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Nascondere o falsificare un testamento? Indegnità a succedere

Nascondere o falsificare un testamento può comportare la perdita dei diritti successori in capo all’autore.

Il pianto dell’erede sotto la maschera è riso.
(Publilio Siro)


Ride bene chi ride ultimo.

Indegno.


persona che, per le sue colpe o la sua condotta, non possa esercitare certi diritti o assumere determinati uffici” (Treccani)


L’apertura di un testamento, al netto dell’evento luttuoso di cui è conseguenza, crea sempre un po’ di suspence.


Talvolta, le disposizioni del de cuius destano sorpresa per il loro contenuto o per i destinatari che coinvolgono.

Il pensiero dei “delusi” corre subito ad indagini sulla capacità mentale del disponente al momento del confezionamento delle ultime volontà, (“se fosse stato in sé non avrebbe scritto così..”) oppure a possibili manipolazioni intercorse nella stesura del testamento (“lo ha scritto lui? È la sua firma? È la sua grafia?”).


Bene. Mettiamo caso che venga scoperto l’arcano e, udite udite, si apprenda che effettivamente sì, un terzo ci ha messo lo zampino: ha scritto di pugno suo il testamento, spacciandolo per originale, oppure ha effettuato delle modifiche a quello già esistente, sperando che nessuno se ne sarebbe accorto.


Sui possibili rimedi in caso di testamento alterato, ci siamo soffermati in questo articolo.


Oggi concentriamo la nostra attenzione su un’ulteriore conseguenza relativa alla scoperta dell’intervento di un terzo nella redazione del testamento.

Nascondere o falsificare un testamento

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Se, infatti, la sanzione di nullità dell’atto di ultime volontà fosse il solo risvolto causato dall’apocrifia, talora l’autore del falso potrebbe essere comunque beneficiato dalla successione.


Mettiamo caso, per esempio, all’ipotesi in cui il responsabile dell’adulterazione fosse il figlio, o il coniuge del de cuius.
Questi sarebbero comunque eredi legittimi in caso di annullamento del testamento, riconosciuto in tutto o in parte contaminato dal loro intervento.


A questo risultato perverso mette una pezza la legge, contemplando l’ipotesi di indegnità a succedere.


E’ escluso dalla successione chi ha indotto con dolo o violenza la persona, della cui successione si tratta, a fare, revocare o mutare il testamento, o ne l’ha impedita; chi ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata ; chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso .


Esclusione dalla successione.

Una forma di incapacità successoria, che priva il soggetto chiamato all’eredità della possibilità di acquisire o mantenere la qualifica di erede.


Parte degli studiosi ritiene che l’esclusione operi ipso facto, senza che debba essere pronunciata da una sentenza, la quale – tutt’al più – potrà avere effetto dichiarativo, ossia di accertare qualcosa che si è già consolidato di per sé.

Larga parte degli interpreti, tuttavia, e così anche la giurisprudenza, attribuisce all’intervento del giudice il potere di precludere la conservazione dei diritti successori acquistati dall’indegno a seguito dell’accettazione.


Conseguentemente, la possibilità di privare l’indegno della propria qualifica di erede sarebbe sottoposta ad apposita iniziativa giudiziaria, esercitabile da chiunque vi abbia interesse (anche non di natura patrimoniale), e azionabile nel termine di prescrizione ordinario di dieci anni, decorrente dall’apertura della successione.


La causa può essere intrapresa anche nei confronti degli eredi dell’indegno.


Il provvedimento potrà disporre anche la restituzione dei beni conseguiti dall’indegno in forza del fenomeno successorio, nonché dei frutti nel frattempo percepiti.


I casi di indegnità – tassativi – sono contemplati dall’art. 463 cc

Tra questi, come abbiamo visto, vi è anche la fattispecie del sopprimere, nascondere o falsificare un testamento.


Ipotesi, tutte, nelle quali l’autore abbia inteso impedire l’attuazione della volontà espressa dal de cuius in ordine alla successione, oppure confezionarne una ex novo.


Si noti, deve essere un atto volontario – altrimenti la sanzione non avrebbe ragione d’essere – ma gli interpreti non ritengono sufficiente il semplice tentativo (ad esempio, l’ occultamento provvisorio del testamento, oppure l’inerzia momentanea dal presentarlo al notaio da parte del possessore), bensì la concreta attuazione di un proposito volto a regolare la successione in modo diverso da quello altrimenti predisposto dal de cuius.


Diversamente, non potrà essere statuita l’indegnità.


Ad esempio, la suprema corte ha avuto modo – più volte – di affermare che “la formazione o l’uso consapevole di un testamento falso è causa di indegnità a succedere se colui che viene a trovarsi nella posizione di indegno non provi di non aver inteso offendere la volontà del “de cuius”, perché il contenuto della disposizione corrisponde a tale volontà e il “de cuius” aveva acconsentito alla compilazione della scheda da parte dello stesso nell’eventualità che non fosse riuscito a farlo di persona ovvero che il “de cuius” aveva la ferma intenzione di provvedervi per evitare la successione “ab intestato”. (cass. 1905/2020)

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Va precisato che la legge contempli la possibilità – per il testatore – di riabilitare l’indegno. Ciò potrà avvenire ovviamente qualora il disponente abbia avuto conoscenza della condotta reproba e del suo autore e abbia nonostante questo inteso espressamente affrancarlo dalle conseguenze altrimenti gravanti su di esso.


La legge, al riguardo, contempla due ipotesi.

Una di riabilitazione espressa, nel testamento o in atto pubblico ad hoc, con cui il testatore esplicitamente menziona la propria volontà di reintegrare il soggetto altrimenti indegno.


Un’altra si ha quando il disponente non faccia cenno di riabilitazione, ma – pur conoscendo la realtà dei fatti incriminati – abbia, ciò nonostante, incluso nelle proprie ultime volontà l’indegno.


In tal caso, tuttavia, potrà essere ammesso a succedere nei limiti della disposizione testamentaria: non potrà reclamare nulla di più quando, ad esempio, dovesse essere leso nei propri diritti di legittimario e intendesse agire in riduzione. Oppure, se dovesse venir meno l’accettazione di qualche altro coerede, non potrà beneficiare dell’accrescimento di tale quota.

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in merito alle conseguenze di

Nascondere o falsificare un testamento

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E’ possibile pattuire la restituzione del bene donato?

 

E’ possibile pattuire la restituzione del bene donato?

 

 

“Limitare il dono in anticipo dicendo: arriverò fin lì, ma non oltre, significa non dare assolutamente nulla.”
SAN FRANCESCO D’ASSISI

 

 

Apriamo il libro delle fiabe e leggiamo una storiellina triste triste: c’era una volta un padre molto buono, dai capelli bianchi bianchi. Un giorno, suo figlio gli chiese un aiuto perchè voleva sposarsi, ma non aveva un tetto dove andare a vivere con la giovane mogliettina. Il canuto genitore pensò, magnanimamente, di donare una casetta al discendente impiegando ogni denaro che aveva risparmiato. Dopo qualche mese dalle nozze, il figlio morì, la moglie, affranta ma nemmeno tanto, si fece una nuova vita e rimase a vivere nella casa ereditata dal marito col suo nuovo compagno, interrompendo ogni rapporto con l’anziano – ed ormai squattrinato – ex suocero.


Fine della storia. Lacrime. Fazzoletti.


Continuiamo noi avvocati la favoletta e cerchiamo di darle un finale diverso.


… il magnanime vegliardo, prima di compiere un atto così importante come la donazione, ben messo in guardia sui rischi  d’ambito successorio che un simile contratto avrebbe potuto comportare, si era informato se fosse possibile, eventualmente, revocare una donazione.


Aveva trovato un articolo su interessante sito internet  dove si affermava che i casi di revoca sono tassativi e limitati ad ipotesi molto remote (sopravvenienza di figli, ingratitudine).


Naaa, difficile potessero verificarsi simili eventualità.


Non si perse d’animo, si rivolse ad un avvocato, il quale consultò un enorme libro polveroso,il codice civile, girò qualche pagina e …. tac! Art. 791,  “condizione di reversibilità”.

 


Il donante può stipulare la riversibilità delle cose donate, sia per il caso di premorienza del solo donatario, sia per il caso di premorienza del donatario e dei suoi discendenti ”.


Vale a dire, chi dona può pattuire che se il donatario morirà prima di lui, il bene gli verrà restituito.

 

 

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è possibile pattuire la restituzione del bene donato

 


Andiamo con ordine.


Il patto di riversibilità è volto a valorizzare il carattere personale della donazione: il donante vuole beneficiare quello specifico soggetto, ed eventualmente i suoi discendenti, ma non altri.

Cosicchè, se il destinatario della donazione dovesse morire, il bene donato rientrerà nella sfera del donante superstite piuttosto che cadere nel patrimonio ereditario del donatario defunto da spartire tra i suoi eredi.

Innanzitutto vi deve essere un esplicito accordo per la riversibilità, pattuito al momento della stipula della donazione, o in epoca successiva, purchè comunque sia accettato da entrambi i contraenti: donante e donatario.


Tale clausola può avere ad oggetto tanto l’intero bene donato, quanto solo una parte di esso.


Il patto di reversibilità può comportare, a seconda delle previsioni, l’automatico rientro nella disponibilità del donante alla morte del donatario – senza che sia necessaria la cooperazione di alcuno per tale operazione – oppure il semplice obbligo per gli eredi di quest’ultimo a restituire il bene oggetto della liberalità.


La differenza non è di poco conto.


Se, infatti, si verte nella prima ipotesi – si parla di reversibilità reale – l’automatico recupero della titolarità del bene in capo al donante ha effetto verso chiunque, anche contro eventuali soggetti, terzi, che avessero acquistato il bene dal donatario.

 

“Il patto di riversibilità produce l’effetto di risolvere tutte le alienazioni dei beni donati e di farli ritornare al donante liberi da ogni peso o ipoteca”. Art 792 cc 


Il donante, pertanto, sarà perfettamente legittimato ad agire in rivendica per conseguire il possesso di ciò che è già ritornato di sua proprietà con la morte del donatario.

 

 

 

 


Nel caso in cui fosse stato pattuito il semplice impegno in capo agli eredi del beneficiario della liberalità a restituire il bene al donante in caso di morte del donatario, non si avrebbe alcun reintegro automatico della titolarità ma, per l’appunto, un semplice obbligo di restituzione del bene donato.


E gli obblighi, lo sappiamo, possono essere rispettati oppure disattesi.


Conseguentemente, in caso di vendita del bene donato, oggetto di patto di riversibilità “obbligatoria”, il donante sarebbe legittimato ad agire solamente contro gli eredi, affinchè gli procurino l’acquisto del bene, e non contro il terzo acquirente.


Se il reintegro non avvenisse, sarebbe dovuto un semplice risarcimento del danno al donante in capo agli eredi del donatario.


Come si è detto, il patto di riversibilità può contemplare la restituzione in caso di morte del donatario, ma anche procrastinarla alla morte dei suoi discendenti.


Anzi. La legge stabilisce che, nel caso in cui fosse stata convenuta una generica indicazione della riversibilità, questa riguarda la premorienza, non solo del donatario, ma anche dei suoi discendenti.


Nulla sembra vietare che i contraenti possano limitare la pattuizione alla premorienza di solo alcuni dei discendenti del donatario e neppure circoscriverla alla loro quota.


Da ultimo, per dare comunque una tutela al coniuge superstite del beneficiario di una donazione condizionata dal patto di riversibilità, potrà essere convenuto dalle parti – quindi sempre di accordo si discute – che il bene donato possa rientrare nella successione del donatario, per coprire almeno la quota di riserva che la legge contempla per il coniuge superstite.


E vissero tutti felici e contenti.

 

 

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donazione

Licenziamento rifiuto vaccino: è legittimo?

 

 

 

Licenziamento rifiuto vaccino contro Covid 19: in assenza di una legge che imponga l’obbligo vaccinale, è legittimo?

 

 

 

Licenziamento rifiuto vaccino: si ringrazia la Collega, Avv. Cinzia Rizzo, per il prezioso contributo.

 


Dai mass media avrete appreso che l’infezione dal COVID-19 può dare luogo ad un infortunio sul lavoro.

 


Quali azioni devono essere assunte dal datore di lavoro per mettere in sicurezza i luoghi di lavoro, da un lato, e quali obblighi incombono sul lavoratore, dall’altro?

 


Come noto, il datore di lavoro dovrà adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri lavoratori.


Dal campo scientifico sono giunte indicazioni in tema di prevenzione del contagio, confluite nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 24 aprile 2020, e ora finalmente i primi vaccini, non ancora contemplati nel protocollo.

Del resto anche l’obbligo di protezione previsto dalla legge prevede che le misure a tutela della salute siano aggiornate in base alla “esperienza e tecnica”; ora che il progresso scientifico ha reso disponibile il vaccino, è doveroso, per le aziende, prenderlo in considerazione!

 

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licenziamento rifiuto vaccino

 


Dunque, per garantire la sicurezza delle sedi di lavoro, il datore dovrebbe poter pretendere che ciascun dipendente si sottoponga a vaccinazione garantendo così l’incolumità del singolo e dei suoi colleghi?

 

Il vaccino contro il COVID-19 può essere considerato una di quelle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro che il datore è tenuto ad applicare?


Allo stato attuale non si rinvengono precetti normativi per effetto dei quali si possa immediatamente ritenere la possibilità, per il datore di lavoro, di richiedere la vaccinazione quale misura obbligatoria di prevenzione e, quindi, condizione di accesso sui luoghi di lavoro.

 

Certo, non tutti i rapporti di lavoro sono uguali.


Il giudizio sull’inadempimento del lavoratore che rifiuti la vaccinazione deve essere necessariamente condotto sul piano del singolo rapporto; è un giudizio che va individualizzato.


Ne consegue che diversa sarà la valutazione di un ospedale o una casa di cura privata nei confronti dei medici e infermieri che non intendano sottoporsi a vaccinazione, anche perché sarebbero esposti a responsabilità risarcitoria nei confronti di chi, ricoverato per curarsi, abbia contratto il virus in conseguenza di un comportamento negligente di un dipendente, rispetto alla valutazione del datore di lavoro che occupi un solo dipendente, non a contatto con il pubblico.

 


Infine, una volta che, caso per caso e in relazione ai diversi ambienti lavorativi, potrebbe essere considerata esigibile la richiesta di vaccinazione, resta la questione della sanzione applicabile al comportamento deviante del lavoratore.

 

 vaccino-e-rapporto-di-lavoro

 

 


Non è detto, infatti, che il datore di lavoro possa comminare il licenziamento per rifiuto vaccino.

 

Il datore potrebbe adibire il lavoratore, che abbia scelto di non vaccinarsi, a posizioni compatibili con tale scelta.

Residuerebbe, infine, la possibilità di configurare il comportamento del lavoratore come un oggettivo impedimento alla prestazione di lavoro, in ragione di una impossibilità sopravvenuta.

Il datore di lavoro dovrebbe sospendere il dipendente e procedere al suo licenziamento solo quando siano venute meno le condizioni di un suo proficuo impiego (cioè quando sussistano ragioni organizzative o produttive che lo autorizzino).

 


Il problema potrebbe, in parte, moderarsi a fronte dell’utilizzo massivo dello smart working, o della adibizione del lavoratore a diverse mansioni e dell’utilizzo di specifici d.p.i. e di una diversa distribuzione degli spazi aziendali ed essere, quindi, relegato alle figure che hanno contatti con colleghi, clienti e fornitori.

Tuttavia, una volta ragionevolmente ristretto l’ambito entro il quale l’eventuale obbligo vaccinale sul lavoro sia rilevante, il vaccino, una volta disponibile, dovrà essere considerato una misura di prevenzione dei rischi indispensabile allo svolgimento della prestazione.

 


Probabilmente il Governo a determinate condizioni prevederà l’obbligatorietà della vaccinazione, e questa potrebbe essere oggetto di una specifica previsione per i luoghi di lavoro, innanzitutto per quelli in cui risulti altrimenti più difficoltoso il rispetto delle altre misure anti-contagio.

 

 

 

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Chi eredita la casa eredita anche i mobili che vi sono contenuti?

Chi eredita la casa eredita anche i mobili che vi sono contenuti?

Per vivere vendevo mobili. Il guaio è che erano i miei
(Les Dawson)

Ma lasciane un po’ anche a chi verrà dopo di te, non essere egoista.


Precisa bene, però, a chi spetta cosa, altrimenti….

Partiamo con una battuta, per smorzare l’aria resa incandescente da un quesito che frequentemente anima l’ambito successorio: chi eredita la casa, eredita anche i mobili che contiene?


Piglia tutto il cuccuzzaro?


Andiamo con ordine.


Nel nostro ordinamento la successione ereditaria può essere legittima – la legge stabilisce chi siano gli eredi e quanto a loro spetti – testamentaria – il de cuius istituisce eredi chi vuole, conferendo loro quanto e cosa voglia – o mista, in parte l’una e in parte l’altra.


Soffermiamoci su quest’ultima fattispecie: il testatore, col proprio atto di ultime volontà, oltre ad indicare i propri eredi, può anche dividere tra di essi i propri beni. Può stabilire, cioè, quali beni specifici compongano le singole quote.


Tale divisione può essere totale, ossia comprendere tutti i beni rientranti nel patrimonio del disponente, o parziale, ossia riguardare solo parte di esso.


Ebbene, la legge dispone che se nella divisione fatta dal testatore non reductil sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi sono attribuiti conformemente alla legge, se non risulta una diversa volontà del testatore.


Tradotto: i beni non menzionati nella divisione saranno attribuiti secondo le regole della successione legittima, a meno che il de cuius non abbia disposto che debbano essere ripartiti fra gli eredi secondo le quote fissate dallo stesso testamento.


Facciamo un esempio: nomino miei eredi Tizio e Caia.

Dispongo che la quota di Tizio sia costituita dalla casa al mare, mentre quella di Caia dalla casa in città.

Ora, se le due case attribuite ai suddetti esauriscono il patrimonio del de cuius, tutto a posto, nessun problema. Se vi fossero altri beni, questi saranno attribuiti secondo le regole della successione legittima, ove si dovranno individuare i successibili come stabilito dal codice civile (coniuge, discendenti, ascendenti, parenti prossimi che escludono i remoti, etc…).

A meno che il testatore abbia statuito che a Tizio e a Caia, o anche all’uno piuttosto che l’altra, siano attribuiti eventuali beni rimanenti nel patrimonio.

Ergo… per ritornare al tema che oggi ci occupa: chi eredita la casa non eredita necessariamente i beni mobili che vi siano contenuti, a meno che il testatore così non abbia espressamente statuito.


In difetto, sempre che non siano stati attribuiti ad altri soggetti, tali beni cadranno in successione legittima, oppure saranno devoluti agli eredi che il de cuius abbia nominato ed espressamente indicato con riferimento al residuo patrimonio, non menzionato nel testamento.

chi eredita la casa eredita anche i mobili?


Qualcuno dei lettori si chiederà: ma cosa rientra nel concetto di beni mobili?


Non è una domanda da profani, anzi.


Ci si sono accapigliati anche gli addetti ai lavori, dovendo sottoporre contrapposte argomentazioni alle pronunce dei giudici.

Il busillis più eclatante era nato dall’interpretazione di una disposizione testamentaria nella quale il de cuius lasciava l’immobile x e i beni mobili che vi erano contenuti all’erede Tizio.


La battaglia riguardava la possibilità di far rientrare o meno nel lascito anche i quadri di assoluto pregio che erano collocati nell’abitazione assegnata.

In prima battuta, tale eventualità era stata esclusa, ritenendosi i quadri come “arredi”, come tali non compresi tra i “mobili” oggetto del lascito.

La Suprema Corte ha censurato tale valutazione, facendo riferimento alla parola della legge.


L’art. 812 c.c., infatti, dà una precisa definizione di beni immobili, (il suolo, gli edifici, le costruzioni, a e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo) disponendo che “tutti gli altri beni” siano da considerarsi mobili.


Conseguentemente, l’espressione “mobili”, riferita ai beni che corredano un’abitazione, non autorizza di per sè ad escludere parte di essi, qualunque ne sia il valore, essendo comprensiva, anche nel lessico comune, di quadri, oggetti e arredi in genere.

Dà ultimo, deve essere necessariamente ricordato – ci eravamo soffermati già in precedenza – che in sede successoria al coniuge superstite, abbia o meno accettato la qualifica di erede, è attribuito ex lege un legato: il diritto di abitazione adibita a residenza familiare.


Ebbene, tale beneficio comprende anche l’uso dei beni mobili che ne facciano corredo se di proprietà del defunto o comuni.


Tali diritti spettano al coniuge superstite non solo nei casi di successione necessaria, ma anche ove si apra una successione legittima, in aggiunta alla quota per essi stabilita dalla legge.


Un’eventuale disposizione testamentaria in deroga, che attribuisca tali prerogative a soggetti diversi sarebbe priva di valenza.


Conseguentemente, se il testatore abbia lasciato la casa familiare e i beni mobili in essa contenuti ad un soggetto diverso dal coniuge, tale attribuzione dovrebbe essere intesa come limitata alla proprietà di detti beni, non già all’immediato diritto di poterne disporre, che sarà rimandato a quando il coniuge superstite avrà cessato di usufruirne.

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Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta: basta una scrittura privata

Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta: è sufficiente una scrittura privata

Il 3 dicembre scorso è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge 27 novembre 2020 n. 159 che ha introdotto, in sede di conversione, alcune significative modifiche al Decreto Legge 7 ottobre 2020 n. 125.

Rispetto alla precedente formulazione del Decreto, infatti, sono stati aggiunti all’articolo 1 due nuovi commi che prorogano nuovamente, per la quarta volta, il termine entro il quale è possibile provvedere, per Onlus, Odv, Aps ed Imprese Sociali, agli adeguamenti statutari richiesti dal Codice del Terzo Settore.

E’ stato così posticipato al 31 marzo 2021 il termine per Onlus, Odv, Aps e Imprese sociali per “modificare i propri statuti con le modalità e maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria al fine di adeguarli alle nuove disposizioni inderogabili o di introdurre clausole che escludono l’applicazione di nuove disposizioni derogabili mediante specifica clausola statutaria”, come previsto dall’articolo 101, comma 2, del Codice del Terzo settore.

Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta

Va notato che, in materia di adeguamento degli statuti, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali è recentemente intervenuto con la nota 10980 del 22 ottobre 2020 per chiarire due aspetti:

  • il primo, concernente le modalità da seguire e le maggioranze da raggiungere per l’adozione della delibera da parte dell’organo deliberativo competente.
  • il secondo, relativo alla forma (atto pubblico o scrittura privata) che l’atto modificativo deve rivestire.

In merito al primo profilo, il Ministero ha ricordato come l’articolo 101, comma 2 del Codice del Terzo settore consenta, entro la scadenza individuata dalla stessa norma, che qualora le modifiche siano limitate al recepimento delle disposizioni inderogabili del Codice, le stesse possano essere assunte con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria, che di norma prevede quorum costitutivi e deliberativi non qualificati e minori formalità e/o tempi più veloci per le convocazioni.

Tali “modalità semplificate” potranno però essere utilizzate a condizione che lo statuto o il regolamento effettivamente le prevedano in caso di assemblea ordinaria; qualora le modalità di cui l’ente si è dotato non prevedano differenze tra assemblea ordinaria e assemblea finalizzata alle modifiche statutarie, queste ultime dovranno comunque essere rispettate a pena di invalidità delle sedute.

Qualora si ecceda il limite temporale – che, come si è visto, è stato prorogato al 31 marzo 2021- sarà sempre necessario raggiungere i quorum di norma richiesti per le modifiche statutarie.

modifica statuto
Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta


In merito al secondo profilo, relativo alla forma dell’atto, il Ministero, con la nota sopra citata, si è espresso in merito alla seguente eventualità: se, in linea generale, un’associazione non riconosciuta e quindi priva di personalità giuridica, la quale sia stata costituita con atto pubblico, debba ricorrere alla medesima forma dell’atto pubblico per le modifiche statutarie o se, invece, sia sufficiente il verbale di assemblea registrato all’Agenzia delle Entrate.

In proposito, la nota ministeriale ricorda che il codice civile all’art. 14 prevede che soltanto per le le associazioni riconosciute (e le fondazioni) è richiesta la costituzione per atto pubblico; per le associazioni non riconosciute, invece, nulla si dice, se non che ordinamento interno e amministrazione sono regolati dagli accordi tra gli associati(36, c. 1, c.c.).


Il Ministero non ritiene, quindi, che la presenza in un ente di tipo associativo di un atto costitutivo redatto con atto pubblico in assenza di una specifica prescrizione normativa, possa inficiare la validità di successive delibere modificative risultanti da una semplice scrittura privata in quanto troveranno applicazione i principi civilistici di libertà della forma degli atti (ricavabile dal combinato disposto degli articoli 1325 e 1350 del Codice civile e valevole all’infuori dei casi in cui sia espressamente richiesta dalla legge una particolare forma) e di conservazione degli stessi.

Si noti: ciò vale, a meno che lo statuto dell’ente non abbia disciplinato eventuali modifiche, richiedendo espressamente l’atto pubblico.

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta

terzo settore

Vendita immobile usucapito: è preliminarmente necessaria una sentenza che accerti l’acquisto della proprietà?


Vendita di immobile usucapito: senza provvedimento che accerti l’usucapione è possibile?

Premessa: tra il niente e il piuttosto, meglio il piuttosto.


Potremmo concludere qui il nostro articolo: se si avesse intenzione di vendere un immobile usucapito, sarebbe meglio essersi preventivamente dotati di un provvedimento che riconosca l’intervenuta usucapione piuttosto che esserne sprovvisti.


Questo per – in termini giuridici – “evitare teghe”, problemi, ottenere tombalmente un giudicato che ponga fine ad ogni questione in merito all’appartenenza dell’oggetto della futura vendita.

E se non avvenisse così?


Voglio dire, sono 50 anni che utilizziamo quel fondo come se ne fossimo i proprietari e nessuno ci ha mai detto nulla o è venuto a reclamare qualcosa. Ora avremmo la possibilità di venderlo ad un acquirente, che non ha tempo di attendere un provvedimento del tribunale che accerti l’usucapione.

Come si fa? Si può vendere ugualmente?

Facciamo un passo indietro, ma solo di un attimo, senza rifare tutta la storia dell’orso e perderci in meandri di discorsi giuridici già battuti, anzi fin troppo conosciuti in merito all’usucapione.


La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni.


Tale possesso deve essere stato continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico.

Stop.
Per ora basta così. Se lo desiderate, informazioni ulteriori potrete trovarle ai seguenti post (1, 2 , 34 ).

vendita senza dichiarazione di usucapione
vendita immobile usucapito: possibile senza sentenza?


Bene.


Poniamo caso che abbiamo tutti i requisiti richiesti dalla legge per l’acquisto a titolo di usucapione: ci vuole dell’altro? Ci vuole una sentenza che lo accerti?


No.


Avete letto bene, no!


Non lo diciamo noi, ma la Cassazione con una sentenza datata, non smentita, interessantissima.

La sentenza è dichiarativa non costitutiva


In buona sostanza, il nocciolo della questione risiede nell’attenta lettura della norma attinente l’usucapione di beni immobili, art. 1158 cc, la quale, lo abbiamo visto poco sopra, richiede il semplice possesso con i requisiti poc’anzi richiamati online patika.


Il possesso, di per sé, è una situazione di fatto, un potere, ma non un diritto, sicchè esso non può essere oggetto di compravendita, che ha ad oggetto il trasferimento della proprietà o di un diritto.


Se è protratto per oltre vent’anni, è pacifico, pubblico, ininterrotto allora determina l’acquisto per usucapione della proprietà: quella sì può essere trasferita con compravendita.


In sintesi, è l’esercizio stesso del possesso valido ad usucapionem che determina l’acquisto della proprietà, non già una sentenza di Tribunale. Questa, infatti, può tutt’al più accertare e dichiarare qualcosa che già è avvenuto  a prescindere, ma non già “costituire” il diritto di proprietà, in quanto quello si è già maturato, a titolo originario, per effetto del possesso stesso.


Argomentando diversamente, “si verificherebbe la strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario, ma non potrebbe disporre validamente del bene fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente”. Circostanza incompatibile con il normale contenuto del diritto di proprietà, che è assoluto.


Conseguentemente, la Suprema Corte ha espresso il seguente principio di diritto “Non è nullo il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell’usucapione, ancorchè l’acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario”.

vincolo espropriativo non rinnovato

Ma non ci vuole la trascrizione?


Potrebbe essere obiettato dai più eruditi che la legge impone la trascrizione delle sentenze dichiarative di usucapione, ai fini di segnare la continuità dei passaggi di proprietà che seguono un bene, quasi a volerne richiamare la necessità.

Tuttavia, tale incombente è qualificabile come “pubblicità notizia”, necessaria cioè a rendere noto a terzi una circostanza, l’avvenuto acquisto della proprietà, non già come requisito indispensabile per l’acquisto stesso.

Non tutti le ciambelle riescono col buco


Attenzione, e torniamo alla premessa  effettuata all’inizio di questo contributo, tra il niente e il piuttosto…meglio una sentenza che abbia messo le cose in chiaro e sia inattaccabile.


In difetto, un’eventuale trasferimento della proprietà potrebbe essere senz’altro oggetto di contestazioni da parte di chi si proclami reale proprietario del bene, negando l’usucapione e rivendicando il proprio diritto.


Chi abbia venduto, conseguentemente, dovrà farsi carico della responsabilità di quanto dichiari davanti al notaio: sia perchè potrà essere oggetto di contestazione da parte di terzi interessati, esponendo il bene ad una eventuale retrocessione al legittimo proprietario, con conseguenti danni che potranno essere richiesti dal (mancato) acquirente, sia per le conseguenze che la legge penale impone a chi rilasci dinanzi al pubblico ufficiale dichiarazioni false.

Il notaio, comunque, ha un obbligo di informazione e di chiarimento nei confronti delle parti: dovrà accertarsi che il compratore abbia ben chiaro il rischio che assume con l’acquisto.

L’acquirente, adeguatamente informato, per una maggior sicurezza del suo acquisto, in assenza delle visure ipocatastali ventennali, potrà, allora, richiedere specifiche garanzie, oltre quelle già previste dalla legge per l’evizione (art. 1483  e 1484 cc.) oppure preventivare un congruo risarcimento nel caso di esito infelice della vendita.  


Tra il niente e il piuttosto….

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Vendita immobile usucapito

Come si divide un’eredità? Il percorso della divisione ereditaria

 

 

Abc su come si divide un’eredità

 

 

Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità»

 


La divisione ereditaria costituisce da millenni uno degli ambiti più accidentati in seno al menage familiare, già scombussolato ed afflitto dalla perdita di una persona cara.


Come si divide un’eredità...


Bene, partiamo dalla constatazione che – se c’è qualcosa da spartire – a monte ci deve essere qualcosa in comune.


La comunione ereditaria.


Parliamo di comunione ereditaria come di quel fenomeno per cui, a seguito dell’evento morte di una persona, alcuni soggetti, gli eredi, diventano contitolari – per quote anche differenti tra loro – di un patrimonio. Questo a prescindere che a monte ci sia stato oppure no un testamento.


Dei beni in comunione ciascun coerede potrà servirsene, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne pari uso secondo il loro diritto.

In virtù di ciò, è frequente che un erede effettui un godimento separato di alcuni beni, li utilizzi e li goda solo lui, con il consenso, con il disinteresse o con l’opposizione degli altri eredi.

Di qui nascono liti, a fronte della reclamata usucapione da parte di colui che li abbia posseduti a lungo nei tempi e nei modi prescritti dalla legge. 

Calma. La giurisprudenza è molto rigorosa e costante nell’affermare che tale possesso non sia di per sé solo sufficiente.

Se, infatti, la possibilità di utilizzare i beni in comunione ereditaria, anche separatamente (art. 714 cc) è una facoltà attribuita al singolo coerede, perchè si possa verificare l’acquisto della proprietà a titolo esclusivo è necessario che egli abbia esercitato un possesso non già come “con-domino”, ma come “dominus”, come unico proprietario, in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e volta ad estromettere gli altri aventi diritto.

 

comunione ereditaria

 


Chi può chiedere la divisione?


Innanzitutto il testatore stesso, nel proprio atto di ultime volontà, potrà disporre dei propri beni ripartendoli in porzioni corrispondenti alle relative quote (art 734 cc).

Ne deriverà un’attribuzione diretta ai coeredi dei beni dal momento dell’apertura della successione senza che si instauri una comunione ereditaria.

La ripartizione operata dal testatore potrà essere parziale, relativa cioè a solo alcuni beni, sussistendo, per i rimanenti, la comunione.

Il de cuius potrà, eventualmente, in luogo di una disposizione diretta, stabilire le regole con le quali verranno divisi tutti o parte i beni ereditari.

Queste norme sono vincolanti per gli eredi, salvo che l’effettivo valore dei beni non corrisponda alle quote stabilite dal testatore.


Egli può disporre che la divisione si effettui secondo un progetto predisposto da una persona designata, terza, che non sia erede o legatario: la divisione proposta da questa persona non vincola gli eredi, se l’autorità giudiziaria, su istanza di taluno di essi, la riconosce contraria alla volontà del testatore o manifestamente iniqua (art 733 cc).

Attenzione, la divisione nella quale il testatore non abbia compreso qualcuno dei legittimari o degli eredi istituiti è nulla e si ripristinerà la comunione ereditaria.

Più in particolare, nel caso di lesione parziale, al legittimario che abbia esercitato azione di riduzione  spetterà il diritto di ottenere una correzione dell’attribuzione, attraverso un’integrazione della porzione, con beni attribuiti agli altri coeredi.


Se il legittimario fosse stato escluso dall’ambito successorio, potrà agire in giudizio per far dichiarare nulla la divisione e sostituire alla divisione operata dal testatore un’altra, che ricomprenda i suoi diritti di erede.

 

come si divide un’eredità?

 

Accordo divisionale

La divisione ereditaria potrà essere concordata tra i coeredi, in via convenzionale.


Si tratta di un vero e proprio contratto, al quale dovranno partecipare inderogabilmente tutti i comunisti, sicchè il mancato intervento di uno solo comporterà la nullità dell’accordo.

Se tra i beni da spartire dovessero esservi degli immobili, sarà imprescindibile la forma scritta: poi si dovrà procedere alla trascrizione.


Possono esserci delle limitazioni alla divisione? Solamente temporali e tassative.

Ad esempio il testatore stesso potrebbe aver disposto il divieto di procedere alla divisione per un determinato periodo, non superiore a 5 anni. Oppure che si debba attendere un anno dal compimento della maggiore età dell’ultimo nato dei coeredi minorenni.

In ogni caso, qualora detto termine dovesse comportare incongruo al manifestarsi di “gravi circostanze”, l’autorità giudiziaria potrà pronunciarne la riduzione o l’eliminazione.

 

 

divisione giudiziale

 


Divisione giudiziale.

La divisione ereditaria potrà essere chiesta da ciascuno dei partecipanti alla comunione. Si noti, anche se gli altri non fossero d’accordo e volessero permanere nello stato indiviso.

Ciò detto, in caso di richiesta di divisione le ipotesi potranno essere due e solamente due: o ci sarà l’accordo dei coeredi sul come ripartire i beni della comunione, oppure, in difetto, ci si dovrà rivolgere al giudice affinchè ci pensi lui con una sua pronuncia.


La divisione giudiziale consegue al giudizio di accertamento del diritto di ciascun comunista ad una quota del patrimonio del defunto e la trasformazione di tale diritto in un diritto alla proprietà esclusiva su una porzione definita di beni.


Ovviamente in tale giudizio dovranno essere citati tutti i coeredi comunisti, nessuno escluso: altrimenti la pronuncia sarebbe data inutilmente.


Come si divide l’eredità?


1. Innanzitutto, il giudice dovrà verificare se sia possibile l’attribuzione in natura a ciascuno dei condividenti della sua porzione dei beni, siano essi mobili o immobili.


Ovviamente, è impensabile che tale procedura contempli l’assegnazione ad ogni erede di una quota identica dei singoli beni, ma si risolve nella proporzionale suddivisione di mobili ed immobili.


Dopo aver proceduto alla stima dei beni, in base al loro valore di mercato, si procederà alla formazione di tante porzioni quanti sono gli eredi condividenti.

 

vendita asta divisione giudiziale


Quali beni assegnare a chi?

L’assegnazione delle porzioni uguali (es quattro quote di un quarto ciascuna) è fatta mediante estrazione a sorte, per le porzioni diseguali (es ad un condividente spetta ½ mentre gli altri ¼ ciascuno) si procede mediante attribuzione, ossia formando tante porzioni (di valore diseguale) quante sono le quote ed attribuendo a ciascuno la corrispondente.

 


2. Se nell’eredità vi dovessero essere immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento ne potrebbe compromettere sensibilmente il valore o la funzione, il giudice potrà procedere all’assegnazione per l’intero al coerede che abbia la quota maggiore o a più coeredi che ne abbiano fatto richiesta congiunta.

Gli altri comunisti verranno soddisfatti mediante attribuzione del corrispondente valore in denaro (conguaglio) della propria quota a carico dei soggetti assegnatari del bene immobile, eventualmente ponendo a in capo allo stesso una garanzia ipotecaria.


Attenzione, il criterio dell’assegnazione del bene immobile indivisibile al coerede con la maggiore quota è definito dalla stessa legge (art. 720 cc) “preferenziale”, non già obbligatorio, in quanto il giudice potrà discostarsene, allegando motivate ragioni, vuoi nell’interesse comune dei coeredi, oppure alla luce dell’interesse personale prevalente dell’assegnatario, ad es. privo di un’unità immobiliare da destinare a casa familiare, a differenza del titolare della quota maggiore, oppure valutando anche la concreta ricorrenza di interessi familiari o morali di un condividente.


Si noti: la scelta dell’assegnatario non è un’asta tra coeredi, per cui non può dipendere dalla maggiore offerta, che uno di essi faccia, rispetto al prezzo di stima.


Qualora la richiesta di attribuzione del bene provenga da un solo coerede, il bene dovrà essere assegnato a questi.

 

3. Se nessuno dei coeredi in comunione manifesti la volontà di vedersi assegnato il bene immobile indivisibile, il giudice ne prenderà atto e disporrà che venga venduto all’asta.


Pare consentito al condividente, comunque, una volta disposta dal Tribunale la vendita all’incanto. chiedere l’assegnazione del bene.

 

debiti dei coniugi in comunione dei beni

 

Dopo la vendita dei beni, mobili o immobili, come si divide l’eredità?


Si deve procedere alla formazione dei conti: ogni condividente indica le entrate (ad esempio, canoni di locazioni percepiti) e le uscite (es. spese di manutenzione dei beni, imposte pagate, miglioramenti effettuati) sostenute durante la gestione dei beni comuni.

Quindi, stimati gli altri beni della massa – si noti, in base al valore venale che avevano al momento dell’apertura della successione, ossia alla morte del de cuius – si effettuerà la formazione delle porzioni, in misura proporzionale alle quote.

Rescissione per lesione


Il condividente che, a seguito di divisione, abbia ottenuto, proporzionalmente a quanto ricevuto dagli altri condividenti, beni di valore inferiore almeno di un quarto rispetto al valore della propria quota potrà esercitare l’azione di rescissione ( art 763 cc), entro il termine di due anni dalla divisione.


Tale rimedio è operativo sia nell’ambito della divisione effettuata dal testatore, quanto in quello della divisione contrattuale.


Al riguardo di tale ultima ipotesi, è interessante evidenziare l’orientamento giurisprudenziale che ritiene insufficiente in un accordo transattivo divisionale la semplice consapevolezza del condividente di percepire meno di quanto gli spetterebbe ai fini di decadere dal diritto di chiedere la rescissione, essendo necessario accertare che la transazione, regolando ogni controversia, anche potenziale, in ordine alla determinazione delle porzioni corrispondenti alle quote, abbia riguardato proprio le questioni costituenti il presupposto e l’oggetto dell’azione di rescissione (Cass. Civ. 8240/2019 )

 

 

 

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come si divide un’eredità

Donazione di denaro per acquisto casa: che forma e quali conseguenze sulla successiva eredità?

 

La donazione di denaro per acquisto casa: alcune cose da sapere per una scelta consapevole.

 

Non nobis solum nati sumus – Non solo per noi stessi stiamo nati.
(Marco Tullio Cicerone)

 

 

 

Ecco, appunto, lo dice anche Cicerone: bisogna darsi una mano.


Per i figli, manco bisognerebbe dirlo: viene spontaneo dare tutto e di più.

Vogliono spiccare il volo? Sposarsi ? Uscire di casa? Il pensiero corre subito a dove andranno a vivere, quale sarà la loro nuova abitazione.

Di norma, i figli – più o meno giovani – non hanno disponibilità economica per comprare casa, per cui si valuta la possibilità di aiutarli, per l’appunto, cercando le modalità per farlo più sicure.


Lo abbiamo detto in passato, (link 1 e 2 ): una donazione diretta di un immobile potrebbe essere un atto potenzialmente pericoloso: qualificandosi come una sorta di anticipo di eredità, se tale operazione dovesse ledere i diritti di soggetti interessati (legittimari), sarebbe un trasferimento attaccabile da più fronti.

 

 

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donazione di denaro per acquisto casa: se ne tiene conto al momento dell’eredità?

 


E se, anziché donare la casa, venisse eseguita una donazione di denaro per acquisto casa?


Siamo di fronte ad un bivio.


Ipotesi A. Viene effettuato un versamento da genitore a figlio; quest’ultimo decide successivamente di impiegarlo in un acquisto immobiliare.

La donazione, per essere valida, deve essere consacrata con forme prestabilite dalla legge: atto pubblico alla presenza di due testimoni.

Alla stregua delle donazioni di immobili, su cui sopra ci siamo soffermati, anche di essa se ne terrà conto al momento della futura successione.

Tuttavia, ciò che potrà essere “rivendicata” in un’azione di riduzione o di collazione, sarà una somma di denaro e non già il bene – casa che con essa è stato conseguito.


Ipotesi B. Il donante fornisce il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione.

Siamo nell’ambito di una cd “donazione indiretta”, ossia quella effettuata con modalità diverse rispetto a quelle normali stabilite dalla legge, ma producono, tuttavia, gli stessi effetti (art 809 cc).


In questo caso, oggetto di donazione dovrà considerarsi non tanto il denaro impiegato per l’acquisto dell’immobile, quanto la casa stessa, di cui il beneficiario della donazione, d’intesa col donante, andrà ad arricchirsi, essendo immediato il collegamento tra l’elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio.


Si noti “per integrare la fattispecie di donazione indiretta è necessario che la dazione della somma di denaro sia effettuata quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto dell’immobile: deve cioè sussistere incontrovertibilmente un collegamento teleologico tra elargizione del denaro e acquisto dell’immobile” (Cass. Civile, n 18541/2014 ).


Morale? Per la donazione indiretta non saranno necessari i rigidi formalismi dettati dalla legge per la donazione tradizionale.

Sarà sufficiente che il negozio-mezzo, ossia l’atto di acquisto del bene immobile, avvenga mediante le forme prescritte dalla legge, mentre per l’attribuzione della provvista di denaro da parte del donante potrà avvenire liberamente.

Ovviamente, per configurarla tale, la donazione indiretta deve avere alcuni requisiti tipici di tutte le donazioni, vale a dire l’animus donandi, ossia la volontà di attribuire un vantaggio patrimoniale a terzi, e l’obiettivo incremento del patrimonio altrui con il corrispondente impauperimento di quello del disponente.

 

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Tutto bene? Tutti felici? Attenzione.


La legge stabilisce che anche per la donazione indiretta valgano alcuni principi di tutela stabiliti per ogni tipo di donazione: fra questi, la possibilità di essere “ridotta” in caso di lesione dei diritti dei legittimari, ossia di quei parenti più stretti del donante (poi defunto), che abbiano diritto ad una quota minima del patrimonio complessivo del disponente.


Del pari, anche le donazioni indirette rientreranno nel calderone della “collazione”, l’istituto che obbliga taluni soggetti che abbiano accettato l’eredità e abbiano ricevuto donazioni in vita dal de cuius a conferire nell’asse ereditario quanto ricevuto, al fine di formare le porzioni da dividere.


Tanto in caso di riduzione che in quello di collazione, ciò che dovrà essere conferito non sarà il bene in natura – come normalmente avrebbe potuto avvenire per le donazioni tradizionali – quanto il relativo valore.


Se fosse diversamente, non sarebbe assicurata alcuna tutela a terzi, inconsapevoli (le donazioni indirette non risultano dall’atto pubblico della compravendita) che acquistino la proprietà degli immobili oggetto di donazione indiretta e si ritroverebbero privati di tale bene, a seguito dell’azione di riduzione.

 

 

 

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Donazione di denaro per acquisto casa

L’erede può conoscere chi sia il beneficiario di una polizza vita del defunto?

 

 

L’erede può conoscere chi sia il beneficiario di una polizza vita del defunto? L’insidioso percorso tra privacy e diritto di difesa.

Parigi val bene una messa.
( Enrico di Navarra)


I diritti dell’erede a conoscere chi siano i beneficiari di polizze vita stipulate dal defunto prevalgono sulla riservatezza di costoro?

Un percorso davvero accidentato.

Preambolo.


Le somme incassate da chi sia beneficiario di una polizza vita stipulata dal defunto non costituiscono provento ereditario.

Il loro importo, pertanto, non cade in successione e non se ne deve tener conto nella stima del compendio della massa ereditaria, in quanto traggono il loro titolo da un contratto stipulato in vita dal de cuius e costituiscono quindi l’adempimento di un’obbligazione contrattuale, che dall’evento morte trae solo la decorrenza per la loro esigibilità.

I premi di polizza, tuttavia, ossia le somme che il defunto aveva versato periodicamente alla compagnia assicurativa a seguito della stipula del contratto, sono considerati come “donazioni” in favore della persona che beneficerà della polizza e, pertanto, di tali importi si dovrà tenere considerazione al fine di valutare se, con tali versamenti liberali, siano stati lesi i diritti degli eredi legittimari, le cui quote, come è noto, si debbono calcolare sul relictum (ciò che è stato lasciato al momento dell’apertura della successione) e donatum (ossia le donazioni effettuate in vita dal de cuius).


Senza contare che di tali somme potrebbe essere chiesta la collazione da parte dei soggetti interessati.


Bene.


Direte voi: se io fossi legittimario e dovessi apprendere che il de cuius abbia destinato notevoli importi in polizze vita a favore di terzi, tali da ledere la mia quota di riserva, avrei ben diritto di conoscere chi siano i beneficiari, per eventualmente trarli a giudizio chiedendo la riduzione/collazione di quanto versato per i premi di polizza.


La risposta è sì, ma arrivarci è stata una battaglia e permane ancora un buon margine di incertezza.

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L’erede può conoscere chi sia il beneficiario di una polizza vita del defunto?

Proviamo a seguire il percorso di Tizia, erede di Caio, che ha visto concludersi il proprio percorso giudiziario – di primo grado – con una recentissima sentenza del Tribunale di Treviso (27.02.2020).


L’assicurazione non voleva fornire i nominativi dei beneficiari delle polizze, ma limitarsi ad allegare i dati dei contratti assicurativi e gli importi in ballo, invocando il diritto alla riservatezza di tali soggetti.


Tizia ricorre al Garante della Privacy, al fine di veder riconosciuto che il proprio diritto di erede – azionabile in giudizio – fosse prevalente rispetto alla privacy dei ben capitati beneficiari delle polizze.


Il Garante, tuttavia, ha disposto in senso negativo alla richiesta.


Il motivo di tale diniego, in buona sostanza, risiede in una distinzione: Tizia, come erede di Caio, subentra nel mondo giuridico di quest’ultimo ed, in quanto tale, ha diritto di ottenere la comunicazione in forma intelligibile dei soli dati riferiti al defunto, detenuti dalla Compagnia assicurativa, ma non dei dati che si riferiscono a terzi, estranei a tale fenomeno stilnox successorio e tutelati nel proprio diritto alla riservatezza.


Il provvedimento del Garante era, tra l’altro, suffragato da pronunce della Corte di Cassazione,la quale aveva avuto modo di precisare che il diritto di accesso ai dati personali concernenti persone decedute riconosciuto dal codice della Privacy ha ad oggetto i soli dati della persona deceduta “ma non autorizza l’accesso ai dati personali non riferiti al de cuius, come i terzi beneficiari dei contratti stipulati dal primo, i quali, nel caso di assicurazione sulla vita, acquistano un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione (art. 1920, terzo comma, c.c.)”.

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Come ha fatto la nostra Tizia a sfangare tale barriera?


Ha agito in giudizio davanti al tribunale ordinario, citando la compagnia assicurativa ed il Garante e suggerendo una lettura della questione alla luce dei recenti interventi normativi introdotti col Regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati.


Tale disposizione, infatti, stabilisce la prevalenza del diritto di difesa rispetto a quello concernente la riservatezza dei dati personali (art. 6, lettera f, par 1).


Il trattamento dei dati – per tale intendendosi “qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione” – può avvenire anche in assenza del consenso del titolare quando sia “ necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”.


La prevalenza del diritto alla difesa sulla riservatezza sarebbe altresì ribadita, in materia, dalla legge di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento UE (Dlgs 101/2018), secondo cui i diritti riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualita’ di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione e non possono incontrare ostacolo nemmeno nel divieto apposto al trattamento da parte del de cuius, qualora possa “produrre effetti pregiudizievoli per l’esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimoniali che derivano dalla morte dell’interessato nonche’ del diritto di difendere in giudizio i propri interessi”.

Il Tribunale di Treviso ha accolto la prospettazione di Tizia, accertando i il suo diritto di accesso ai dati personali e ingiungendo alla compagnia assicurativa l’ostensione dei nominativi dei beneficiari delle polizze incriminate.


Stiamo a vedere se la pronuncia troverà conferma nella “giurisprudenza” del Garante della Privacy e delle Corti superiori.

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diritto dell’erede a conoscere chi sia il beneficiario di una polizza vita del defunto

L’intervento di un terzo nella redazione di un testamento

 

L’intervento di un terzo nella redazione di un testamento: quali conseguenze sulla validità dell’atto?

 


La libertà non consiste tanto nel fare la propria volontà quanto nel non essere sottomessi a quella altrui.
JEAN-JACQUES ROUSSEAU

 

Libertà – testamento: un connubio, per legge, inscindibile.


Il testatore deve essere libero di disporre dei propri beni come crede per il tempo in cui avrà cessato di vivere: senza condizionamenti.


Per agevolare la libertà testamentaria il codice civile ha individuato vari accorgimenti, ma anche alcune limitazioni formali.


Come è noto, il testamento olografo deve avere tre requisiti di forma, in assenza dei quali l’atto di ultime volontà sarebbe irrimediabilmente inficiato:


– data
– sottoscrizione;
– olografia, vale a dire redatto interamente di pugno del testatore.


Si noti, non ha importanza su quale materiale sia stato scritto – carta, pergamena, pietra, legno …. – né il mezzo impiegato per redigerlo – penna, pennarello, matita, incisore.. – e nemmeno il tipo di materiale utilizzato per stendere la grafia – inchiostro, vernice, colore, financo il sangue.


Ciò che rileva è l’indiscussa riconducibilità alla mano del de cuius.

 

ritrovamento di un nuovo testamento

 


Olos grafos: scritto tutto di pugno, in tutti i suoi componenti, nessuno escluso e – si noti – nessuno aggiunto da altri.


Il testamento olografo deve essere scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore” (art. 602 cc) . Pena la nullità (art. 606 cc).


La perentorietà delle previsioni di legge esclude l’utilizzabilità del documento quando le disposizioni, nello stesso contenute, non siano state scritte dallo stesso testatore.


L‘intervento del terzo, infatti, ne elimina il carattere di stretta personalità, interferendo sulla volontà di disporre del testatore.


Andiamo con ordine.


Intervento di un terzo nella redazione del testamento: c’è un limite di integrazione, al di sotto del quale l’atto di ultime volontà rimane valido?


Normalmente in materia testamentaria è applicabile la regoletta latina che recita “utile per inutile non vitiatur”, ossia ciò che è valido non è viziato da ciò che è invalido. Se un “peccato” affligge non tutto ma una parte sola del testamento, sarà questa ad essere inficiata, rimanendo efficace il resto.


Bene, tale regola non si applica allorquando sia intervenuto un terzo nella stesura del testamento.


Quando nel corpo della disposizione di ultima volontà anche una sola parola sia di mano altrui e risulti scritta dal terzo durante la confezione del testamento, ancorché su incarico o col consenso del testatore, l’intero documento sarà nullo.


La validità del testamento olografo esige l’autografia della sottoscrizione, della data e del testo del documento, essendo sufficiente ad escluderla ogni intervento di terzi, indipendentemente dal tipo e dall’entità, anche se il terzo abbia scritto una sola parola durante la confezione del testamento, senza che assuma rilievo, peraltro, l’importanza sostanziale della parte eterografa ai fini della nullità dell’intero testamento.

 


In che cosa deve consistere l’intervento del terzo nella redazione del testamento per causarne l’invalidità?


L’attività positiva di un soggetto diverso dal disponente nella redazione del testamento può consistere tanto nell’intervenire direttamente vergando, di proprio pugno, anche solo una parola o un tratto del documento, quanto nel condurre la mano esitante del testatore.


La nullità del testamento per difetto di olografia deve ritenersi  configurabile in ogni ipotesi di intervento del terzo che guidi la mano del testatore, trattandosi di condotta che appare in ogni caso idonea ad alterare la personalità e l’abitualità del gesto scrittorio, costituenti requisiti indispensabili perché possa parlarsi di autografia.

 

Ciò anche se il testo che ne sia scaturito coincida in tutto e per tutto con la reale volontà del de cuius.


La validità o meno del testamento, infatti, non può essere condizionata alla verifica di ulteriori circostanze, quali la effettiva finalità dell’aiuto del terzo, ovvero la verifica della corrispondenza effettiva del testo scritto alla volontà dell’adiuvato, che minerebbero in maniera evidente le finalità di chiarezza e semplificazione che sono alla base della disciplina del testamento olografo.

 

intervento di un terzo nella redazione del testamento
intervento di un terzo nella redazione del testamento


E’ rilevante il momento in cui risulti essere intervenuta la grafia di un terzo soggetto?


Hai voglia.


Tirando le fila di quanto abbiamo esposto finora, al legislatore interessa che il testatore sia assolutamente libero durante la redazione del proprio atto di ultime volontà.


Conseguentemente è proprio il momento della stesura di tale documento il termine temporale in cui la volontà del de cuius potrebbe subire alterazioni per l’ingerenza di altri.


Ne deriva che il testamento olografo alterato da terzi può conservare il suo valore quando l’alterazione non sia tale da impedire l’individuazione della originaria, genuina volontà che il testatore ha inteso manifestare nella relativa scheda.


L’annullamento per carenza dell’olografia opera – in presenza di un intervento di terzi – anche quando vi sia stata l’aggiunta di una sola parola, a condizione che l’azione del terzo si sia svolta durante la redazione del testamento stesso


L’intervento del terzo, se avvenuto in epoca successiva alla redazione, non impedisce al negozio “mortis causa” di conservare il suo valore tutte le volte in cui sia comunque possibile accertare la originaria e genuina volontà del “de cuius”.



Rileva anche l’area del testamento in cui è intervenuta la scrittura del terzo?


Sì.


In un testamento olografo, gli scritti apposti da un terzo in una parte del documento diversa da quella relativa alle disposizioni testamentarie, non comportano invalidità dello stesso, essendo tali scritti inidonei a pregiudicare la libertà di autodeterminazione del testatore.


In materia di testamento olografo, infatti, il rispetto del principio dell’autografia non impedisce che, nell’ambito dello stesso documento, siano enucleabili, da un lato, un testamento pienamente rispondente ai requisiti di legge e, dall’altro, scritti provenienti da una mano sicuramente diversa – apposti dopo la sottoscrizione da parte del testatore e, perciò, collocati in una parte diversa del documento – i quali, di per sé, non possono invalidare per intero la scheda testamentaria redatta dal testatore.


Il testamento olografo non perde il requisito dell’autografia nemmeno quando il testatore vi alleghi una planimetria redatta da terzi, per meglio descrivere gli immobili ereditari, già compiutamente indicati nella scheda testamentaria. Detto allegato, infatti, sottoscritto dal testatore, non integra la volontà del testatore ed è giustificato dall’esigenza di meglio individuare l’oggetto delle singole attribuzioni testamentarie tramite la rappresentazione grafica dei beni.


A risultato radicalmente diverso si deve approdare allorquando l’alterazione avvenga nel corpo della disposizione di ultima volontà e durante la confezione del testamento, ancorché su incarico o col consenso del testatore, giacchè ne elimina il carattere di stretta personalità, interferendo sulla volontà di disporre del de cuius.


E’ valido il testamento interamente redatto di pugno dal testatore che però ricopi fedelmente un altro scritto appartenente a terzi?


Il testamento redatto di proprio pugno dal testatore, ricopiando un testo predisposto da un terzo, non è privo del requisito dell’olografia, ed è pertanto perfettamente valido, a meno che non si deduca e dimostri che il testatore non si sia reso conto del contenuto dell’atto e che, quindi, la volontà apparente dal documento sia difforme da quella reale del disponente.

 

 

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