondo: l’ eventuale malafede del venditore – ossia la vendita del bene con vizi colpevolmente da lui ignorati – lo obbligherà, in aggiunta, ad un eventuale ulteriore risarcimento del danno.


E se il compratore fosse stato a conoscenza dei vizi presenti sul bene?

In linea di massima non gli sarà riconosciuto alcun rimedio, poiché in questo caso il suo acquisto sarebbe stato avveduto ed a ragion fatta, essendosi rappresentato un affare che presentava, ben chiare, le condizioni qualitative del bene.

Se gli piace così, fatti suoi.

In tal senso, la legge dispone che “non è dovuta la garanzia se al momento del contratto il compratore conosceva i vizi della cosa:parimenti non è dovuta, se i vizi erano facilmente riconoscibili(art. 1491 cc).

In quest’ultimo caso si impone all’acquirente un minimo di diligenza nell’ esaminare il bene che intenda comprare.

Tuttavia, prosegue la norma, la garanzia incombente sul venditore rimane inalterata, anche se i vizi fossero stati agilmente appurabili, se questi abbia dichiarato che la cosa ne fosse esente.

Bene.

Nel caso in cui i vizi dovessero emergere in epoca successiva all’acquisto?

Sia chiaro, facciamo riferimento a difetti già presenti sul bene, ma non rilevabili perché occulti, sconosciuti magari anche al venditore.


Siamo nell’ipotesi della garanzia per i cd vizi occulti, per la quale il nostro codice civile impone condizioni e termini ben precisi.

L’acquirente, infatti, dovrà:

  • denunciare i vizi al venditore entro 8 giorni dalla scoperta (fatta salva la possibilità per le parti di concordare un termine più ampio in sede contrattuale).
  • agire in giudizio – nel caso di inerzia del venditore – entro 1 anno dalla consegna (e non dalla denuncia di cui sopra).

Conseguenze di un colpevole ritardo da parte dell’acquirente per le attività appena indicate?

Decadenza e prescrizione. Se non denuncia i vizi entro il termine assegnato,decadrà dal poter proporre l’azione giudiziaria. Allo stesso modo,se non proporrà causa entro il termine annuale, la possibilità di far valere la garanzia sarà da considerarsi prescritta.

Sono doverose alcune precisazioni, che debbono essere tenute ben chiare per poter consapevolmente muoversi nella complessa normativa indicata.

1. Non sarà necessario provvedere alla denuncia se la controparte abbia già riconosciuto l’esistenza dei vizi.

E’ inutile, infatti, porre a carico dell’acquirente un onere ultroneo,se il venditore abbia già appurato i difetti lamentati.

E’ovvio, comunque, che di tale circostanza chi acquista ne dovrà dar prova, per cui, in ogni caso, per non sapere né leggere né scrivere, meglio avere un pezzo di carta in mano.

L‘onere della prova di aver denunziato al venditore i vizi della cosa venduta entro otto giorni dalla scoperta, infatti, incombe sul compratore, in quanto tale denunzia costituisce una condizione per l’esercizio dell’azione giudiziaria.

2. il termine decadenziale per la denuncia, come abbiamo detto, decorre dalla scoperta dei vizi.

Per giurisprudenza pacifica, la scoperta consiste nell’acquisizione con certezza obiettiva e completa della consistenza dei difetti, sicché,ove avvenga gradatamente ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sulla consapevolezza della sua entità, occorre far riferimento al momento in cui essa si sia completata.

Talvolta, ai fini del riscontro oggettivo e pieno della reale entità del vizio, sarà necessaria una perizia, che ne stabilisca genesi e portata, per cui dalla relativa acquisizione dell’elaborato tecnico potrà considerarsi decorrente il termine decadenziale.

rimedi in caso di acquisto di un bene viziato 
vanno osservati attentamente i termine di decadenza e prescrizione

3. interruzione della prescrizione

In relazione al termine di un anno per far causa, che ribadiamo decorrere non dalla denuncia del vizio, ma dalla consegna del bene,va precisato che, a differenza di quanto avviene normalmente per la prescrizione ordinaria, che può essere interrotta con un atto idoneo, ad esempio una diffida formale, nel nostro caso può essere utilmente interrotto solo dalla proposizione di una domanda giudiziale e non mediante atti di costituzione in mora.

Quali sono i rimedi offerti dalla legge al compratore che abbia denunciato i vizi in tempo e voglia far valere la garanzia in giudizio?

Due sono le possibilità:

  1. chiedere la riduzione del prezzo.

Se a seguito di contratto di compravendita, il bene in oggetto presenti dei vizi che determinino la diminuzione del suo valore o la diminuzione dell’utilità che dal medesimo si può trarre, l’acquirente, ha diritto di chiedere una diminuzione del prezzo pattuito in una percentuale pari alla riduzione che il valore effettivo della cosa venduta subisce a causa dei vizi, in modo tale da essere posto nella situazione economica equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se la cosa fosse stata immune da vizi.

Talvolta , può risultare arduo stabilire con precisione l’esatto ammontare del minor valore gravante sul bene in virtù dei difetti appurati; si osserva, in proposito, che la legge non imponga particolari criteri da seguire per la determinazione della somma dovuta per riduzione di prezzo e sarà consentito al giudice il ricorso a criteri equitativi secondo il suo prudente apprezzamento.

2 Chiedere la risoluzione del contratto

nei casi più gravi in cui i vizi rendano la cosa venuta del tutto inidonea all’uso cui era destinata.

In tal caso di risoluzione del contratto il venditore deve restituire il prezzo e rimborsare al compratore le spese e i pagamenti legittimamente fatti per la vendita.
Il compratore, dal canto suo, dovrà restituire il bene acquistato, a meno che questo non sia perito in conseguenza dei vizi, della quale circostanza se ne farà esclusivo carico il venditore.

Si noti, i due rimedi appena accennati sono alternativi, o l’uno o l’altro, ma non cumulabili, non possono essere chiesti congiuntamente.

La scelta giudiziale, operata per l’uno o per l’altro, è irrevocabile.

Come abbiamo accennato sopra, quando abbiamo parlato della consapevolezza o meno da parte del venditore circa la presenza di vizi sul bene ceduto, il compratore potrà chiedere, in aggiunta ai rimedi appena esaminati, anche il risarcimento del danno alla controparte che non provi di aver ignorato senza colpa i vizi della cosa.

Tra tutte le possibilità contemplate dalla legge in favore del compratore, manca quella di poter chiedere l’esatto adempimento,ossia l’eliminazione dei vizi presenti sul bene (a meno che le parti non l’abbiano espressamente contemplata).

Potrebbe risultare incongrua tale singolarità, ma è stato osservato come l’obbligazione principale del venditore non abbia per oggetto, neppure in via sussidiaria, un obbligo di fare relativo alla materiale struttura della cosa venduta. Ne consegue che l’acquirente non dispone, neppure a titolo di risarcimento del danno in forma specifica, di un’azione di esatto adempimento per ottenere dal venditore l’eliminazione dei vizi della cosa venduta, motivo per cui,in assenza della richiesta di risoluzione del contratto da parte dell ‘acquirente, il Giudice non può imporre al venditore di eseguire direttamente i lavori ritenuti necessari per l’eliminazione del vizio.

A meno che….

…il venditore non solo abbia riconosciuto i vizi, ma si sia impegnato espressamente alla loro eliminazione.

Sul punto va detto che la giurisprudenza si sia scatenata su come possa essere considerata questa circostanza.

Sarebbe tedioso e troppo tecnico riportare tutte le oscillazioni della Corte di Cassazione.
Basti, per il momento, riportare l’orientamento attuale e predominante (conseguente ad una pronuncia a Sezioni Unite del 2012)..

L’impegno del venditore all’eliminazione dei vizi non fa venir meno le garanzie tradizionali previste dalla legge in materia di compravendita – riduzione del prezzo e risoluzione del contratto – le quali, pertanto, potranno essere esercitate nei termini previsti (8 giorni per la denuncia, 1 anno per l’azione), ma ad esse si aggiunge, senza sostituirle.

In buona sostanza, tale impegno sarà configurabile come una terza opzione, ulteriore alle altre due.

Con una buona notizia, quella di non soggiacere ai rigidi termini prescritti per gli altri due rimedi, tipici della disciplina della garanzia prevista dalla legge, ma a quelli ordinari, contemplati dal codice civile per la prescrizione di un obbligazione contrattuale:dieci anni.

Rimedi in caso di acquisto di un bene viziato. Altre due precisazioni.

Ai medesimi termini stabiliti per la disciplina contemplata in materia di vizi occulti, soggiace l’eventualità che il bene venduto, pur senza difetti, non abbia le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l’uso a cui è destinato (ad esempio, se venisse ceduto un bene usato e non nuovo, oppure se un macchinario venduto per conseguire un risultato promesso, risultasse in realtà inidoneo).

In tale ipotesi, il venditore potrà chiedere la risoluzione del contratto, pur dovendosi azionare sempre con denuncia tempestiva entro otto giorni e promuovere il giudizio entro l’anno dalla consegna.

Può capitare, talora, che venga consegnato un bene non già difettoso, o privo delle caratteristiche essenziali che ne avevano determinato l’acquisto, ma completamente diverso da quello pattuito, vuoi perché appartenente ad un genere differente da quello posto a base della decisione del compratore, oppure con difetti che gli impediscono di assolvere alla sua funzione naturale.

Portiamo ad esempio la vendita di un fondo  inedificabile, in realtà privo di tale caratteristica, oppure di un veicolo asseritamente predisposto per la guida da parte di persone con disabilità, ma invece fattivamente inadatto a tale scopo

Si parla, in gergo, di “aliud pro alio”, ossia di una cosa per una altra, di fischi per fiaschi.

In questo caso, essendo venuta meno in toto l’obbligazione principale del venditore, che è quella di consegnare la cosa pattuita, all’ acquirente saranno riconosciuti non solo i rimedi previsti per la disciplina della compravendita, ma quelli vigenti in via generale per tutte le ipotesi di inadempimento di un contratto, stabilite dall’art. 1453 cc: l’esatto adempimento o la risoluzione del contratto, senza alcun onere di denuncia (e quindi di decadenza) e con termine di prescrizione decennale.

Sarebbe utile, a questo punto, accennare e soffermarsi sulla disciplina e tutela – ulteriore – offerta all’acquirente “consumatore”dal codice del consumo, ma per esaminarla e capirla attentamente rimandiamo ad altro post.

rimedi in caso di acquisto di un bene viziato

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto

 in materia di rimedi in caso di acquisto di un bene viziato

A chi appartiene il muro di confine?

Come si fa a stabilire a chi appartiene il muro di confine? Facciamo il punto.

Proverbio cinese “Purtroppo sono più numerosi gli uomini che costruiscono muri di quelli che costruiscono ponti”.

Ed alla fine i muri sono talmente tanti che si potrebbero perdere le fila su  a chi appartengano.

Mettiamo il caso tipo: un muro di confine, posto lì, a cavallo tra due o più proprietà.

C’è da sistemarlo, da effettuare manutenzione, da attaccargli un palo, da appoggiarci una costruzione, da abbatterlo: ma a chi appartiene? Chi si deve sobbarcare i costi? Chi può utilizzarlo come se fosse proprio?

muro di confine
a chi appartiene il muro di confine? la legge ci dà due presunzioni

In primo luogo, bisogna vedere ove ricada l’opera muraria: se sia ubicata interamente su un solo terreno tra quelli confinanti, ne discende che appartenga al proprietario del fondo, per il principio dell’accessione (“tutto ciò che è costruito su un terreno appartiene al proprietario dello stesso”).

 

Altrimenti… le cose si complicano, ma la legge a disciplina è molto chiara quanto concisa.

 

Innanzitutto, per il muro posto a cavallo tra due fondi opera una presunzione di comunione.

 

Stabilisce, infatti, l’art. 880 cc che “il muro che serve di divisione tra edifici si presume comune fino alla sua sommità e, in caso di altezze ineguali, fino al punto in cui uno degli edifici comincia ad essere più alto. Si presume parimenti comune il muro che serve di divisione tra cortili, giardini e orti o tra recinti nei campi”.

Il muro, pertanto, affinché operi la presunzione di comproprietà, deve essere posizionato su porzioni di suolo comuni ai due proprietari confinanti e sia posto a dividere edifici, cortili, giardini e orti, campi.

 

In presenza di tali presupposti la legge presume la comunione, che può essere vinta con qualsiasi evidenza che dimostri il contrario.

Taluna giurisprudenza attribuisce il vigore di tale norma al caso in cui il muro divida entità omogenee di fondi (cortili da cortili, campi da campi etc) e pertanto non troverebbe applicazione in caso di muro che separi, ad esempio, un edificio da un giardino.

E’ stato, parimenti, osservato che la comunione riguardi l’intero muro, cosicchè i proprietari dei fondi confinanti dovranno essere ritenuti comproprietari dell’intera opera e non già soltanto della metà versante sul proprio terreno.

La presunzione richiamata è destinata ad essere vinta nel caso siano presenti elementi volti ad attribuire la proprietà esclusiva del muro ad uno solo dei confinanti.
L’art. 881 cc, infatti, stabilisce che “Si presume che il muro divisorio tra i campi, cortili, giardini od orti appartenga al proprietario del fondo verso il quale esiste il piovente e in ragione del piovente medesimo”.

In buona sostanza, se vi sono opere – come i pioventi – inclinati in modo tale da far defluire la pioggia verso uno dei fondi confinanti, si presume che il muro appartenga a quest’ultimo, essendo, infatti, vietato a chi esegua delle opere edilizie di comportare lo stillicidio delle acque su immobili altrui.

proprietà muro di confine

La norma continua e prevede che “Se esistono sporti, come cornicioni, mensole e simili, o vani che si addentrano oltre la metà della grossezza del muro, e gli uni e gli altri risultano costruiti col muro stesso, si presume che questo spetti al proprietario dalla cui parte gli sporti o i vani si presentano, anche se vi sia soltanto qualcuno di tali segni”.

In questo caso tali elementi sono sintomatici del fatto che chi li abbia posizionati debba per forza essere l’unico proprietario del muro, avendo operato come se lo stesso fosse di sua esclusiva titolarità.

Due annotazioni: l’elenco degli elementi architettonici indicati è tassativo, e pertanto non potranno essere invocati a rilevare la proprietà esclusiva del muro opere edilizie diverse.

In secondo luogo la norma impone che se vi siano sporti e vani in entrambi i lati del muro, criterio dirimente per attribuirne la titolarità sarà su tutti la direzione dell’eventuale piovente.

Una volta attribuita la proprietà del muro sarà possibile risalire su quale confinante incomba eseguire le opere di manutenzione.

Se esso sia in comunione, le riparazioni e le ricostruzioni necessarie “sono a carico di tutti quelli che ne hanno diritto e in proporzione del diritto di ciascuno, salvo che la spesa sia stata cagionata dal fatto di uno dei partecipanti”.

La legge, comunque, dà la facoltà al comproprietario che non voglia eseguire le opere manutentive di rinunciare alla propria quota di titolarità di tale bene “purchè il muro comune non sostenga un edificio di sua spettanza” (art. 882 cc)

La dottrina ha precisato come non sia possibile una rinuncia parziale, ossia limitata alla sola porzione ammalorata.

Dalla rinuncia deriverà un accrescimento della quota di proprietà degli altri partecipanti.

 

 

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