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A chi spetta la pensione di reversibilità?

A chi spetta la pensione di reversibilità?

 

Un ringraziamento alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

La pensione ai superstiti, è una prestazione che viene riconosciuta ad alcuni familiari del lavoratore o del pensionato deceduto ed iscritto presso una delle gestioni dell’INPS.


Più precisamente si parla di pensione di reversibilità se l’assicurato era già pensionato al momento del decesso e di pensione indiretta qualora l’assicurato lavorasse ancora al momento del decesso.


La pensione ai superstiti spetta:


-al coniuge anche se legalmente separato mentre se già divorziato avrà diritto solo se beneficiario di un assegno divorzile;


-ai figli sino a 26 anni se studenti universitari, sino a 21 anni, se studenti delle superiori, altrimenti sino alla maggiore età, o senza limiti di età se inabili;

– in mancanza, ai genitori over 65 senza pensione o ai fratelli ed alle sorelle inabili.

Le quote della pensione di reversibilità sono differenti a seconda del numero dei concorrenti: ecco il link dell’Inps che compendia gli importi dovuti.

 

pensione reversibilità
A chi spetta la pensione di reversibilità?

 

Ulteriore requisito affinchè possa essere riconosciuta la pensione di reversibilità ai familiari diversi dal coniuge, è la cd. “vivenza a carico” del defunto che si presume per i figli minori mentre negli altri casi dovrà essere provata.


La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 651 del 15.01.2019, ha chiarito quali siano i criteri per l’accertamento del requisito della “inabilità” richiesto ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità ai figli superstiti del lavoratore o del pensionato.


L’accertamento di tale requisito, infatti, deve essere effettuato in modo concretoossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto, in modo da verificare, anche nel caso del mancato raggiungimento di una riduzione del cento per cento della astratta capacità di lavoro, la permanenza di una capacità dello stesso, di svolgere attività idonee nel quadro dell’art. 36 Costituzione e tali da procurare una fonte di guadagno non simbolico


Più semplicemente,dovremo parlare di inabilità ogni qualvolta le residue capacità lavorative siano talmente esigue da consentire solo lo svolgimento di operazioni elementari, di “un’attività del tutto priva di produttività, oltre che in perdita economica” esercitata esclusivamente all’interno di strutture protette, con esclusione di qualsiasi apprezzabile fonte di guadagno.

 

pensione superstiti


Quanto al requisito della cd. “vivenza a carico”, sarà sufficiente dimostrare che il genitore abbia integrato il reddito del figlio, perché inidoneo a garantire il suo sostentamento.


La Corte di Cassazione, sez. VI Civile, con l’ordinanza n. 26642 del 17.12.2014  ha precisato, infatti, che la cd. “vivenza a carico” non deve necessariamente tradursi in una forma di convivenza o in una situazione di “totale soggezione finanziaria” da parte del figlio essendo necessario, invece, che il genitore deceduto abbia, in vita, offerto un contributo economico prevalente e decisivo per il mantenimento del figlio superstite.


In pratica, l’accertamento della “vivenza a carico” non risulta legato al solo profilo della coabitazione o della totale soggezione economica, ma anche ad ulteriori elementi quali il mancato svolgimento di attività lavorativa da parte dell’aspirante alla pensione e la risalenza della coabitazione.

 

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

A chi spetta la pensione di reversibilità?

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: è possibile?

 

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: è possibile?

 

Come noto, l’art. 40 della Legge L. 28 febbraio 1985, n. 47, prevede che gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali sono nulli qualora l’immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia, e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione.

La giurisprudenza ha chiarito che l’atto è nullo anche quando l’immobile sia caratterizzato da totale difformità della concessione e manchi la sanatoria.

 

Nel caso in cui, invece, l’immobile, munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità, non annullati nè revocati, abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione (nella specie, per la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile), non sussiste alcuna preclusione alla stipulazione del rogito notarile.

 

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: possibile se l’abuso non riveste caratteristiche essenziali

 

Ciò è quanto ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 32225/19 che ha esaminato il caso in cui vi era la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile ed ha quindi ritenuto che fosse lecitamente commercializzabile.

 

Ma come si può stabilire se vi è totale o soltanto parziale difformità dalla concessione edilizia?

 

Un aiuto viene offerto dall’art. 32 del Testo Unico in materia di edilizia (DPR 380 del 2001) che elenca quali siano le variazioni essenziali rispetto al progetto approvato.


In particolare, tale articolo stabilisce che “l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni“:

a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968;

b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;

c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;

d) mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito;

e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.

 

comunicazione inizio lavori in sanatoria

 

Il secondo comma dell’art. 32 stabilisce poi che “non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative“.

 

In sostanza, secondo quest’ultima disposizione, non possono dar luogo a totale difformità le modifiche interne che non comportano aumento di volume o superficie ma danno luogo soltanto ad una diversa distribuzione interna degli spazi.

 

 

 

 

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Vendita fabbricato parzialmente abusivo

Benefici fiscali Legge dopo di noi: se la disabilità grave è riconosciuta successivamente all’istituzione del trust?

 

Benefici fiscali legge dopo di noi: anche se la disabilità grave è riconosciuta dopo l’atto istitutivo del trust?

 

Ringraziamo la collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

 

Con provvedimento n. 513 dell’11.12.2019, l’Agenzia delle Entrate ha risposto all’interpello presentato dal genitore di un ragazzo con disabilità interessato a conoscere quali requisiti dovessero sussistere per poter fruire dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e sulle donazioni, nel caso di beni e diritti conferiti in trust a soggetti con disabilità.


La legge n. 112 del 22.06.2016, meglio nota come Legge sul Dopo di Noi, prevede, infatti, che i beni e i diritti conferiti in trust istituiti in favore di persone con disabilità grave siano esenti dall’imposta sulle successioni e donazioni.


La possibilità di accedere a tali esenzioni ed agevolazioni è subordinata all’accertamento della grave disabilità, secondo quanto previsto dall’articolo 3, comma III, della legge 104/1992.

 

dopo di noi

 

La possibilità di beneficiare dell’esonero dalle imposte sulle successioni e donazioni, così come dell’applicazione dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa, si applicherà, inoltre, nel rispetto delle seguenti condizioni:


• istituzione del trust con atto pubblico;


• individuazione nell’atto istitutivo, in modo chiaro ed univoco, dei soggetti coinvolti e dei rispettivi ruoli, dei bisogni specifici delle persone con disabilità grave nonché delle attività assistenziali necessarie a garantire la cura e la soddisfazione dei bisogni delle persone assistite;


• individuazione nell’atto istitutivo degli obblighi e delle modalità di rendicontazione a carico del trustee;


• il patrimonio conferito nel trust deve essere destinato esclusivamente alla realizzazione delle finalità assistenziali del trust;


• individuazione nell’atto istitutivo del soggetto preposto al controllo delle obbligazioni imposte all’atto dell’istituzione del trust;


• previsione nell’atto istitutivo del termine finale della durata del trust (…) nella data della morte della persona con disabilità grave;


• previsione nell’atto istitutivo della destinazione del patrimonio residuo.

 

L’interpello proposto dal padre del ragazzo con disabilità richiedeva risposta al seguente quesito: è possibile richiedere i benefici fiscali legge dopo di noi  prima che sia accertato lo stato di grave disabilità?

 

legge dopo di noi benefici fiscali
Benefici fiscali legge dopo di noi: la risposta dell’Agenzia dell’Entrate per disabilità grave accertata successivamente al conferimento

 

Nonostante, infatti,  la necessità di entrambi i presupposti per beneficiare delle agevolazioni del “dopo di noi” – l’inserimento nell’atto istitutivo del trust delle clausole riportanti le condizioni sopra riportate e lo stato di grave disabilità –  non è specificato che tali presupposti debbano entrambi sussistere sin dal momento costitutivo. Se ne dedurrebbe che la sopravvenienza di uno dei presupposti e nello specifico della disabilità grave conduca all’applicazione del regime agevolato per gli atti di dotazione successivi a tale sopravvenienza.

 

La risposta dell’Agenzia delle Entrate è stata chiarissima: l’atto di dotazione contestuale alla costituzione del trust non può usufruire delle  agevolazioni previste dalla legge n. 112 del 2016, qualora al beneficiario non sia ancora stato riconosciuto uno stato di disabilità grave.

 

Ottenuto il riconoscimento dello stato di disabilità grave di cui alla legge n. 104 del 1992, e ove la certificazione stessa attesti che lo stato di disabilità grave sussisteva alla data di istituzione del trust, il contribuente istante potrà chiedere il rimborso dell’importo pari alla differenza tra l’imposta pagata al momento della dotazione iniziale di beni del trust e l’imposta prevista per i conferimenti ed i trasferimenti di beni in favore del trust



 

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la GUIDA ALL’INGRESSO IN CASA DI RIPOSO

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Esenzione d’imposta legge dopo di noi

Le responsabilità del proprietario di sito inquinato

Quali sono le responsabilità del proprietario di sito inquinato?

 

L’obbligo di bonifica dei siti inquinati grava solo sul responsabile dell’inquinamento in forza del consolidato principio “chi inquina paga“.

Pertanto, una volta riscontrato un fenomeno di contaminazione, i conseguenti interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento: soggetti che possono essere diversi dal proprietario dell’area.

 

 responsabilità del proprietario di sito inquinato
responsabilità del proprietario di sito inquinato

Secondo la giurisprudenza, il proprietario che non è responsabile dell’inquinamento, è tenuto ad adottare soltanto le misure di prevenzione come previsto dall’art. 245, comma 2, del d. lgs n. 152/2006.

Secondo tale disposizione “il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione che, secondo la definizione data dall’art. 240 D.lgs 152 sono quelle iniziative adottate “per contrastare un evento un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia“.

Gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e sicurezza gravano invece soltanto sul responsabile della contaminazione, cioé sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento.

 

proprietario sito inquinato

 

Il sopra citato art 245 comunque riconosce “al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità.

Anche la giurisprudenza, in una recente sentenza (TAR Trentino Alto Adige, n. 154 del 15 novembre 2019) ha confermato la differente disciplina prevista per il proprietario dell’area che non ha inquinato e quella prevista per il responsabile dell’inquinamento.

Infatti, ha statuito che “la previsione dell’obbligo di porre in essere le suddette procedure operative e amministrative in capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e la previsione di una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro comporta che l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga”) e non sul proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in tutto o in parte, la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.

 

 

 

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responsabilità del proprietario di sito inquinato

Obbligo restituzione beni donati da parte degli eredi: una collazione indigesta

 

 

Collazione ereditaria. la restituzione beni donati da parte degli eredi.

 

 

Non accettare quello che non puoi restituire.
(H. I. Khan)

 

 

Lo avevamo detto (post 1, 2): la donazione effettuata agli eredi necessari costituisce un anticipo di eredità. Si presume, cioè, che il de cuius, con le liberalità fatte in vita, abbia semplicemente voluto compiere delle attribuzioni patrimoniali gratuite in anticipo sulla futura successione.


Si evita, così, che per effetto delle donazioni poste in essere dal defunto prima della morte, gli eredi conseguano in definitiva più o meno di quanto sia loro dovuto in funzione dell’entità delle rispettive quote.


Per rendere effettivo il rispetto di questo equilibrio, il legislatore ha disciplinato l’istituto della collazione (737 e ss cc), che consiste nel conferimento, nella massa ereditaria, di beni o di valori ricevuti in vita dal defunto a titolo di liberalità, da parte dei figli o del coniuge.

 


Andiamo con ordine.

 

 

collazione ereditaria

 


Chi sono i soggetti tenuti a restituire le donazioni?


L’obbligo di conferimento è in capo solamente ai congiunti più stretti del defunto: i figli ed il coniuge, purchè, ovviamente, abbiano accettato l’eredità e siano, quindi, coeredi.


La collazione opera solamente nei rapporti interni tra queste categorie di soggetti – figli e coniuge – e non attiene quelli concernenti altri soggetti, ad esempio altri eredi con differente grado di parentela o addirittura non parenti, i quali, pertanto, non potranno trarre vantaggi da tale istituto.


Se, conseguentemente, vi dovesse essere concorso tra parenti tenuti alla collazione ed altri che non fossero tenuti, si dovranno operare due distinte masse: quella che contenga i conferimenti donativi e quella senza tali apporti, riguardando, la prima, i soli figli e coniuge, l’altra tutti gli altri coeredi.

 

Quali donazioni comprende la collazione e quali sono escluse?

 

Rientrano nell’obbligo di conferimento tutte le donazioni, dirette (ossia avvenute tramite formale contratto predisposto con atto pubblico alla presenza di due testimoni) oppure indirette, vale a dire realizzate tramite altre modalità, che abbiano comunque l’effetto di comportare l’arricchimento del beneficiario e il corrispettivo impoverimento del donante.


Si precisa che rientra nella collazione qualunque tipo di bene, mobile o immobile.

 

conferimento per imputazione

 

Per espressa previsione di legge, art. 738 cc, non sono soggette a collazione le donazioni di modico valore fatte al coniuge, tenuto tuttavia conto delle condizioni economiche del donante e del numero delle liberalità intercorse.
Ancora, l’erede non è tenuto a conferire le donazioni fatte ai suoi discendenti o al coniuge, ancorché succedendo a costoro ne abbia conseguito il vantaggio (739 cc).


Non sono soggette a collazione le spese di mantenimento e di educazione e quelle sostenute per malattia, né quelle ordinarie fatte per abbigliamento o per nozze.

Le spese per il corredo nuziale e quelle per l’istruzione artistica o professionale sono soggette a collazione solo per quanto eccedono notevolmente la misura ordinaria, tenuto conto delle condizioni economiche del defunto.

 

Come avviene il conferimento delle donazioni?

 

La collazione di un bene immobile si fa o col rendere il bene in natura – ossia materialmente mettendolo a disposizione dei coeredi – o con l’imputarne il valore alla propria porzione, a scelta dell’erede donatario.


Se l’immobile è stato alienato o ipotecato, la collazione si fa soltanto con l’imputazione.


Ai fini della stima del valore dell’immobile sarà necessario fare riferimento al momento dell’apertura della successione.


Se, tuttavia, il coerede donatario abbia nel frattempo effettuato delle migliorie al bene immobile da stimare, il valore di queste andrà dedotto in suo favore dall’onere di conferimento.


Al contrario, qualora l’immobile abbia accusato deterioramenti dovuti a colpa del donatario, questi dovrà conferire il relativo rimborso.


Per quanto riguarda i beni mobili, la collazione si fa soltanto per imputazione, sulla base del valore che essi avevano al tempo dell’aperta successione con riguardo allo stato in cui si trovano dopo essere state nel frattempo utilizzate.

 

 

Modifica assegno di separazione o divorzio Gli importi già percepiti non vanno restituiti

 


La collazione del danaro donato si opera prendendo una minore quantità del danaro che si trova nell’eredità. Quando tale danaro non basta e il donatario non vuole conferire altro danaro o titoli dello Stato, sono prelevati mobili o immobili ereditari, in proporzione delle rispettive quote.

 

Dispensa dalla collazione e rinuncia alla collazione.


Il donante, al momento dell’attribuzione o anche in sede testamentaria o con separato atto, può dispensare dal conferimento il donatario.


In tal caso la dispensa avrà l’effetto di esonerare il coerede dalla restituzione del bene o del valore del bene nei soli limiti della quota disponibile (art 737 cc). Solamente l’eccedenza rispetto a tale quota dovrà essere restituita alla massa ereditaria.


Gli eredi possono anche rinunciare ad avvalersi della collazione.


La Corte di Cassazione ha ritenuto che i coeredi siano nella piena facoltà di procedere alla divisione tra loro dell’asse ereditario senza applicare le disposizioni che regolano l’istituto. Deve infatti rilevarsi il carattere dispositivo delle norme che regolano l’ istituto e la correlativa mancanza di un divieto giuridico (Cass. Civ 22911/2017)




Due precisazioni conclusive.


Affinchè si possa dare luogo alla collazione è necessario che il defunto abbia lasciato una pur minima disponibilità di beni al momento della morte, tale da creare la comunione ereditaria tra i successori.
Se, infatti, l’asse sia stato esaurito con donazioni in vita e conseguentemente manchi un relictum, non si avrà luogo ad alcuna divisione e nemmeno alla collazione che in essa trova presupposto. Si tratterà solamente di valutare l’esperibilità di eventuale azione di riduzione per gli eredi che siano stati lesi nella propria quota di legittima.

 

 restituzione donazioni collazione
Obbligo restituzione beni donati da parte degli eredi: la collazione ereditaria


Parimenti non si avrà luogo alla collazione allorquando il testatore abbia provveduto ad assegnare non già quote del proprio patrimonio, bensì singoli beni, evitando così la formazione della comunione ereditaria.


Si potrà evitare la collazione e trattenere quanto ricevuto in donazione, rinunciando all’eredità, precludendo in tal modo la possibilità d’ instaurazione della comunione ereditaria.

 

 

 

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Obbligo restituzione beni donati da parte degli eredi

Il ritrovamento di un nuovo testamento.

 

 

Quali conseguenze comporta il ritrovamento di un nuovo testamento sulla distribuzione dei beni ereditari già avvenuta.

 

 

Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per cosi dire morto; i suoi occhi sono spenti.
(Albert Einstein)

 

Oggi ci soffermiamo ad analizzare l’ipotesi in cui la sorpresa l’ha fatta proprio il morto, avendo confezionato un (nuovo?) testamento di cui nessuno sapeva (o voleva far sapere) l’esistenza.

 

Bene, partiamo con un po’ di adrenalina.


Il compianto ci ha lasciati già da qualche anno.


I beni caduti in successione sono già stati spartiti tra gli eredi, vuoi quelli legittimi perchè un testamento non c’era (o si pensava non ci fosse), vuoi quelli testamentari, sulla scorta dell’unico testamento conosciuto.

Poi … ta da!


Tra le pagine impolverate di un libro, dimenticato su uno scaffale, salta fuori una carta, stropicciata, ingiallita, con degli scritti vergati a mano da una grafia che conosciamo: quella del nostro caro defunto.


Il suo testamento.

Apriti cielo.

 

 

trovare un nuovo testamento


Che cosa succede col ritrovamento di un nuovo testamento?


Varie possono essere le ipotesi, di cui ne abbozziamo solo alcune.

– Prima ipotesi.


Il testamento ritrovato ha data anteriore a quello in base a cui si è svolta la successione.


Se le disposizioni in esso contenute sono radicalmente incompatibili con quelle del successivo, varrà quest’ultimo con cui il de cuius, in buona sostanza, ha revocato tacitamente le (a questo punto non più) ultime volontà precedenti.


Se, invece, le disposizioni tra i due testamenti non fossero incompatibili, ma tra loro intrecciabili e integranti, allora potranno essere intese come un unico atto, da rispettare integralmente.


Ad esempio. Con un testamento il disponente ha nominato erede universale Tizio, con l’altro ha conferito un legato a Caio.

Potranno essere osservate entrambe le disposizioni testamentarie, non incompatibili tra loro, salvo non sia stato effettuato un espresso accenno alla revoca del testamento precedente.

 

revoca tacita testamento


– Seconda ipotesi.


Il ritrovamento di un nuovo testamento successivo a quello in base al quale si è svolta la successione.


Varrà quanto detto sopra, in merito alla revoca tacita (link 1, 2 , 3) oppure no delle disposizioni precedenti.


Potrebbe essere che il de cuius abbia inteso mantenere l’indicazione degli eredi già effettuata in precedenza, mutandone solo l’assetto delle rispettive quote.

In tal caso sarà necessario integrare o diminuire le rispettive porzioni, fino a farle conformare alla volontà testamentaria.


Il caro defunto potrebbe aver ingarbugliato la situazione, confezionando un testamento successivo del tutto incompatibile con il precedente, che sarà da considerarsi revocato, istituendo come eredi o beneficiari soggetti diversi da quelli considerati in prima battuta.

Non solo.


Il ritrovamento di un nuovo testamento avviene casualmente, quando i piatti sono stati già lavati, ossia quando i beni ereditari sono stati attribuiti ai primi (apparenti) destinatari del lascito.


Sub ipotesi uno.


I primi eredi cortesemente cedono il passo ai nuovi nominati ed attribuiscono loro tutto ciò che gli spetta.


Bene. Evviva.


Sub ipotesi due.


Gli (ex) eredi di “primo scritto”, chiamiamoli impropriamente così, non vogliono mollare l’osso.


Ai nuovi istituiti non rimarrà che adire il Tribunale ed esercitare la cd “petitio hereditatis”, un’azione specificamente disciplinata dall’art. 533 cc, in base al quale L’erede può chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno , allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi”.

Procediamo con ordine.

E’ un’azione che spetta all’erede.

Ad un soggetto, cioè, che non solo sia stato istituito tale dalla legge o da una disposizione testamentaria, ma che abbia anche accettato l’eredità.


Si noti. La circostanza di esercitare in giudizio tale azione comporta di per sé un’accettazione tacita dell’eredità.


L’azione potrà essere svolta contro chi abbia il possesso dei beni ereditari senza titolo, vuoi perchè non ne sia mai esistito uno, vuoi perchè fosse titolo fallace, come quello oggetto della nostra attenzione.


Quali prove? Il soggetto che invocherà l’azione dovrà provare:
– di essere erede, vuoi per successione legittima o testamentaria.
– la morte del de cuius.
– l’appartenenza dei beni posseduti all’asse ereditario.

 

trovare un altro testamento
ritrovamento di un nuovo testamento

 


E’ un’azione simile a quella di rivendicazione, riconosciuta al proprietario che invochi il proprio diritto contro chi possegga o detenga i suoi beni (art. 948 cc  ), ma da questa molto differente in relazione al carico probatorio.


Al rivendicante spetta, come è noto, la cosiddetta probatio diabolica di dimostrare la legittimità di tutti gli acquisti a titolo derivativo precedenti, sino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario.


A chi esercita la “petitio” no, sarà sufficiente allegare il proprio titolo e l’ascrivibilità dei beni reclamati al patrimonio ereditario.


Tutto qua? Facile facile?


Anche no, perchè alle ipotesi appena accennate se ne possono aggiungere altre da far girare la testa.

Chi ha pazienza di leggere ci segua.

Sub Sub ipotesi 1.


Il tempo trascorso fino alla scoperta del nuovo testamento non è indifferente.


L’azione di petizione di eredità non è prescrittibile, lo dice la legge stessa.


Ciò che si prescrive è il diritto di accettare l’eredità, presupposto per l’esercizio dell’azione indicata, che il codice civile fissa in dieci anni dall’apertura della successione, ossia dalla morte del de cuius. (art. 480 cc)


Ed allora?

Allora pace. Il nuovo chiamato all’eredità non potrà esercitare la sua azione di rivendica perchè prescritto sarà da considerarsi, dopo dieci anni, il diritto ad accettare. Così si è pronunciata la Cassazione (n 264/2013  ) con una sentenza nemmeno molto risalente, che ha risolto un contrasto precedente.


Sub sub ipotesi 2


Tra eredi nuovi ed eredi vecchi si è già svolta una causa, prima che saltasse fuori il secondo testamento, proprio per dirimere la controversia relativa ai rispettivi diritti successori, verosimilmente basata su testamento precedente o addirittura in assenza.


A sentenza passata in giudicato che ha statuito sulle rispettive qualifiche di eredi, entra in ballo il ritrovamento di un nuovo testamento.


In tal caso, gli eredi di seconda istituzione (chiamiamo così quelli designati dal secondo atto di ultime volontà) non potranno azionare la “petitio hereditatis” di cui abbiamo trattato prima, proprio perchè la statuizione del giudice si è già consolidata.

Ad essi spetterà, semmai, la possibilità di agire in “revocazione”, altra particolare azione riconosciuta dalla legge in casi assai particolare, ma con l’arduo onere di dimostrare la data di scoperta del nuovo testamento e, comunque, che il rinvenimento non fosse possibile per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario (art. 395 cpc). 


Hai voglia.


Per dettagli, Cass. Civ. N 3655/2017 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

ritrovamento di un nuovo testamento

Rifiuto cure da parte dell’Amministratore di sostegno: ci vuole un potere ad hoc

 

 

La Corte Costituzionale si pronuncia sul tema del rifiuto cure da parte dell’amministratore di sostegno e circoscrive il perimetro dei poteri che gli sono attribuiti dalla legge

 

 

Ringraziamo la Collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

 

Come è noto, la recente legge n. 217/2019 – cd testamento biologico – statuendo che ” nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge“, ha riconosciuto la possibilità per “ogni persona capace di agire” di rifiutare, in tutto o in parte .. qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso“.

In buona sostanza, è possibile rifiutare le cure, anche se siano essenziali per la propria sopravvivenza, purchè tale determinazione sia frutto di una libera e consapevole scelta del disponente, maggiorenne, capace di agire, di intendere e di volere.

 

E chi non sia più pienamente capace?

 

Se in passato abbia manifestato con le D.A.T. (disposizioni anticipate di trattamento) le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, queste determinazioni andranno rispettate ed il medico sarà vincolate ad esse, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte,  qualora  appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

 

 

Per chi non avesse disposto D.A.T., la legge ha statuito che il consenso o il rifiuto delle cure sia prestato dal rappresentante della persona incapace: il tutore per l’interdetto, colui che eserciti la responsabilità genitoriale per il minore, l’amministratore di sostegno.

Su tale previsione, tuttavia, si è aperta un’intensa discussione, giuridica e morale.

 

Rifiuto cure da parte dell’Amministratore di sostegno

 

Ci si è interrogati se un Amministratore di sostegno, eventualmente investito dal Giudice Tutelare, come spesso avviene, del potere di rappresentanza in materia di prestazione del consenso informato a trattamenti sanitari, potesse spingersi addirittura a rifiutare le cure per il proprio assistito, intervenendo – direttamente o indirettamente – nel percorso clinico e vitale dello stesso.

 

Il Giudice Tutelare di Pavia ha investito della problematica la Corte Costituzionale, sollevando la questione di legittimità della suddetta legge nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la  rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.

 

 

Nella fattispecie, all’amministratore di sostegno, già nominato circa una decina di anni prima, non era stata attribuita alcuna rappresentanza in ambito sanitario.


Dal momento che il beneficiario si era venuto a trovare successivamente in stato vegetativo, il tribunale di Pavia aveva ritenuto necessario integrare il decreto di nomina, prevedendo anche poteri in ambito sanitario.


Tuttavia, secondo il giudice tutelare, la norma di cui all’art. 3 della legge n. 219/2017, quando stabilisce che l’amministratore di sostegno con potere di rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, verrebbe a violare gli articoli 2, 3, 13, 32 della Costituzione.


In particolare, secondo il Giudice Tutelare, una tale ampia e generica attribuzione di poteri verrebbe ad attribuire all’ADS sostanzialmente “il potere di decidere della vita e della morte dell’amministrato”, senza alcun sindacato da parte dell’autorità giudiziaria.

 

 


Il rifiuto delle cure deve corrispondere alla volontà dell’interessato e dei suoi orientamenti esistenziali: l’amministratore non deve decidere né al posto dell’incapace, né per l’incapace, perché rifiutare le cure è un diritto personalissimo.


Quindi, o la decisione sul rifiuto delle cure risulti dalle DAT o, in mancanza, dovrà essere ricostruita la volontà dell’incapace, mediante indici sintomatici, di elementi presuntivi, o con l’audizione di conoscenti dell’interessato o strumenti di altra natura.


Secondo la Corte Costituzionale si tratta di un presupposto interpretativo erroneo.


Come abbiamo avuto già modo di affermare, (post) l’amministrazione di sostegno è un istituto “duttile, suscettibile di essere plasmato dal giudice sulla necessità del beneficiario” ed avente ad oggetto “le sole categorie di atti al cui compimento l’amministratore sia ritenuto idoneo”.


Del resto l’amministrazione di sostegno, a differenza dell’interdizione e dell’inabilitazione, si propone di “limitare nella minore misura possibile la capacità di agire della persona”.


Alla luce di tali precisazioni, si può affermare che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, le norme censurate non attribuiscono ex lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, anche il potere di esprimere o no il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale.


Nella logica del sistema dell’amministrazione di sostegno, è il giudice tutelare che, con il decreto di nomina, individua l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario.


Spetta al giudice, quindi, il compito di individuare e circoscrivere i poteri dell’amministratore, anche in ambito sanitario, nell’ottica di apprestare misure volte a garantire la migliore tutela della salute del beneficiario, tenendone pur sempre in conto la volontà, come espressamente prevede l’art. 3, comma 4, della legge n. 219 del 2017.

 

Rifiuto cure da parte dell’amministratore di sostegno: deve essere investito di specifico potere dal Giudice Tutelare

 

 


Le misure di tutela, quindi, non possono non essere dettate in base alle circostanze del caso di specie e, dunque, alla luce delle concrete condizioni di salute del beneficiario, dovendo il giudice tutelare affidare all’amministratore di sostegno poteri volti a prendersi cura del disabile, più o meno ampi in considerazione dello stato di salute in cui, al momento del conferimento dei poteri, questi versa.


La specifica valutazione del quadro clinico della persona, nell’ottica dell’attribuzione all’amministratore di poteri in ambito sanitario, tanto più deve essere effettuata allorché, in ragione della patologia riscontrata, potrebbe manifestarsi l’esigenza di prestare il consenso o il diniego a trattamenti sanitari di sostegno vitale: in tali casi, infatti, viene a incidersi profondamente su “diritti soggettivi personalissimi”, sicché la decisione del giudice circa il conferimento o no del potere di rifiutare tali cure non può non essere presa alla luce delle circostanze concrete, con riguardo allo stato di salute della persona con disabilità in quel dato momento considerato.


La ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, pertanto, richiede al giudice tutelare di modellare, anche in ambito sanitario, i poteri dell’amministratore sulle necessità concrete del beneficiario, stabilendone volta a volta l’estensione nel solo interesse del disabile.


L’adattamento dell’amministrazione di sostegno alle esigenze di ciascun beneficiario è, poi, ulteriormente garantito dalla possibilità di modificare i poteri conferiti all’amministratore anche in un momento successivo alla nomina, tenendo conto, ove mutassero le condizioni di salute, delle sopravvenute esigenze del beneficiario.


La Corte Costituzionale conclude arrivando a negare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita.


Le norme censurate, infatti, si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda.

 

La sentenza della Corte Costituzionale  n. 144 del 13.06.2019

 

 

 

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Salta il rogito? Il mediatore ha diritto alla provvigione in caso di conclusione del contratto preliminare.

 

Anche se non si dovesse arrivare alla stipula di un contratto definitivo di compravendita, il mediatore ha diritto alla provvigione in caso di conclusione del contratto preliminare.

 

 

Provvigione mediatore contratto preliminare”.

 

 

Lo sappiamo.


Se vi siete affidati ad un agenzia immobiliare per vendere/acquistare un immobile, avrete probabilmente digitato queste quattro paroline per vedere di che morte morire.


Se sarete stati particolarmente tenaci con la ricerca, sarà comparso il riferimento all’art. 1746 cc. che testualmente recita “Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento


Bene.


A questo punto il busillis risiede su cosa si possa intendere per “affare concluso”.


Per capire la risposta dobbiamo concentrare il fuoco della nostra attenzione sull’altro inciso della norma richiamata “per effetto del suo intervento”.


Quando l’intervento del mediatore potrà essere considerato efficace al fine della conclusione dell’affare?


La giurisprudenza dà risposte granitiche ed uniformi.


Al fine del riconoscimento del diritto alla provvigione, è idonea anche l’esplicazione della semplice attività consistente nella ricerca ed indicazione dell’altro contraente o nella segnalazione dell’affare.


Ciò vuol dire che, perché sorga il diritto del mediatore al compenso, è sufficiente che la conclusione dell’affare possa ricollegarsi all’opera dallo stesso svolta per l’avvicinamento dei contraenti, purché, però, tale attività costituisca il risultato utile della condotta posta in essere dal mediatore stesso e, poi, valorizzata dalle parti (Cass. 20 dicembre 2005 n.28231; Cass.16dicembre2004n.23438) e sempre che la sua attività costituisca antecedente indispensabile al fine di pervenire alla conclusione del contratto secondo il principio della causalità adeguata (Cassazione n. 869/2018 )


Non solo.

 

Provvigione mediatore contratto preliminare

 


Anche se il mandato conferito sia stato a tempo, allorquando la successiva conclusione del contratto sia da ricondurre all’attività del mediatore, gli dovrà essere riconosciuta la provvigione. (Ecco il link al post durata-mandato-agenzia-immobiliare).


Sulla scorta di queste premesse arriviamo alla risposta al nostro quesito.


Quando possiamo considerare “concluso” l’affare al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione?


Se, come abbiamo visto, il fondamento del diritto al compenso è da ricercarsi nel fatto che l’attività di mediazione, concretatasi nella messa in relazione delle parti, costituisca l’antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione dell’affare, ben si potrà considerare integrata la conclusione dell’affare conclusione dalla stipula del contratto preliminare di vendita intervenuta fra le parti, giacchè obbliga le parti alla stipula del successivo definitivo, essendo indifferenti le vicende successive, non attribuibili all’attività del mediatore, quali, ad esempio, la mutata volontà dei contraenti o la scadenza del mandato conferito all’agente.

 

 


Un’interessantissima e recente sentenza della Suprema Corte non solo ha ribadito con rigore l’approdo appena enunciato, ma anche ha posto particolare attenzione su un altro aspetto che contraddistingue non solo la mediazione, ma anche qualsiasi contratto, specie nella sua interpretazione: la buona fede.


Il caso posto al vaglio degli ermellini riguardava il diritto o meno del mediatore alla provvigione nell’ipotesi in cui il contratto definitivo non fosse stato stipulato, malgrado fosse intervenuta la sottoscrizione del preliminare e le parti avessero inserito nel mandato conferito al mediatore l’inciso secondo cui restava “ inteso che il compenso non sarà dovuto in caso di mancata vendita”.


Come possiamo immaginare, da una parte il mediatore reclamava la provvigione in forza della stipula del contratto preliminare, a prescindere dal rogito successivo, mentre le parti contraenti adducevano che nulla fosse dovuto proprio in virtù della mancata vendita.


Ebbene la Suprema Corte ha statuito che l’interpretazione di tale clausola contrattuale dovesse avvenire secondo il criterio della buona fede, cioè, della reciproca lealtà di condotta, che deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase.


In buona sostanza, osserva la Cassazione, appare ragionevole ritenere che l’espressione “(…) il compenso non sarà dovuto in caso di mancata vendita” debba essere intesa quale vendita non in senso giuridico ma in senso economico quale mancata conclusione dell’affare.


Un affare che, come abbiamo sopra appurato, ben si potrà considerare concluso con la semplice stipula del preliminare, a prescindere dagli esiti del successivo rogito.

 

La Sentenza Cassazione Civile, Sez. VI-2, 18 settembre 2017, n. 21575

 

 

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Le distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

Le distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

La recente Legge di conversione del DL 32/019 c.d. “sblocca cantieri” ha aggiunto all’art. 2 bis del testo unico edilizia (DPR 380/2001) il comma 1 ter, in base al quale “in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”.

 

In sostanza, è possibile demolire e ricostruire un fabbricato, nel rispetto delle distanze preesistenti, qualora vengano mantenuti l’area di sedime, il volume e l’altezza del fabbricato preesistente.

 

 

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distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

La disposizione in esame si è resa necessaria il quanto il concetto di ristrutturazione, attraverso la demolizione e ricostruzione, si è “allargato” nel tempo.

Nell’ambito dell’art. 3, comma 1 lettera d) del Dpr 380 del 2001, infatti, sono presenti due distinti tipi di ristrutturazione:

– la ristrutturazione “conservativa”, che può comportare anche l’inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma;

– la ristrutturazione edilizia cd “ricostruttiva”, attuata mediante demolizione, anche parziale, e ricostruzione, nel rispetto del volume, con la conseguenza che, in difetto, viene a configurarsi una nuova costruzione.

Tali tipologie di ristrutturazione sono identiche quanto alla finale realizzazione di un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” ma differiscono per la presenza (o meno) della demolizione (anche parziale) del fabbricato preesistente.

Quest’ultima, ove effettuata, nel testo originario dell’art. 3, doveva concludersi con la “fedele ricostruzione di un fabbricato identico”, al punto da avere identità di sagoma, volume, area di sedime e, in generale, caratteristiche dei materiali.

Le leggi che poi si sono succedute nel tempo (dapprima il DPR 27.12.2002, n. 301 e poi il D.L 21 giugno 2013 n. 69, convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98) hanno apportato alla definizione alcune modifiche con il risultato attuale che, nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente… 

In sostanza, con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”.

 

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Dalla ricostruzione normativa sopra riportata emerge dunque che, allo stato attuale, si può avere ristrutturazione anche qualora la ricostruzione a seguito della demolizione avvenga senza rispettare la sagoma e l’area di sedime originarie. Può accadere, infatti, che nel rispetto del volume preesistente, la ricostruzione venga ad occupare aree lasciate libere dalla costruzione preesistente.

In tal caso, però, la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato 4728/2017) aveva anticipato la disposizione normativa prevista dal decreto “sblocca cantieri” stabilendo che

– nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso – proprio perché coincidente per tali profili con il manufatto preesistente – potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze ora vigenti, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze ( e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa);

–  invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso – quanto alla sua collocazione fisica – rappresenta un qualcosa di nuovo, come tale tenuto a rispettare – indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione o nuova costruzione- le norme sulle distanze.

 

 

 

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Il testamento può revocare i beneficiari dell’assicurazione sulla vita?

 

La risposta è affermativa: il testamento può revocare i beneficiari dell’assicurazione sulla vita, ma a volte le cose sono più complicate di quanto sembri.

 

Limitare il dono in anticipo dicendo: arriverò fin lì, ma non oltre, significa non dare assolutamente nulla.
SAN FRANCESCO D’ASSISI

 

Se il poverello d’Assisi avesse considerato anche l’ipotesi in cui il dono, oltre ad essere limitato, si fosse potuto anche revocare, è proprio il caso di dirlo, “apriti cielo”.

 

L’assicurazione sulla vita a favore di terzi, configuriamola giuridicamente come donazione oppure no (che dibattito al riguardo!), è un sicuro beneficio per i soggetti designati.

 

 


Ma può essere revocato, indicando altri beneficiari.


Facciamo il punto.


La legge dispone che sia “valida l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo”. Art. 1920 cc.

 

Come si può effettuare la designazione?

 

  1. Direttamente nel contratto di assicurazione 
  2.  con successiva dichiarazione scritta comunicata all’assicuratore 
  3. per testamento.

 

Cosa deve indicare la designazione?

 

Le possibilità sono due: o il disponente esprime precisamente l’esatto identificativo del beneficiario, oppure può determinarlo genericamente (ad esempio, gli eredi legittimi).

 

Il disponente può cambiare idea e revocare / modificare i beneficiari?

 

Può farlo: la designazione del beneficiario è revocabile con le forme con le quali può essere fatta. Si noti, non è necessario che ci sia esatta corrispondenza tra le modalità prescelte per la designazione e quelle di revoca, ma che quest’ultima sia effettuata o tramite modifica contrattuale, o tramite comunicazione scritta all’assicurazione, oppure per testamento.

 

Che tipo di diritto acquisisce il beneficiario?


Innanzitutto, fino al verificarsi della morte del disponente non acquisisce che una semplice aspettativa. Aspettativa che può essere disattesa dalle mutate volontà del soggetto che abbia inteso beneficiarlo.


Questo tipo di contratto è particolare rispetto al generico contratto a favore di terzi, ove l’accettazione della disposizione effettuata dal beneficiario rende irrevocabile l’assegnazione.

Qui l’eventuale accettazione non comporta alcunchè ed il disponente può mutare indicazione, fatta eccezione per l’ipotesi in cui egli stesso abbia rinunziare al potere di revoca. In questo caso tale determinazione dovrà avere forma scritta e vincolerà la designazione una volta che sarà stata accettata.

Gli eredi del disponente non possono modificare la designazione.


Va, anche, sottolineata una circostanza di vitale (stiamo parlando di assicurazione vita) importanza per quanto oggi ci troviamo allegramente a discutere. “Per effetto della designazione il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione”: art. 1921 cc.

Cosa vuol dire?


Che il beneficio che ne sarà conseguito non avverrà iure hereditatis, a titolo e secondo le leggi della successione, bensi iure proprio, ossia in virtù di un contratto, a suo favore, tra vivi.

Cosa cambia?

Che il gruzzolo di cui all’assicurazione non transiterà nel patrimonio da tenersi in considerazione ai fini dell’eredità, essendo semplicemente l’oggetto di un’obbligazione, esterna al fenomeno successorio, a favore del beneficiario, a cui direttamente andrà assegnato l’importo, in barba agli eredi.


Questi ultimi potranno avanzare eventuali recriminazioni in relazioni ad eventuali lesioni della loro quota di legittima solamente con riferimento agli importi pagati dal defunto a titolo di premio di polizza. Tali somme, e non l’indennità successiva, potranno essere considerate delle donazioni indirette, in quanto tali eventualemente riducibili (cass. Civ. 26606/2016)

 

il testamento può revocare i beneficiari dell’assicurazione sulla vita

 

Ed ora arriviamo al guazzabuglio.

 

Mettiamo che il disponente abbia indicato come beneficiari i propri “eredi legittimi”, ma che poi, per testamento, abbia nominato un diverso erede universale: chi sarà il beneficiario della polizza?


Gli eredi legittimi, indicati nella designazione, oppure l’erede testamentario, divenuto unico erede, bypassando quelli che avrebbero avuto titolo per successione legittima?


Ce lo dice la Cassazione, con una recentissima ed interessantissima pronuncia. (n. 25635/2018)


Se si considera che il beneficario dell’assicurazione acquista un diritto personale, svincolato dal fenomeno successorio, l’indicazione dei beneficiari nella persona degli eredi legittimi non vale a sottoporre la vicenda contrattuale sotto l’egida della successione, in quanto è semplicemente un modo di individuare i soggetti a vantaggio dei quali andrà la disposizione: né più né meno.


Ben potranno coesistere, pertanto, la figura dell’erede universale, che sarà destinatario del patrimonio lasciato dal defunto, e dei beneficiari dell’assicurazione, individuati in coloro che sarebbero stati gli eredi legittimi se non ci fosse stato il testamento, a prescindere dal fatto che, con tale atto, possano essere stati estromessi dall’eredità.


Nè si potrà rinvenire nella disposizione testamentaria successiva alla designazione dei beneficiari come revoca di quest’ultima.


Al riguardo gli ermellini sottolineano che si potrebbe addivenire ad un simile risultato se nel testamento si fosse inteso far espresso riferimento ai nuovi beneficiari dell’assicurazione. In difetto, l’istituzione di erede testamentario non vale a revoca di designazione, tacita o espressa come la si voglia intendere.


Quanto spetterà agli eredi legittimi, indicati come beneficiari dell’assicurazione?


Proprio per il fatto che essi acquistano un diritto personale e non successorio, le regole della successione legittima si applicheranno solo per individuare i possibili eredi legittimi beneficiati, ma non troveranno richiami le quote (eventualmente diverse) che la legge per esse contempla.
In poche parole, a meno che il disponente non abbia disposto suddivisioni particolari, agli eredi legittimi spetterà la medesima quota di indennità.

 

 

 

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