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Cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale: la rendita vitalizia ed i diritti degli eredi

 

 

Il punto, e qualche virgola, sul cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale.

 


“Rancurare”.


In dialetto veneto dicesi così dell’atto di prendersi cura, di accudire, di assistere una persona, specie se sia malata.

Una circostanza nobile per chi la esegue, preziosissima per chi la riceve.

Frequentemente il destinatario delle cure si ricorda del suo benefattore, privilegiandolo in sede testamentaria.

Altre volte, per ottenere più garanzie e disciplinare la questione, ci si mette a tavolino e si imbastisce un contratto che, in termini giuridici, viene denominato rendita vitalizia impropria o assistenziale.


In che cosa consiste.


Il nostro codice civile non contempla specificamente questo tipo di contratto, bensì la rendita vitalizia, che è l’accordo con cui una parte trasferisce ad un’altra la proprietà di un bene immobile o di un capitale in cambio della corresponsione di un vantaggio periodico e protratto anche per tutta la durata della sua vita.

Quando il “vantaggio” conferito come controprestazione, consiste nel fornire vitto, alloggio o assistenza, per tutta la durata della vita ed in correlazione ai suoi bisogni alla persona che ha trasferito la proprietà dell’immobile, parliamo di vitalizio assistenziale, così definito dalla giurisprudenza.

 

 

La circostanza da precisare chiaramente, per capire il tipo di affare di cui stiamo parlando, è che si tratta di un contratto “aleatorio”.

Alea iacta est”, pronunciò Giulio Cesare,varcando il Rubicone. Il dado è tratto.

Noi sappiamo che quando si tirano i dadi non si sa come vada a finire e che numero possa uscire.


Ecco, il contratto aleatorio è quello dove non è possibile, anzi non si deve predeterminare l’equilibrio tra prestazione e contraprestazione, non si deve sapere chi ci perde e chi ci guadagna, essendo l’elemento incertezza essenziale per la validità stessa del contratto.


Come in ambito assicurativo non è dato prefissare se, pagando la cifra di tot euro l’anno, per il premio ci possa guadagnare la compagnia – nel caso in cui non si verifichi nessun sinistro, incamerando la rata senza fornire alcuna prestazione – oppure l’assicurato, vedendosi garantito di somme molto superiori a quanto corrisposto per la polizza nell’ipotesi di incidente, così pure deve essere per il vitalizio: deve essere incerto se l’affare possa volgere a vantaggio di chi acquisisce il bene immobile o di chi invece sia beneficiato dalla prestazione pattuita in cambio per l’affare.


Anzi, è proprio nell’ipotesi in cui una delle parti ci possa rimettere che la natura particolare di questo tipo di contratto diviene evidente: la legge, infatti,stabilisce espressamente che si sia tenuti a pagare la rendita, il servizio, per tutto il tempo pattuito “per quanto gravosa sia divenuta la prestazione” (art. 1879 cc), senza che vi sia la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, nemmeno offrendo di restituire il bene ricevuto per farla finita.


Se questa incertezza, questo rischio, viene a mancare il contratto è nullo.


La circostanza non è di poco conto.


Facciamo un esempio.

La giurisprudenza ha rilevato la nullità del contratto di vitalizio assistenziale laddove sia stato stipulato tra due parti, una delle quali di età avanzatissima.

Proprio tale circostanza ha fatto ritenere ai giudici che non ci fosse incertezza, proprio perchè l’evento morte della persona anziana era pronosticabile a breve termine, per cui sarebbe stato agile quantificare il rapporto tra prestazione e controprestazione, senza correre rischi (Cass. civ. Sez. II Ord., 27/10/2017, n. 25624).

 

 


Vi deve essere, pertanto, incertezza obiettiva iniziale in ordine alla durata di vita del beneficiario e correlativa eguale incertezza circa il rapporto tra il valore complessivo delle prestazioni dovute dall’obbligato ed il valore del cespite patrimoniale ceduto in corrispettivo del vitalizio.


Alcune volte, questo tipo di contratto è utilizzato per perseguire scopi ulteriori, estranei alla ratio legis: ad esempio per nascondere una donazione che, in quanto tale, potrebbe sconvolgere gli equilibri successori alla morte del vitaliziato, pregiudicando i diritti degli eredi legittimari.

Facciamo riferimento ad ipotesi in cui o chi voglia cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale non abbia alcun concreto interesse o bisogno a tale cura, oppure a quelle, più frequenti, in cui vi sia un notevolissimo squilibrio tra il valore dell’immobile (o degli immobili) e quello della controprestazione cui sia tenuto il vitaliziante (Cass. sentenza n. 15904/2016

Altre volte la sproporzione non è così ciclopica, ma sussiste comunque una apprezzabile differenza tra il vantaggio presumibile per colui che cede il bene e quello che, in cambio delle proprie prestazioni assistenziali, lo riceve.

Il vitaliziato cede il proprio bene, ma l’operazione, se commisurata al beneficio ricevuto in cambio, denota un sensibile sbilanciamento, probabilmente dettato da spirito di liberalità del conferente.

In tali ipotesi si parla di contratto “oneroso misto a donazione”, nel quale le parti intendono realizzare, accanto allo scambio di attribuzioni patrimoniali, anche un vantaggio a favore di una di esse.

Col negozio mixtum cum donatione le parti addivengono ad una donazione indiretta valendosi del negozio che esse dichiarano di porre in essere, e che effettivamente stipulano, per ottenere uno scopo che diverge dalla causa o funzione tipica del negozio medesimo.

L’ipotesi implica, sul piano della volontà delle parti, un trasferimento operato a prezzo inferiore a quello effettivo, caratterizzato da animus donandi, cioè fatto con l’intenzione di attribuire gratuitamente tale maggior valore.

In tali ipotesi, sia di donazione simulata che di donazione indiretta o mista, spetterà agli eredi del vitaliziato l’onere di agire dimostrando la differente natura del negozio posto in essere ed il loro correlativo diritto di essere integrati della quota di spettanza.

 

cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza
cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale

 

Si segnala una interessante e recentissima ordinanza della Corte di Cassazione che ci aiuta a fissare il momento temporale a cui fare riferimento per valutare se vi sia manifesta sproporzione tra le prestazioni pattuite tra le parti con il vitalizio assistenziale.

In tale ambito gli ermellini si sono trovati a pronunciarsi circa la doglianza promossa dai ricorrenti in ordine alla bontà della Sentenza di primo e secondo grado che aveva parametrato il valore dei cespiti immobiliari ceduti al momento della morte del vitaliziato e, quindi, all’apertura della successione, senza tener conto che, nel frattempo, erano stati eseguiti ingenti lavori sui beni trasferiti, tali da aumentarne sensibilmente il loro valore.

La Suprema Corte ha stabilito che si debba fare riferimento al momento della stipula del contratto di vitalizio: è lì che si deve verificare tanto l’esistenza del requisito dell’aleatorietà del negozio, quanto una sensibile ed immediatamente appurabile divergenza tra le prestazioni oggetto di scambio.

 

L’ordinanza: Cass. Civ. n. 14270/2019 del 24 maggio 2019

 

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale

Cancellazione o distruzione del testamento operata dal testatore.

Revoca per cancellazione o distruzione del testamento dalla A alla R (ossia la revoca della revoca).

Cambia tre abitudini all’anno e otterrai risultati fenomenali.
(Anonimo)

Cambia tre testamenti ed otterrai un risultato matematico: la lite tra gli eredi.


Quale varrà? Il primo, no il secondo, ma certo il terzo.


Ne avevamo già parlato in questo post: libertà è la parola magica che contraddistingue la condizione del testatore allorquando confeziona l’atto delle sue ultime volontà.


Libero di scegliere come disporre, libero anche di cambiare idea, revocando il primo testamento.


Ci eravamo anche soffermati (post) su come l’ultimo testamento possa – esplicitamente (“revoco ogni mio precedente testamentoart. 680 cc) o implicitamente (tramite disposizioni del tutto incompatibili con quello pregresso) togliere efficacia ad altri d’epoca più risalente.

revoca del testamento


La revoca del testamento può avvenire anche con la distruzione o cancellazione di quanto redatto.


L’art. 684 del codice civile ci dice che “Il testamento olografo distrutto, lacerato o cancellato, in tutto o in parte, si considera in tutto o in parte revocato”.


Tale contegno è stato ritenuto dal nostro legislatore come compatibile con la volontà da parte del de cuius di togliere valore ed efficacia al proprio atto di disposizione.


Questa è la norma, a meno che..


…a meno che a distruggere o a cancellare il documento siano stati terzi soggetti, contro la volontà del disponente.

In tal caso non si potrà rinvenire alcuna revoca, posto che tale determinazione può provenire solo dall’unico soggetto legittimato a disporla ed il contenuto del testamento, se sarà possibile farlo, potrà essere ricostruito tramite eventuale prova testimoniale o producendo un’eventuale fotocopia.

testamento distrutto


Attenzione, sarà il soggetto che vorrà dedurre che vi sia stata una distruzione di un testamento non più esistente a dover dare dimostrazione dapprima dell’ incolpevole perdita del documento, quindi che tale eliminazione non sia stata dovuta alla volontà del testatore, circostanza che si presume sino a prova contraria.


La produzione di una copia del testamento” infatti “giustifica la presunzione che il de cuius lo abbia revocato distruggendo deliberatamente l’originale, con la conseguenza che la parte che voglia avvalersene deve fornire la prova dell’esistenza del documento al momento dell’apertura della successione”.(Cass. civ. Sez. II, 18/05/2015, n. 10171)


Bene.


E se dopo un cambio di rotta operato una prima volta, ossia dopo il confezionamento di un testamento, revocato tramite altro e successivo testamento, ne venisse redatto un altro, un terzo, e questo venisse poi cancellato, con una bella croce, dal testatore stesso, che sorte si avrebbe?

Varrebbero quelli precedenti? Il primo? Il secondo? Oppure si dovrebbe procedere come se mai testamento fosse stato scritto, in quanto alcuno ve ne rimarrebbe che non fosse stato revocato dal testatore?


Si tratta, in buona sostanza, di una “revoca della revoca”.


Ebbene, il nostro legislatore tocca tale frangente con una norma specifica, anche se di limitata portata.


E’ disposto, infatti, che “la revocazione fatta con un testamento posteriore conserva la sua efficacia anche quando questo rimane senza effetto perché l’erede istituito o il legatario è premorto al testatore, o è incapace o indegno, ovvero ha rinunziato all’eredità o al legato” (art 683 cc)


In realtà, l’ipotesi espressamente contemplata dalla legge è dissimile dal caso che ci siamo posti, perchè la norma attiene ad ipotesi per le quali il testamento abbia perso efficacia non già a seguito della mutata volontà del disponente, bensì in conseguenza di circostanze ad egli estranee (es la morte dell’erede designato etc…).


Nel nostro caso il testamento “revocante” è stato cancellato dallo stesso disponente.

testamento cancellato
cancellazione o distruzione del testamento operata dal testatore


E’ possibile applicare analogicamente tale fattispecie a quella di cui ci occupiamo?


No. Nein. Niet.


La nozione di “inefficacia” del testamento successivo contemplata nella rubrica dell’art. 683, sebbene non sia tassativa e possa essere, in genere, estesa anche a ipotesi non previste dalla norma, può però ricorrere solo quando la nuova disposizione attributiva non abbia effetto per ragioni (esterne) attinenti ai soggetti beneficiari della disposizione, e non in situazioni diverse, per le quali è l’artefice stesso delle proprie ultime volontà a privarle d’efficacia.


Sarà utile, allora, concentrarci su un altro articoletto di legge molto interessante, il 681 cc, il quale stabilisce che “la revocazione totale o parziale di un testamento può essere a sua volta revocata sempre con le forme stabilite dall’articolo precedente. In tal caso rivivono le disposizioni revocate”.


E’ possibile revocare la revoca, con resipiscenza di quanto in precedenza reso inefficace, purchè si proceda nelle forme di legge.


Quali sono?


In realtà “l’articolo precedente” a cui fa riferimento la norma appena citata stabilisce che la revoca possa essere operata con un nuovo testamento, o con atto ricevuto da notaio in presenza di due testimoni.


Nel nostro caso nulla di tutto ciò è avvenuto, avendo il testatore semplicemente barrato il testamento che revocava quello precedente.


Siamo lontani dalla soluzione?


Anche no.


Ci viene in soccorso la Corte di Cassazione, che con una recentissima sentenza – regolante, guarda caso, proprio la questione che oggi ci tormenta – ha osservato acutamente che “la distruzione dell’olografo, se operata dal testatore intenzionalmente, elide la riconducibilità dell’atto distrutto al suo autore (ciò che non è se la distruzione non sia stata intenzionale o sia stata posta in essere da terzi). Immaginare la revoca di una “distruzione” con un successivo testamento o con atto ricevuto da notaio in presenza di testimoni, per poi doversi ricostruire aliunde l’atto distrutto, senza direttamente – invece – dettarsi nuove disposizioni, appare una ipotesi di scuola non ragionevolmente avuta presente dal legislatore codicistico; analogamente, immaginare che la distruzione di un testamento revocante lasci in essere la revoca effettuata”.


Parimenti, appare fuori logicaimmaginare che la distruzione di un testamento revocante lasci in essere la revoca effettuata, in quanto la… distruzione, … è priva di forma espressa”.


Più logico è allora ritenere, “che l’art. 681 c.c. imponga la forma espressa per le sole revoche di revoca diverse dalla soppressione o alterazione del documento-olografo”.


In buona sostanza, via libera alla revoca tacita di una revoca effettuata con l’ultimo testamento, con l’effetto di far rivivere l’ultimo testamento non revocato.


Che mal di testa.


Leggetevi tutta la Sentenza (Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 27-04-2018) 21-03-2019, n. 8031) e ne riparliamo.


Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

distruzione del testamento operata dal testatore

Perchè è rischioso comprare un immobile donato?

Alcune cose da sapere se si ha intenzione di comprare un immobile donato (e che il mediatore dovrebbe comunicare).

“La generosità significa dare più di quello che puoi, e l’orgoglio sta nel prendere meno di ciò di cui hai bisogno.”
KHALIL GIBRAN

Caro Khalil, il discorso non fa una piega, ma dare di più di quello che si può potrebbe creare delle difficoltà a chi riceve, specie se vi fossero potenziali coeredi.

Andiamo con ordine e partiamo da ciò che già abbiamo discusso più e più volte (link 1, link 2 link 3): la donazione è una sorta di anticipo di eredità.


Chi abbia ricevuto in vita deve poi mettere quanto conseguito nel calderone del patrimonio successorio da considerarsi al fine di valutare se vi siano state lesioni delle quote spettanti ad alcuni eredi, definiti necessari o legittimari.


Se, infatti, a questi ultimi rimarrà meno di quanto la legge abbia stabilito nei loro confronti, essi potranno agire in riduzione, ossia chiedere che i lasciti e le donazioni effettuate in vita dal defunto siano ridotti nella misura tale da reintegrare la quota lesa.

Comprare un immobile donato: le ragioni del cuore debbono considerare quelle della legge


Quando oggetto di donazione sia stato un bene immobile, la riduzione si opererà separando dall’immobile medesimo la parte occorrente per integrare la quota riservata, se ciò potrà avvenire comodamente (art. 560 cc), altrimenti dovrà essere messe interamente a disposizione dei coeredi che abbiano agito in riduzione, i quali potranno soddisfarsi sulla porzione di loro competenza, lasciando il residuo al beneficiario del lascito.


Si afferma al riguardo che l’azione di riduzione abbia effetti reali: non sarà aggredibile tanto il valore dell’immobile donato, ma il bene stesso, che fisicamente entrerà nel computo ereditario e potrà essere spartito (o venduto, con suddivisione del ricavato).

E se il bene oggetto di donazione fosse stato nel frattempo venduto ?


Se, cioè, il beneficiario dell’immobile donato avesse trasferito la proprietà del bene prima dell’esercizio dell’azione di riduzione operata dai coeredi lesi?

L’azione di riduzione ha effetti retroattivi e, seppure con alcune limitazioni, si esplica anche nei confronti dei terzi, siano essi acquirenti della proprietà o acquirenti di diritti reali di godimento o di garanzia.

Stabilisce, infatti, la legge che se i donatari contro i quali è stata pronunziata la riduzione hanno alienato a terzi gli immobili donati … il legittimario, premessa l’escussione dei beni del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti … la restituzione degli immobili. (art. 563 cc)

azione di riduzione
L’azione di riduzione da parte dei legittimari potrebbe mettere a rischio la stabilità dell’affare di chi volesse comprare un immobile donato.


Così l’acquisto del donatario e quello dei suoi aventi causa sono posti in condizione di instabilità per l’intero spazio di tempo che va dal momento della donazione a quello in cui il titolo di acquisto può essere impugnato dall’attore in riduzione.


Il donatario, tuttavia, trascorsi almeno vent’anni dal conseguimento della donazione potrà disporre del proprio diritto senza che i suoi aventi causa abbiano a temere di subire le conseguenze di un eventuale vittorioso esercizio dell’azione di riduzione da parte dei legittimari del donante. In tal caso è per legge preclusa la possibilità di restituzione dell’immobile da parte dei nuovi acquirenti, essendo assogettato alla riduzione il solo donatario, senza il coinvolgimento di terzi soggetti.

Orbene. Tiriamo le fila.


Se chi riceve in donazione un bene immobile potrebbe essere destinatario, in futuro, di un’azione di riduzione da parte di eventuali eredi lesi nella loro quota di legittima e se tale azione potrebbe comportare la retrocessione dell’immobile nell’ambito ereditario, per soddisfare i diritti dei soggetti che abbiano chiesto la riduzione, intaccando anche l’acquisto avvenuto ad opera di terzi medio tempore, allora potrebbero nascere delle grane e, quanto meno, la disponibilità del bene donato potrebbe essere limitata dalle eventualità sopra accennate.


Va aggiunto, circostanza non trascurabile, che il sistema bancario non concede agilmente credito garantito da ipoteca, se l’immobile offerto in garanzia è stato acquistato a titolo gratuito.

Vale a dire che potrebbero emergere gravi problemi di reperibilità di fondi per chi, interessato all’acquisto di un immobile donato, volesse conseguire un mutuo per pagarlo, in quanto la banca, se anche vi iscrivesse ipoteca, sarebbe considerata soccombente rispetto ai diritti di chi agisca in riduzione e vedrebbe volatilizzarsi il bene oggetto della ipoteca a garanzia delle somme erogate.


L’art. 561 cc infatti, stabilisce che gli immobili restituiti in conseguenza della riduzione sono liberi da ogni peso o ipoteca cui il donatario possa averli gravati.


Bisognerà, conseguentemente, essere alquanto fortunati a reperire un istituto di credito che si assuma questo rischio.


Certo, talvolta il possibile quadro ereditario è facilmente ricostruibile al momento della donazione, tanto da lasciare pochi margini di possibilità ad eventuali azioni di riduzione. Pensiamo al donatario figlio unico.


Anche in tali casi, tuttavia, l’insidia astrattamente potrebbe essere possibile e limitare comunque l’appetibilità commerciale del bene.


L’instabilità si verifica anche se il donante al momento dell’atto di disposizione non abbia coniuge, discendenti o ascendenti perchè i legittimari potrebbero sopravvenire in un secondo tempo.

Va ricordato, infatti, che ai fini della riducibilità non è consentita distinzione tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario (Cass. n. 1373/2009): il figlio nato nel matrimonio legittimo ha diritto di calcolare la legittima anche sui beni donati prima della sua nascita, il figlio nato fuori dal matrimonio sui beni donati prima del riconoscimento, il figlio adottivo sui beni donati prima del provvedimento che pronunzia l’adozione, il coniuge sui beni donati prima del matrimonio.
Senza contare l’ipotesi in cui il donante che abbia attribuito il bene al proprio unico figlio, potrebbe ledere i diritti del coniuge, legittimando l’azione di riduzione da parte di costui.


Donazione, pertanto, è una determinazione da valutare attentamente e da considerare alla luce di tutte le possibili insidie che ne potrebbero conseguire.

Il mediatore diligente è tenuto a rendere edotte le parti dei rischi che potrebbero emergere dall’acquisto di un bene donato?


Al quesito ha dato risposta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 965/2019)


Nel caso concreto i promissari acquirenti di un immobile si erano rifiutati di stipulare il contratto definitivo a fronte della scoperta, successiva al preliminare, che il bene fosse stato oggetto di donazione in capo alla parte venditrice.


La banca che avrebbe dovuto erogare il mutuo aveva ritrattato la propria disponibilità, non volendo incorrere in potenziali rischi di riduzione.
Conseguentemente gli attori erano a chiedere il rimborso dell’assegno versato al mediatore a titolo di provvigione per l’affare concluso.


La Corte Suprema ha preso le mosse per la propria decisione da una disposizione di legge, art. 1759 cc., a mente della quale il mediatore deve comunicare alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso.


Ebbene, “In considerazione degli inconvenienti cui dà normalmente luogo la provenienza da donazione deve pertanto affermarsi il principio che la provenienza da donazione costituisce circostanza relativa alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, rientrante nel novero delle circostanze influenti sulla conclusione di esso, che il mediatore deve riferire ex art. 1759 c.c. alle parti”

L’obbligo del mediatore di comunicare, ai sensi dell’art. 1759 c.c., comma 1, alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso, non è limitato alle circostanze conoscendo le quali le parti o taluna di essa non avrebbero dato il consenso a quel contratto, ma si estende anche alle circostanze che avrebbero indotto le parti a concludere quel contratto con diverse condizioni e clausole. Il dovere di imparzialità che incombe sul mediatore è, infatti, violato e da ciò deriva la sua responsabilità – tanto nel caso di omessa comunicazione di circostanze che avrebbero indotto la parte a non concludere l’affare, quanto nel caso in cui la conoscenza di determinate circostanze avrebbero indotto la parte a concludere l’affare a condizioni diverse” (Cass. n. 2277/1984).”.

Conclusione? Siate generosi, ma siatelo con avvedutezza, cercando di considerare le conseguenze della vostra liberalità, mettendo in condizioni chi ne beneficerà di non rischiare, in futuro, di perdere quanto conseguito o di non poterne disporre.

Per una consulenza sul rischio di comprare un immobile donato

da parte degli Avvocati Berto

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato: facciamo il punto.

Si può cancellare dal cuore il dolore di una perdita?
No. Ma ci si può rallegrare con ciò che si ricava da essa
.”
Paulo Coelho

Oddio, rallegrare è una parola grossa, ma è indubbio che poter contare su un sostegno economico possa aiutare ad attutire la caduta ed a tamponare alcune preoccupazioni che potrebbero conseguire dalla perdita di un proprio caro.


Quando muore una persona, un effetto che immediatamente si determina è il venir meno del sostegno economico che il defunto, con il proprio lavoro o con la propria pensione, apportava ai suoi famigliari.
Per tamponare tale assai pregiudizievole conseguenza, la legge ha disposto l’istituzione della pensione di reversibilità, ossia il trasferimentodel diritto di percepire parte della pensione della persona deceduta ad alcune categorie di soggetti specificamente determinate.


In particolare, il R.D. n. 636/1939 art. 13, stabilisce che.
nel caso di morte del pensionato … spetta una pensione al coniuge e ai figli superstiti che, al momento della morte del pensionato .. non abbiano superato l’età di 18 anni e ai figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi.
Le quote di reversibilità, per quanto qui ci possa interessare, sono:
a) il 60 per cento al coniuge;
b) il 20 per cento a ciascun figlio se ha diritto a pensione anche il coniuge, oppure il 40 per cento se hanno diritto a pensione soltanto i figli.

diritto pensione reversibilità


Si noti: la legge non richiede (a differenza che per i figli di età superiore ai diciotto anni, per i genitori superstiti e per i fratelli e sorelle del defunto, etc), quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno, ma unicamente l’esistenza del rapporto coniugale col coniuge defunto pensionato.


Il diritto pensionistico viene meno se il coniuge superstite o i figli contraessero nuove nozze.

Ci siamo? Bene.

Al coniuge separato spetta qualcosa della pensione del consorte defunto?


La Legge non pone alcuna preclusione al riconoscimento della reversibilità al separato superstite.


Vi erano due sole limitazioni – che la separazione non fosse stata pronunciata per colpa del superstite e che le nozze fossero durate almeno due anni se avvenute dopo che il defunto aveva compiuto 70 – ma sono state spazzate via da pronunce della corte Costituzionale che ne ha pronunciato la illegittimità.


In particolare, non è stato considerato ostativo un eventuale addebito posto a carico del coniuge, poi superstite, in quanto ciò che andava tutelata era la necessità di assicurargli la continuità di quei mezzi di sostentamento, che se fossero sopravvenuti stati di bisogno, il defunto consorte avrebbe dovuto fornire. (C. Cost. 286/1987).


Pensione reversibilità coniuge separato senza assegno di mantenimento.


Sulla scorta di tali identiche motivazioni, la pensione di reversibilità andrà riconosciuta anche al coniuge separato superstite che non fosse beneficiario di alcun assegno di mantenimento a carico del consorte, poi deceduto.


Della questione se ne è occupata recentissimamente la Corte di Cassazione , che ha riformato le pronunce dei gradi precedenti con cui era stato disatteso il diritto di una moglie a vedersi riconosciuta la reversibilità del marito, sul presupposto che non godesse di alcun assegno di mantenimento e che, quindi, non avesse diritto al sussidio, perchè già autosufficiente.


Ebbene, gli ermellini hanno rilevato che se non si debba distinguere, al fine del riconoscimento, il titolo della separazione – con o senza addebito – alla stessa stregua si dovrà ragionare per il coniuge che non abbia alcun diritto economico riconosciuto dalla sentenza separativa.


La ratio della tutela previdenziale è rappresentata dall’intento di porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, “senza che tale stato di bisogno divenga concreto presupposto e condizione della tutela medesima”.

reversibilità divorzio


Pensione reversibilità per il coniuge divorziato.


Qui è un altro paio di maniche, in quanto la legge stessa ha posto alcuni paletti.
Ce ne siamo già occupati in un post specifico, ma riassumiamo .

L’art. 9 della L. 898/1970 stabilisce che “In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”

Il diritto, pertanto, matura in capo al superstite divorziato se:

  • gli sia stato riconosciuto il diritto all’assegno divorzile;
  • non sia passato a nuove nozze;
  • il contributo pensionistico da devolvere tragga origine da un rapporto di lavoro anteriore alla sentenza di divorzio.

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato: no se è convolato a nuove nozze

Pensione di reversibilità per il coniuge superstite risposato solo in Chiesa.

Siamo in Italia, e sappiamo che da noi fatta la legge è trovato l’inganno.

Per scampare il pericolo di perdere la reversibilità, è diffusa la consuetudine di risposarsi solamente con rito religioso, senza conseguire gli effetti civili del vincolo e, con essi, le conseguenze inerenti al rapporto matrimoniale riconosciuto dallo Stato.

Si faccia attenzione.

Se si dovesse procedere successivamente alla trascrizione del matrimonio canonico, si rischierebbe di dover restituire gli importi conseguiti nel frattempo a titolo di pensione di reversibilità.

Ai sensi di legge, infatti, “ La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi”.

Bene, da tale disposizione la giurisprudenza ha tratto la retroattività degli effetti civili della trascrizione al momento della celebrazione (religiosa).

Venendo meno, a monte, i presupposti per l’attribuzione della pensione di reversibilità, il coniuge superstite, risposato a tutti gli effetti, dovrà dire un grosso CIAONE agli emolumenti previdenziali nel frattempo conseguiti, con l’obbligo di restituirli nei limiti della prescrizione. (Cass. Civ. n. 9694/2010)

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Ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche: via libera se non pregiudica l’utilizzabilità degli spazi comuni

L’ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche può creare disagio e minor godimento degli spazi comuni, ma se non ne impedisce la loro utilizzabilità è legittima la sua installazione.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art 2 Costituzione.

Alziamoci in piedi alla parola della Costituzione.

Solidarietà: i padri costituenti hanno imposto a tutti i cittadini un sentimento, la solidarietà, volto a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.


“Roba che se non ci vogliamo bene ci danno una multa”, come salacemente arguiva il noto attore, Roberto Benigni.


Solidarietà, pertanto, risiede anche nell’eliminare le barriere architettoniche che pregiudicano l’inclusione della persona con disabilità.


Il problema è che tale obbligo, in contesti talvolta ristretti e animati come quelli condominiali, dove i diritti dei singoli e quelli comuni di tutti possono, se non collidere, trovare difficile composizione, anima, eccome, i consessi assembleari per scaturire – come se fossero la naturale destinazione – in ingarbugliati meandri giudiziari.

Ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche: dal diritto all’inclusione al pieno godimento degli altri condomini


Facciamo il punto della situazione? Proviamoci.


La partenza è variegata, come le circostanze che contraddistinguono ogni persona non autosufficiente: la vecchiaia debilitante, una malattia risalente, un infortunio paralizzante possono rendere angusto ed inaccessibile lo stesso ambiente dove risieda chi – suo malgrado – si trovi a far fronte ad una disabilità.


Specie se – tra l’androne di ingresso e l’appartamento di abitazione vi siano svariate rampe di scale.
In questo caso, spostarsi, accedere e recedere da casa può risultare impeditivo.


Un aiuto, concreto, può essere l’installazione di un ascensore.


Qui, tuttavia, entrano in gioco diversi fattori da prendere in considerazione: il decoro architettonico dell’edificio, la minorata ampiezza dei pianerottoli interessati dall’innovazione e delle scale coinvolte dall’opera, l’illuminazione deteriorata, il godimento degli spazi compresso, la riluttanza dei condomini a farsi carico di spese per loro non immediatamente necessarie ed indispensabili.


Cosa dice la legge.


Entrano in ballo molteplici discipline normative, codice civile e leggi ad hoc.
In primis, l’art. 1120 cc, a mente del quale “I condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell’articolo 1136 – maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio – possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto….le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche”.


Quindi, se l’installazione di un ascensore venisse approvata con voti che rappresentino più della metà dei millesimi di proprietà, nessun problema, purchè venga rispettata la norma di chiusura posta dal codice civile: sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.


E se non ci fosse la maggioranza? Oppure se nemmeno venisse dato ascolto alla richiesta del condomino che, trovandosi in condizioni di disabilità, faccia richiesta di installare il salvifico ascensore?


Vi è una normativa specifica, la Legge n. 13/1989, “Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, volta a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata.


E’ stabilito che “nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni – volte ad attuare le innovazioni negli dirette ad eliminare le barriere architettoniche – i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages”.

condominio persone con handicap


In buona sostanza, la persona con disabilità potrà procedere comunque all’esecuzione dell’opera richiesta, con spese a proprio integrale carico, fatta salva la possibilità per gli altri condomini di poterla utilizzare in futuro, purchè rimborsino quota parte delle spese di realizzazione e manutenzione dell’ascensore.


Pare si sia trovata la “quadra” e che problemi non possano sussistere a fronte della chiarezza della legge.


Non è così.


Le facoltà riconosciute alla persona con disabilità debbono comunque preservare alcune indicazioni dettate dal codice civile.
In particolare quelle stabilite dal già menzionato art. 1120 cc., che vieta le innovazioni lesive del decoro architettonico e comunque quelle che rendano parti dell’edificio inservibili all’uso o al godimento da parte degli altri condomini.


Inoltre, va richiamato un altro principio generale, vigente in materia di comunione: ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (1102 cc)


E’ incontestabile che, talora, l’installazione dell’ascensore possa comportare un’invasione di consistenti aree di proprietà condominiale e che, conseguentemente, possa limitare il pieno e pregresso utilizzo delle stesse da parte degli altri compartecipanti.


Ebbene, sul punto è intervenuta pochi giorni fa una sentenza della Corte di Cassazione che aiuta a fare chiarezza.


Il limite fissato dall’art. 1120 c.c. non si indentifica nel semplice disagio ovvero nel minor godimento che l’innovazione procuri al singolo condomino rispetto a quella goduta in precedenza, ma con l‘inutilizzabilità del bene secondo la sua normale destinazione.


L’installazione dell’ascensore nel vano scale che comporti la limitazione, per alcuni condomini, della originaria possibilità di utilizzazione delle scale e dell’andito occupati dall’impianto non rende l’innovazione lesiva del divieto richiamato dall’art. 1120 cc, anche se, se a fronte della minore utilizzabilità delle parti comuni, gli altri comproprietari non abbiano ricevuto alcun vantaggio compensativo. La sola riduzione dei gradini o l’occupazione dello spazio comune, disgiunta dall’accertamento dell’impossibilità di servirsi delle scale o dello spazio condominiale, o dal concreto apprezzamento della riduzione di luminosità alla porzione esclusiva, non consentono di ritenere l’opera in contrasto con il limite imposto dalla legge.

La sentenza: Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 29-11-2018) 12-03-2019, n. 7028

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Ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche

Erede legittimo escluso dal testamento: la lezione della Corte di Cassazione

Quali sono i rimedi accordati dalla legge all’erede legittimo escluso dal testamento?

Orationis summa virtus est perspicuitas – La più grande virtù del discorso è la chiarezza
(Quintiliano)

Chiarezza!


Virtù meravigliosa in ogni ambito, da perseguire, purtroppo molte volte dispersa nel nostro mondo giuridico, dove ad essa talora fa da contraltare la supercazzola, leggasi un coacervo di argomentazioni più o meno sensate e tra di loro confliggenti, volte a creare disorientamento con la falsa apparenza di dare risposte precise a questioni in realtà semplicissime.


Detto questo, possiamo dirlo? Ecco una sentenza che fa bene, perchè è chiara, papale, quasi scolastica nel prendere per mano il lettore, istruirlo ed accompagnarlo, consapevole, alla statuizione contenuta nel dispositivo.


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 22-10-2015) 04-12-2015, n. 24755 : ecco il provvedimento.


Una decisione molto utile per soffermarci sul caso che oggi ci riguarda, quello dell’erede legittimo escluso dal testamento.


Ci sarà sufficiente prendere gli incisi più significativi della Sentenza, paragrafarli, leggerli attentamente e ….taaccc saremo tutti esperti in materia.

Il caso.


Un padre aveva disposto con testamento delle sue sostanze, attribuendo tutti i suoi beni ai discendenti maschi, lasciando le figlie a bocca asciutta, senza alcuna attribuzione patrimoniale.


Quest’ultime impugnavano la disposizione testamentaria, agendo in riduzione, chiedendo cioè l’accertamento della loro qualifica di eredi necessarie e conseguentemente la liquidazione della loro quota di spettanza, riservata loro dalla legge, riducendo quelle dei fratelli .


Il Tribunale prima, la Corte d’Appello poi, accoglievano la loro istanza, ma anziché attribuire loro una quota dei beni caduti in successione, disponeva in loro favore solamente l’equivalente corrispettivo pecuniario.

calcolo quota di legittima


La Corte di Cassazione, con la pronuncia indicata, riforma parzialmente le sentenze dei gradi precedenti, procedendo con un excursus giuridico tutto da gustare.

  • A tutela dell’interesse generale alla solidarietà familiare, l’ordinamento giuridico prevede – con disposizioni che hanno carattere inderogabile – che i più stretti congiunti del de cuius hanno il diritto di ottenere, anche contro la volontà del defunto e in contrasto con gli atti di disposizioni dallo stesso posti in essere, una quota di valore del patrimonio ereditario e dei beni donati in vita dal defunto stesso (c.d. diritto di legittima o di riserva). La legge configura così una “successione necessaria“, in forza della quale le disposizione del defunto lesive della “quota di legittima”, pur non essendo invalide (nulle o annullabili), sono tuttavia soggette a riduzione, sono cioè suscettibili – su domanda del legittimario leso (c.d. azione di riduzione) – di essere private della loro efficacia giuridica nella misura necessaria e sufficiente a reintegrare il diritto del legittimario.
  • Con l’azione di riduzione (art. 557 cod. civ.) … il legittimario, leso nel suo diritto di legittima dalle disposizioni testamentarie o dagli atti di donazione posti in essere dal de cuius, può ottenere la pronuncia di inefficacia, nei suoi confronti, delle disposizioni del defunto lesive della sua quota di riserva.
  • Il legittimario,… a seguito dell’esercizio dell’azione di riduzione, acquista la qualità di erede, conseguendo perciò una quota dell’eredità, la cui misura muta – secondo le previsioni di legge – a seconda del numero dei legittimari e della vicinanza del loro legame familiare col defunto.
  •  l’azione di riduzione è irrinunciabile finchè la successione non è ancora aperta, – altrimenti si incorrerebbe in ipotesi di patti successori, nulli per legge – l’azione di riduzione è invece rinunciabile dal legittimario dopo l’apertura della successione
  • La legge non riserva ai legittimari tutta l’eredità, ma riserva loro solo una quota o frazione di essa (c.d. quota non disponibile o di riserva), consentendo che la restante parte (c.d. quota disponibile) possa mantenere la destinazione voluta dal de cuius.
  • la quota disponibile da parte del de cuius e, specularmente, la quota di riserva spettante al legittimario vanno calcolate (art. 556 cod. civ.) procedendo, anzitutto, alla formazione della massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della sua morte (c.d.relictum) e alla determinazione del loro valore con riferimento al momento dell’apertura della successione; indi detraendo dal relictum i debiti del defunto, da valutare con riferimento alla stessa data, in modo da ottenere il c.d. attivo netto; provvedendo successivamente alla c.d. riunione fittizia, ad una riunione cioè meramente contabile, tra attivo netto e i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione (c.d. donatum), dovendosi a tal fine stimare i beni immobili e mobili donati secondo il valore che avevano al tempo dell’apertura della successione (artt. 747 e 750 cod. civ.) e il denaro donato secondo il suo valore nominale (art. 751 cod. civ.);calcolando poi la quota disponibile e la quota indisponibile sulla massa risultante dalla somma tra il valore del relictum al netto ed il valore del donatum; imputando, infine, le liberalità fatte al legittimario , con conseguente diminuzione, in concreto, della quota ad esso spettante .
  •  la reintegrazione della quota di legittima, conseguente l’esercizio dell’azione di riduzione, deve essere effettuata con beni in natura … senza che si possa procedere alla imputazione del valore dei beni, ossia liquidando il corrispettivo pecuniario.
  • In buona sostanza, il legittimario, ha diritto di ricevere la sua quota di eredità in natura e non può essere obbligato a ricevere la reintegrazione della sua quota in denaro.

divisione ereditaria
Erede legittimo escluso dal testamento: diritto ad una porzione dei beni caduti in successione

E’ chiaro? Le sorelle non dovevano essere liquidate con i soldi corrispondenti al valore della loro quota, ma in quanto eredi di una quota, con una porzione dei beni – mobili o immobili – caduti in successione, a meno che non fosse concordata con gli altri coeredi una differente modalità di liquidazione.

Alzi la mano chi non ha capito?

Beh, in tal caso, chiamate al numero dello studio Berto ed un chiarimento vi verrà senz’altro offerto.

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Erede legittimo escluso dal testamento

Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione?

Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione? Il punto della giurisprudenza.

Gli Italiani sono famosi nel mondo per due cose: il Diritto romano e il diritto d’infischiarsene.
(Stellario Panarello)

L’istituto dell’usucapione è figlio di entrambi i sopracitati paradigmi.


Il diritto romano, infatti, ha fatto derivare dal sostanziale disinteresse del proprietario di un bene la possibilità di considerare in tutto e per tutto titolare dello stesso chi lo abbia posseduto ed utilizzato come proprio per un periodo di tempo consistente.


Del tema ce ne siamo già occupati (link 1, link 2, link 3).


Basti, per ora, ricordare che l’usucapione è un modo di acquisto della proprietà o di altri diritti reali tramite il possesso
continuato,
pubblico (non clandestino),
pacifico (non violento),
ininterrotto
per un periodo di tempo che – salvo alcuni casi particolari – per i beni immobili deve protrarsi per 20 anni.

usucapione terreno per coltivazione


Bene, oggi ci occupiamo di valutare se il semplice fatto di coltivare un fondo altrui può comportare l’usucapione, da parte di un soggetto che non sia il proprietario – ed in assenza di un rapporto giuridico che a monte costituisca titolo per detta attività.


Partiamo da una premessa.


Solo la sussistenza di un corpus, accompagnata dall’animus possidendi, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, che si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell’usucapione, raffigura il fatto cui la legge riconduce l’acquisto del diritto di proprietà.


Spieghiamo.


Chi agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi imposti per tale istituto e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, – ossia la materiale disposizione del bene oggetto del preteso diritto e l’esercizio di un’attività corrispondente a quella del proprietario – ma anche dell’animus, ossia dell’intenzione di tenere la cosa come se ne fosse titolari.


La Giurisprudenza, tuttavia, ha precisato che tale “animus” può eventualmente essere desunto in via presuntiva dalla stesso esercizio di attività corrispondente al diritto di proprietà se detta circostanza sia già di per sè indicativa dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria.


Sarà, allora, il convenuto a dover dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene sia stata conseguita dall’attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale.

coltivazione terreno usucapione
Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione? Corpus ed animus.


La coltivazione del terreno, con la messa a dimora di piante configura una attività, specifica ed importante, senza dubbio corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà; coltivare il terreno, infatti, significa disporre materialmente di esso. Se la coltivazione configura un comportamento pubblico, pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul fondo un potere di fatto corrispondente a quello del proprietario.


La coltivazione del terreno, con la messa a dimora di piante configura una attività, specifica ed importante, senza dubbio corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà; coltivare il terreno, infatti, significa disporre materialmente di esso. Se la coltivazione configura un comportamento pubblico, pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul fondo un potere di fatto corrispondente a quello del proprietario.


Ovviamente, a monte, l’acquisizione del possesso del terreno non deve essere avvenuta per un mero atto di tolleranza o di cortesia da parte dell’effettivo titolare.


La circostanza è dirimente, in quanto in tal caso la legge qualifica diversamente la disposizione del fondo da parte del soggetto che ne invochi l’usucapione: di detenzione si tratterà, (caratterizzata dall’assenza del cd animus, in quanto vi è la consapevolezza di non agire come proprietari), non già di possesso.


E poiché è il possesso che fonda l’acquisto per usucapione, sarà eventualmente necessario, per il preteso usucapiente, dimostrare l’interversione del possesso, art. 1141 cc, ossia che siano intervenuti atti esterni dai quali possa desumersi la modificata relazione di fatto con la cosa detenuta, vuoi per cause provenienti da un terzo, vuoi in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore (per esempio giudizialmente o extragiudizialmente, tramite una semplice dichiarazione di volontà, purchè dai caratteri inequivoci).


Il detentore deve, cioè, esercitare dei comportamenti contro il possessore volti a palesare esteriormente l’intenzione di sostituire la preesistente situazione detentiva con una nuova, in cui vanti per sé il diritto esercitato (ad esempio sostituendo le chiavi dell’ingresso al fondo, senza darne copia ai proprietari).


Da allora potranno decorrere i termini per l’acquisto ad usucapionem.


Per concludere, la coltivazione del fondo per il tempo richiesto dalla legge può costituire titolo d’usucapione, purchè si tratti dell’esercizio di un possesso con i caratteri richiesti dalla legge, non basato su alcun titolo che lo connoti come detenzione e, se acquisito per cortesia, ospitalità, tolleranza, siano intervenute circostanze idonee a modificare l’originario titolo.

Due sentenze interessanti: Cassazione civile, sez. II, sentenza 26/04/2011 n° 9325 Cassazione civile, sez. II, ordinanza 25 febbraio 2019, n. 5404

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Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione?

Risoluzione preliminare di compravendita di bene immobile: non basta una stretta di mano.

Risoluzione preliminare di compravendita: se riguarda un immobile è richiesta la forma scritta.

Dove regna l’onore la parola data sarà sempre sacra.”
PUBLILIO SIRO

Quante volte lo si sentiva dire in epoca passata: “è un uomo d’onore, basta la parola”.


In effetti, una volta, era sufficiente una stretta di mano tra gentiluomini per consacrare un patto, un accordo, un contratto. La forma scritta era ulteriore e ultronea, utile per dare ricognizione di ciò che era avvenuto più che per dargli origine.


Il contratto, per legge, è un accordo, per cui trova la sua genesi proprio sulla comune volontà, come ci siamo detti.

Più in particolare, il contratto è è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321 cc)


Tale accordo per il nostro codice civile riveste dignità massima, tanto che ha addirittura “forza di legge tra le parti” (art. 1372 cc) e può essere risolto in forza di un altro accordo, di senso contrario, volto ad eliminarne retroattivamente gli effetti: il mutuo consenso (o dissenso).

risoluzione verbale contratto preliminare


Ci eravamo soffermati qualche tempo fa (link), per determinati contratti il nostro legislatore al fine di consentire la certezza dei rapporti giuridici, imponga la forma scritta, senza la quale tali accordi sono nulli, per assenza di un requisito fondamentale.


L’art. 1350 cc ci dà un compiuto elenco di quali contratti debbano essere consacrati per iscritto.

Tra di essi “i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”.


Anche il contratto preliminare che abbia per oggetto l’alienazione di beni immobili deve essere stipulato per iscritto. L’art. 1351 cc, infatti, impone per il preliminare la medesima forma del contratto definitivo


Bene, abbiamo tutti gli elementi per occuparci dell’odierna questione attinente la risoluzione preliminare di compravendita.


Se due parti contraenti avevano sottoscritto un preliminare, possono, con una stretta di mano, in base ad un accordo solamente verbale, sciogliere il contratto?


La risposta è negativa ed una freschissima sentenza della Corte di Cassazione, che si unisce a molteplici altre, tutte dello stesso tenore, ci dice il perchè.


La fattispecie sottoposta all’attenzione degli ermellini riguardava la richiesta di condanna al versamento del doppio della caparra avanzata dai promissari acquirenti di un appartamento, a fronte del perdurante inadempimento del promittente venditore che, a loro modo di intendere, legittimava il recesso dal contratto preliminare e l’istanza risarcitoria.


Il convenuto si era costituito eccependo di non dovere alcunchè perchè il contratto era stato risolto verbalmente, di comune accordo tra le parti, cosicchè non era nemmeno possibile concepire un recesso da un contratto non più esistente.


A fondamento della propria tesi, il convenuto chiedeva fosse deferito giuramento decisorio per dimostrare la verità di quanto sostenuto.

risoluzione scritta preliminare compravendita
risoluzione preliminare di compravendita di bene immobile: è necessaria la forma scritta.


La statuizione della Suprema Corte è stata ineccepibile: “la risoluzione consensuale di un contratto riguardante il trasferimento, la costituzione o l’estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta ad substantiam non soltanto quando il contratto da risolvere sia definitivo, ma anche quando sia preliminare… Con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 2739 c.c., il giuramento non può essere ammesso”.


Va, infatti, osservato che le esigenze poste a fondamento della prescrizione della forma scritta con riguardo ad un determinato contratto concernente diritti reali immobiliari, sussistano anche per l’accordo risolutorio di esso.


Conseguentemente, la risoluzione consensuale di un contratto preliminare riguardante il trasferimento, la costituzione o l’estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta, al pari del contratto risolutorio di un definitivo, rientrante nell’espressa previsione dell’art. 1350 c.c., dato che la ragione giustificativa dell’assoggettamento del preliminare alla forma ex art. 1351 c.c., da ravvisare nell’incidenza che esso spiega su diritti reali immobiliari, sia pure in via mediata, tramite l’assunzione di obbligazioni, si pone in termini identici per il contratto risolutorio del preliminare stesso.

Il promittente venditore, pertanto, è stato condannato a restituire il doppio della caparra ricevuta, a fronte della legittimità del recesso operata dalle controparti.

La sentenza:Cass. civ. Sez. II, n. 30446/2018

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risoluzione preliminare di compravendita

Esclusione capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno

E’ legittimo un provvedimento di esclusione della capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno?

Ringraziamo per il contributo la Collega Stefania Cerasoli.

Il giudice tutelare del Tribunale di Ravenna aveva disposto, nel decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno in favore di B.E., le limitazioni e i divieti previsti dal codice civile nei confronti degli interdetti con riguardo alla capacità di donare e di testare.

Il beneficiario proponeva reclamo che veniva respinto e del caso veniva, quindi, investita la Corte di Cassazione.


In particolare, secondo il ricorrente tale limitazione costituiva violazione degli artt. 407 e 411 c.c., secondo i quali sarebbe esclusa la possibilità di estendere d’ufficio al beneficiario dell’amministrazione di sostegno le misure dettate per l’interdetto e per l’inabilitato.


Una siffatta estensione, difatti, avrebbe comportato – secondo il ricorrente – lo snaturamento della funzione protettiva dell’istituto, tendenzialmente volto alla conservazione della capacità di agire.


La censura è stata tuttavia respinta dalla Suprema Corte, secondo cui la ratio dell’amministrazione di sostegno deve essere individuata nell’esigenza di offrire, a chi si trovi nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità d’agire.

divieto testamento amministratore di sostegno
Esclusione capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno: sì se è a protezione degli interessi del soggetto tutelato


Del resto, è noto come la misura dell’amministrazione di sostegno sia caratterizzata da una maggiore flessibilità rispetto agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, in quanto maggiormente idonea ad adeguarsi alle specifiche esigenze del soggetto protetto e rispetto alle quali se ne determina l’ambito di applicazione.
Per cui nell’escludere la possibilità di estendere in via analogica al beneficiario dell’amministrazione di sostegno l’incapacità prevista dall’art. 591 comma 2 c.c. per l’interdetto, occorre tuttavia ammettere che il giudice tutelare possa imporre al beneficiario, mediante il provvedimento di nomina dell’amministratore o successivamente, una limitazione della capacità di testare o di fare donazioni laddove “le condizioni psicofisiche dell’interessato appaiano compromesse in misura tale da indurre a ritenere che egli non sia in grado di esprimere una libera e consapevole volontà testamentaria.


E’ difatti vero che, “in presenza di situazioni di eccezionale gravità, tali da indurre a ritenere che il processo di formazione e manifestazione della volontà possa andare incontro a turbamenti per l’incidenza di fattori endogeni o esterni, l’esclusione a priori della capacità di testare o donare può rivelarsi uno strumento di tutela efficace non solo nell’interesse di coloro che aspirano alla successione, ma anche dello stesso beneficiario, potenzialmente esposto a pressioni e condizionamenti.”

donazione amministratore di sostegno

Ad opinione dello scrivente, va sottolineata l’eccezionalità della limitazione: non è possibile parlare, infatti, di tutela di interessi successori in capo ai potenziali eredi.
Il soggetto da tutelare con la misura in esame è sempre e solo il beneficiario di amministratore di sostegno.

Gli eredi che dovessero essere lesi da disposizioni testamentarie viziate da incapacità mentale potranno sempre far ricorso alle ordinarie e specifiche azioni loro riconosciute dalla legge in materia (art 591 cc).

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 12460 del 21.05.2018

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esclusione capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno

Rumore traffico stradale: il rispetto della normativa di settore non fa venir meno il criterio della normale tollerabilità

Rumore traffico stradale: la normativa di settore per la realizzazione della strada non elide le disposizioni codicistiche in materia di immissioni rumorose.

Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada.

(Jack Kerouac)

L’immagine dipinta dal fantastico scrittore statunitense, padre del movimento beat, è splendida: peccato che spesso ai margini della strada vi siano residenti non del tutto ammaliati dal rumore e dalle emissioni della macchina veloce.


La riflessione di oggi si sofferma sul fenomeno estremo, ma purtroppo ricorrente, di una strada il cui rumore del traffico veicolare sia divenuto insopportabile.


Sulla disciplina codicistica (art. 844 cc.) contemplante i limiti delle cosiddette immissioni moleste ci siamo soffermati più volta (link 1, 2 , 3) quando abbiamo rilevato come sia previsto che il proprietario di un fondo debba sopportare i rumori che non superino la normale tollerabilità, vietando, implicitamente, quelli che la oltrepassino.


Bene.


In materia di inquinamento acustico derivante da traffico veicolare vi sono normative specifiche volte a disciplinare opportunamente misure di contenimento e di prevenzione del rumore stradale. Fra queste il DPR 142 del 2004.

rumore traffico veicolare


Che succede nel caso in cui le strade vengano realizzate nel rispetto di tutti i canoni stabiliti da tali normative, ma ciononostante promanino rumori molesti?


Sul punto sono intervenute più pronunce della Corte di Cassazione, la più recente delle quali – n 28893/2018 – ci serve di spunto per rispondere al quesito.


Il caso verteva due abitanti di una cittadina piemontese che avevano convenuto in giudizio la società autostrade lamentando l’insopportabile rumore proveniente da un tratto autostradale finitimo alla loro dimora e, conseguentemente all’accertamento del superamento del livello massimo di immissioni rumorose, chiedevano un provvedimento volto a imporre l’esecuzione di opere necessarie per l’eliminazione della rumorosità, oltre al risarcimento dei danni alla salute ed esistenziali patiti a causa di tali fenomeni.


La società convenuta si costituiva rilevando di aver rispettato rigorosamente tutte le normative di settore in materia immissioni rumorose derivanti da traffico stradale e conseguentemente chiedeva il rigetto delle istanze attoree.

rumore autostrada
rumore traffico stradale: se l’infrastruttura risponde ai parametri per il contenimento delle immissioni si deve operare comunque il riferimento alla normale tollerabilità ex art. 844 cc


La Suprema Corte si è pronunciata con estrema chiarezza, rilevando che “mentre è senz’altro illecito il superamento dei livelli di accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell’interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità, l’eventuale rispetto degli stessi non può fare considerare senz’altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi alla stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni”.


In buona sostanza, non è corretto affermare che il rispetto dei limiti fissati dalla disciplina di settore precluderebbe qualunque ulteriore vaglio di tollerabilità ex art. 844 c.c., ossia che la normativa speciale faccia venire meno le previsioni generali del codice civile in materia di immissioni.

Varrà sempre il criterio della tollerabilità, posto dalla legge a bilanciamento di opposte esigenze di chi abbia o faccia un’attività che promani rumore e chi tale immissione debba sopportarla.




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RUMORE TRAFFICO STRADALE