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Godimento esclusivo di immobile da parte del coerede

Quando è dovuto un risarcimento per il godimento esclusivo di immobile da parte del coerede?

Il caso è frequente: più eredi si contendono un immobile caduto in successione.

Uno di essi ne ha la disponibilità fin dalla morte del de cuius, se non da epoca addirittura antecedente.

Dopo qualche anno i coeredi vengono a batter cassa, esigendo la divisione del compendio immobiliare ed il risarcimento per il mancato godimento del bene, rimasto nell’esclusiva disponibilità di uno solo di essi.


Un’interessante quanto recentissima sentenza della Corte di Cassazione fa il punto circa la legittimità di tale ultima istanza, operando una netta distinzione.


casa utilizzata soltanto da un erede
Godimento esclusivo di immobile da parte del coerede: quando scatta il risarcimento?

In primo luogo, andrà verificato se i frutti – ossia i beni che la cosa ha prodotto – siano stati effettivamente percepiti mediante l’utilizzo (diretto) dell’immobile come bene economicamente produttivo (ad esempio a titolo di corrispettivo per la locazione o per la cessione del relativo godimento a terzi, estranei alla comunione ereditaria), oppure vi sia stato un utilizzo (indiretto) in esclusiva da parte del singolo partecipante all’eredità (avendolo abitato personalmente).

Nel primo caso i frutti – rappresentati dalla somma di denaro incassata dal locatore – si saranno già materialmente prodotti ed in quanto tali andranno spartiti fra tutti i comunisti.

La legge, infatti, stabilisce che con la divisione l’erede diventi titolare con effetto retroattivo al momento dell’apertura della successione della quota specifica a lui assegnata. (art. 757 cc). Ciò vale anche per i frutti che fino al momento della divisione non siano stati separati. Differentemente, quelli già maturati e separati andranno spartiti tra tutti i partecipanti.

risarcimento danni utizzo esclusivo casa da parte di un erede soltanto


Nel caso, invece, in cui il bene non sia stato ceduto al godimento di terzi, ma sia stato utilizzato direttamente ed esclusivamente da un solo coerede, occorrerà operare un’ulteriore distinzione.

Se gli altri coeredi abbiano chiesto a quest’ultimo la disponibilità di utilizzare l’immobile, in virtù del diritto di proprietà anch’essi spettante, il coerede che lo abbia in via esclusiva goduto dovrà risarcire gli altri comunisti, indennizzandoli per la mancata disponibilità del bene.

Viceversa, se non sia intervenuta alcuna richiesta di condivisione del godimento del bene da parte degli altri comunisti, questi non potranno pretendere alcunchè.

La Corte di Cassazione, infatti, ha specificato che in tal caso il bene comune nulla ha prodotto: è semplicemente stato utilizzato da uno dei comproprietari secondo la sua naturale destinazione, quale propria dimora abituale, comportandogli semplicemente il beneficio (in astratto) di risparmiare sulla locazione di altro bene immobile.

Tale semplice godimento in via esclusiva non genera in capo agli altri comunisti alcun pregiudizio se non abbiano rappresentato di volerlo parimenti utilizzare e ne siano stati impediti.

La sentenza: Cass.Civ. 30451/2018

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Recensione negativa su social: quando è reato e quali tutele

Recensione negativa su social: dal diritto di critica alla diffamazione

Astroturfing, chi era costui?


Lo potremmo definire come l’attività di una combriccola, più o meno ampia e più o meno organizzata, di persone che abbia lo scopo di elevare la fama ed il prestigio di determinati soggetti o aziende su social e blog, oppure di screditarli o lederne l’appetibilità, al fine di veicolare flussi di possibili clienti in una o altra direzione.


Si tratta di informazioni elargite in maniera il più delle volte non corrispondente al vero, se non palesemente falsa.


Un’attività senz’altro scorretta, perchè volta a turbare la correttezza delle pratiche commerciali.


Il problema è che i siti che ospitano recensioni si trincerano dietro la scusa di non poter tenere sotto controllo il contenuto sproporzionato di inserzioni, perchè sarebbe impossibile.


E talvolta gli va bene pure.


Una non troppo recente sentenza del Tar Lazio (9355/2015) ha annullato una pronuncia di AGCOM che aveva sanzionato al pagamento dell’importo di Euro 500.000 per una pretesa pratica commerciale scorretta consistente nella diffusione di informazioni ingannevoli sulle fonti delle recensioni pubblicate sul sito internet del più famoso sito di inserzioni/recensioni turistiche in circolazione.


I giudici capitolini, hanno rilevato che il sito avesse messo in guardia gli utenti che gli sarebbe stato impossibile un controllo capillare della genuinità delle recensioni ricevute e aveva invitato a considerare le “tendenze” delle recensioni e non i singoli apporti, per un uso efficace dello strumento offerto precisando che l’uso più efficace del servizio era quello orientato a verificare un alto numero di recensioni per la stessa struttura di riferimento.


Non essendo possibile verificare i fatti riconducibili ai milioni di recensioni ed avendo adottato il sito di hosting tutte le cautele possibili, ne è stata conseguentemente esclusa responsabilità per i fatti addebitati.


La pronuncia, lo ripetiamo è isolata, ma senza dubbio avrà seguiti, vista l’importanza della problematica nell’attuale sistema di accesso ai servizi commerciali.


Una cosa, tuttavia, è certa.


Presti attenzione il recensore a ciò che scrive, perchè se da un lato è ovvio, oltre che giusto e corretto, che la propria opinione sia resa liberamente e con obiettività, non dovendo indebitamente favorire o pregiudicare alcuno, i giudici negli ultimi anni hanno posto rilievo sulla netta differenza che intercorre tra recensione negativa, formulata in virtù del diritto di criticaart. 21 Cost. “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” – e vera e propria diffamazione, laddove le recensioni vadano oltre la valutazione legittima e scadano in una condotta lesiva dell’altrui reputazione.

diffamazione su social
recensione negativa su social: occhio alla diffamazione


E’ balzato agli onori delle recenti cronache il caso del rinomato pasticcere che aveva denunciato l’ospite del suo esercizio, il quale aveva scritto su un social seguitissimo che la crema che aveva mangiato fosse “vomitevole”.


In tal caso, il Tribunale ha ritenuto pienamente ricorrente il reato di cui all’art. 595 cp.

Anzi.


La corte di Cassazione ha ritenuto integrante il reato di diffamazione aggravata la diffusione di messaggi offensivi veicolati a mezzo internet e social network (Cass. Pen. n. 8482/2017), così come nel caso di diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook  (Cass. Pen. n 50/2017).


Se c’è reato, c’è diritto al risarcimento.


Conseguentemente vi potrà essere un’attivazione in sede civile o penale della parte lesa per essere ristorata dei danni conseguiti, non solo per la dimunzione del volume d’affari conseguente alla recensione offensiva, ma anche per il danno di immagine e non patrimoniale accusato.


Da ultimo, va evidenziato come vi siano state alcune pronunce di merito che abbiano inibito ai siti contenenti recensioni diffamanti di mantenerle ulteriormente on line.


Citiamo, ad esempio, la pronuncia del Tribunale di Venezia che – accogliendo la richiesta di provvedimento di urgenza – ha ordinato la rimozione di un post avente ad oggetto “recensione” del ristorante (…) ed il seguente tenore “Sporchi, cari e maleducati, specie il proprietario. Sole se i camerieri vi conoscono e sanno che riceveranno una buona mancia allora eviteranno di lasciare i vostri piatti a freddarsi sulla mensola della cucina e di farvi attendere ore per mangiare. Ho trovato persino uno scarafaggio nella pasta che poi mi è stata “per sbaglio” anche addebitata in conto. Stessa cosa successa anche ad un mio amico. Da evitare assolutamente, è la faccia più brutta che Venezia possa offrire, ho saputo – tardi – che i veneziani lo disertano da sempre”.
Il giudice lagunare, rilevando che gli “apprezzamenti …. implicanti un pesante giudizio sulla correttezza professionale del personale del ristorante inducono ad ipotizzare che la recensione non sia stata affatto redatta da occasionale avventore bensì da cliente abituale ovvero, in alternativa, da finto “vero viaggatore” ha ritenuto il carattere diffamatorio, “in quanto non frutto di reale esperienza da parte del recensore e, quindi, preordinata a danneggiare il ricorrente e, in particolare, a fornire agli occhi del pubblico una artefatta rappresentazione delle caratteristiche dello stesso

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recensione negativa su social

Clausola visto e piaciuto? Non sempre libera il venditore da responsabilità per vizi.

Nella vendita immobiliare inserire l’accettazione dell’immobile “nello stato di fatto e di diritto” o una clausola visto e piaciuto, deve essere verificata alla luce di un’effettiva volontà delle parti in tal senso.

Scrupoli e malinconia, fuori di casa mia.

(S. Filippo Neri)

Per quanto riguarda la malinconia, siamo pienamente d’accordo; per gli scrupoli, ci permettiamo di dissentire dall’illustre santo fiorentino, almeno in occasione della vendita o acquisto della casa, quando l’attenzione da prestare non è mai troppa.


Leggere e ponderare bene clausole del tipo “visto e piaciuto” oppure “l’immobile viene nello stato di fatto e di diritto in cui si trova” è un’accortezza che potrebbe essere trascurata nelle compulse fasi che precedono la compravendita.


Poi, però, tutti i nodi vengono al pettine e ci si trova a scoprire di aver acquistato un bene che non è come ce lo si immaginava ed ecco, allora sì, inizia la corsa a passare col radar il contratto per trovare qualche appiglio.

clausola di stile
Visto e piaciuto compravendita immobiliare


Cosa dice la legge?


Senza discendere in troppo approfondite analisi normative, basti – oggi – soffermarsi sul fatto che il contratto è l’accordo di due o più parti.


L’accordo presuppone volontà: le parti debbono volere ciò che pattuiscono.


Talvolta il problema è rappresentare precisamente questa volontà – la forma del contratto – ed altre è definire l’esatto contenuto di una volontà che è stata manifestata: l’interpretazione del contratto.


Circa quest’ultimo aspetto la legge stabilisce che “nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto.”  (art. 1362 cc)


In ogni caso, poi, “il contratto deve essere interpretato secondo buona fede”, specie quando il senso letterale delle parole o il contesto ove sono comprese risulti equivoco.


Tale operazione ermeneutica, in caso di contrasto tra le parti, deve essere risolta dal Giudice.


Ed è proprio sull’interpretazione e sull’efficacia della clausola “l’immobile viene nello stato di fatto e di diritto in cui si trova” che si è trovata a statuire la Corte di Cassazione.


Il caso riguardava il contratto preliminare di compravendita di un appartamento nel cui testo era stata inserita la clausola in esame.
Pochi giorni prima della data fissata per il rogito, era emerso che gli impianti dell’immobile non fossero in regola con la normativa vigente e che per il loro adeguamento sarebbe stata necessaria una cifra ingente.


Ne conseguiva una causa, nella quale il promittente venditore reclamava che l’acquirente nulla avrebbe potuto dolere della circostanza, in quanto il contratto sarebbe stato chiaro nell’attribuire la proprietà nello “stato di fatto in cui si trovava” il bene, ossia privo di impianti a norma.


Non è stato di questo avviso la Suprema Corte.


Il rilievo degli ermellini poggiava sul fatto che il giudice, nell’attività di interpretazione del contratto, debba “presumere che la clausola sia stata oggetto della volontà negoziale e quindi interpretarla in relazione al contesto, per consentire alla stessa di avere qualche effetto, può negare l’efficacia della clausola, qualificandola di stile, solo se la vaghezza e la genericità siano tali da rendere impossibile l’attribuzione di qualsivoglia rilievo nell’ambito dell’indagine volta ad accertare la sussistenza ed il contenuto dei requisiti del contratto, ovvero se la vaghezza in esame non sia mai entrata nella sfera dell’effettiva consapevolezza e volontà dei contraenti”.


Alla luce di ciò ben poteva considerarsi come clausola di stile, e pertanto estranea alla reale volontà e consapevolezza delle parti, quella concernente l’accettazione dell’immobile nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava al momento della sottoscrizione del preliminare, in assenza di qualsiasi cenno alle condizioni dell’impianto dell’appartamento, che non erano state oggetto della minima valutazione delle parti, tanto più che il problema era emerso solamente dopo la firma del compromesso.

In conseguenza di ciò è stato disposto il trasferimento della proprietà dell’appartamento con una congrua riduzione del prezzo.

La sentenza Cassazione civile, n. 29902/ 2018

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Furto di un bene dato in deposito

Furto di un bene dato in deposito: due interessanti sentenze ci aiutano a fare il punto su chi debba subirne le conseguenze.

Piove sul giusto e piove anche sull’ingiusto; ma sul giusto di più, perché l’ingiusto gli ruba l’ombrello.”

BARONECHARLES BOWEN

Oggi dobbiamo verificare chi tra depositante o depositario sia “il giusto” e chi tra i due si debba incartare e portarsi a casa le poco gradite conseguenze del furto di un bene dato in deposito o in custodia.

Cosa dispone la legge?

Il deposito è il contratto col quale una parte riceve dall’altra una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura.

Uno consegna (depositante), l’altro (depositario) riceve, custodisce e restituisce il bene (la legge presume gratuitamente, salvo che dalla qualità professionale del depositario o da altre circostanze si debba desumere una diversa volontà delle parti).

Per stipulare questo contratto non serve alcuna formalità particolare: può avvenire anche verbalmente, ma è fondamentale che avvenga la cosiddetta traditio, ossia la consegna effettiva del bene: con essa si costituisce il vincolo contrattuale ed i conseguenti obblighi.

Vi sono ipotesi in cui il contratto di deposito sia affiancato o inserito in altri contratti, dei quali costituisca una parte integrante. Ad esempio il contratto di parcheggio, ossia con cui si affida una autovettura ad un posteggiatore, lasciandola in un’area privata.

Il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia, ossia quella che impiegherebbe l’uomo medio, con un po’di avvedutezza e sale in zucca.

Se il deposito è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore, per evitare, come si dice, di essere becchi e bastonati.

furto di un bene in custodia
Furto di un bene dato in deposito: chi risponde delle conseguenze?

Arriviamo al punto che ci interessa quest’oggi: il depositario è liberato dall’obbligazione di restituire la cosa se la detenzione gli è tolta in conseguenza di un fatto a lui non imputabile.

Bene: ha ricevuto il bene, lo ha custodito, ma non può restituirlo perché è avvenuto qualcosa di accidentale che ne impedisca la riconsegna.

Chi risponde delle conseguenze del furto di un bene dato in deposito?

Attenzione: dispone il codice civile che se la detenzione della cosa è tolta al depositario in conseguenza di un fatto a lui non imputabile, egli è liberato dall’obbligazione di restituire la cosa, ma deve, sotto pena di risarcimento del danno, denunziare immediatamente al depositante il fatto per cui ha perduto la detenzione (1780 cc).

Due pronunce interessanti, abbiamo detto in apertura, in tema di furto di un bene dato in deposito.

Nella prima il Tribunale di Chieti si è trovato a statuire in merito all’ istanza risarcitoria relativa al furto di un autoveicolo avvenuto nel parcheggio di un albergo.

L’albergatore si era costituito rilevando in primis che tra le obbligazioni attinenti la propria attività non rientravano quelle di custodia dei veicoli dei clienti e comunque di non aver stipulato alcun contratto di questo tipo col cliente. In secondo luogo, aveva eccepito di aver impiegato la diligenza del buon padre di famiglia nell’attendere il mezzo rubato e pertanto di non essere responsabile della sua sottrazione.

Il tribunale ha rilevato che – se è vero che, a mente di legge, gli albergatori rispondono per la custodia dei soli beni mobili e non già degli autoveicoli (art. 1785 quinques cc )– ben possono farsene carico volontariamente, stringendo un accordo con i clienti. Come abbiamo rilevato il contratto è a forma libera e nel caso di specie si è considerata valida la consegna delle chiavi all’albergatore come stipula – per fatti concludenti – dell’impegno alla custodia del bene.

Non solo.

Il Tribunale, in linea con la giurisprudenza delle Corti superiori, ha rilevato che fosse pur vero che il depositario-custode dovesse impiegare la diligenza del buon padre di famiglia nell’attendere al bene affidatogli, ma per liberarsi da responsabilità circa la sua perdita dovesse dimostrare che il proprio inadempimento fosse da ricondurre a causa non imputabile a lui, principio richiamato in via generale per qualsiasi obbligazione contrattuale.

E la circostanza, nel caso di specie, non era stata provata, comportando l’inevitabile condanna dell’albergatore, il quale –tra l’altro – non aveva nemmeno potuto godere dello sgravio di responsabilità contemplato dalla legge per il deposito a titolo gratuito, in quanto tale attività è stata ritenuta rientrante nel prezzo complessivo ricevuto per l’ospitalità effettuata.

risarcimento furto bene in custodia

Una seconda sentenza, questa volta della Cassazione, riguarda il caso di un orologio affidato ad una gioielleria per la riparazione, oggetto di successiva rapina, assieme ad altri beni.

I proprietario del bene chiedeva il risarcimento danni al gioielliere adducendo che questi – considerato depositario – non gli avesse effettuato tempestiva denuncia di quanto accaduto, ma si fosse limitato a notiziarlo solo tempo dopo, quando si era recato in negozio per chiedere lumi del ritardo nella riconsegna.

La Corte, considerando il deposito come accessorio ed integrante la prestazione d’opera fornita dal gioielliere, ha sottolineato il contrasto giurisprudenziale sorto in merito alle conseguenze dell’omessa tempestiva denuncia da parte del depositario della perdita del bene per fatto a lui non imputabile.

Vi erano, infatti, pronunce che non riconoscevano sussistente alcun diritto al risarcimento, nel caso in cui non fosse stato appurato che a seguito di una tempestiva denuncia sarebbe stato scongiurato il danno lamentato dal depositante.

Altre, più rigorose, avevano accertato che l’esonero da responsabilità sia disposto dalla legge solamente in caso di effettuazione della prescritta attività dichiarativa, senza alcun onere di prova ulteriore in capo al danneggiato.

Il contrasto sussiste tutt’ora e non è stato risolto dalla recentissima pronuncia della Cassazione in esame, la quale ha statuito – comunque – la responsabilità del gioielliere, in quanto il proprietario del bene aveva avuto contezza della rapina solo quando era ormai intervenuta l’archiviazione del reato a carico di ignoti e non era stato, conseguentemente, messo in condizione in tempo utile di compiere gli atti necessari al recupero del bene, “accertando che il suo orologio fosse tra i preziosi indicati nella denuncia di rapina in mancanza di un inventario dei beni …. e senza poter coadiuvare le autorità inquirenti prima dell’archiviazione della notitia criminis – ovvero di opporsi ad essa”.

La Sentenza: Corte di Cassazione Civile, 1246/2018

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Quali rimedi in caso di acquisto di un bene viziato?

Rimedi in caso di acquisto di un bene viziato: cosa sapere e come muoversi.

“Ho comprato delle batterie, ma non erano incluse.


(StevenWright)

Partiamo da una battuta per stemperare i toni.

Anche se quando si scopre che un acquisto appena effettuato risulta essere viziato, malgrado i “dineri” li abbiamo versati uno sopra l’altro, c’è poco da ridere.

Partiamo da una considerazione di fondo: tra le principali obbligazioni poste a carico del venditore c’è quella di “garantire il compratore dai vizi della cosa”. (art. 1473 cc).

Soffermiamoci, allora, ad esaminare alcuni rimedi che la legge assicura al compratore sfortunato, in caso di acquisto di un bene viziato.

  • Punto primo: la garanzia è operativa anche se il venditore non sia a conoscenza che il bene presenti difetti. Pertanto, la sua buona fede non lo discolperà, perché in ogni caso dovrà rispondere dell’obbligo che la legge gli pone a capo (e che tra poco vedremo in cosa consisterà).
  • Punto secondo: l’ eventuale malafede del venditore – ossia la vendita del bene con vizi colpevolmente da lui ignorati – lo obbligherà, in aggiunta, ad un eventuale ulteriore risarcimento del danno.


E se il compratore fosse stato a conoscenza dei vizi presenti sul bene?

In linea di massima non gli sarà riconosciuto alcun rimedio, poiché in questo caso il suo acquisto sarebbe stato avveduto ed a ragion fatta, essendosi rappresentato un affare che presentava, ben chiare, le condizioni qualitative del bene.

Se gli piace così, fatti suoi.

In tal senso, la legge dispone che “non è dovuta la garanzia se al momento del contratto il compratore conosceva i vizi della cosa:parimenti non è dovuta, se i vizi erano facilmente riconoscibili(art. 1491 cc).

In quest’ultimo caso si impone all’acquirente un minimo di diligenza nell’ esaminare il bene che intenda comprare.

Tuttavia, prosegue la norma, la garanzia incombente sul venditore rimane inalterata, anche se i vizi fossero stati agilmente appurabili, se questi abbia dichiarato che la cosa ne fosse esente.

Bene.

Nel caso in cui i vizi dovessero emergere in epoca successiva all’acquisto?

Sia chiaro, facciamo riferimento a difetti già presenti sul bene, ma non rilevabili perché occulti, sconosciuti magari anche al venditore.


Siamo nell’ipotesi della garanzia per i cd vizi occulti, per la quale il nostro codice civile impone condizioni e termini ben precisi.

L’acquirente, infatti, dovrà:

  • denunciare i vizi al venditore entro 8 giorni dalla scoperta (fatta salva la possibilità per le parti di concordare un termine più ampio in sede contrattuale).
  • agire in giudizio – nel caso di inerzia del venditore – entro 1 anno dalla consegna (e non dalla denuncia di cui sopra).

Conseguenze di un colpevole ritardo da parte dell’acquirente per le attività appena indicate?

Decadenza e prescrizione. Se non denuncia i vizi entro il termine assegnato,decadrà dal poter proporre l’azione giudiziaria. Allo stesso modo,se non proporrà causa entro il termine annuale, la possibilità di far valere la garanzia sarà da considerarsi prescritta.

Sono doverose alcune precisazioni, che debbono essere tenute ben chiare per poter consapevolmente muoversi nella complessa normativa indicata.

1. Non sarà necessario provvedere alla denuncia se la controparte abbia già riconosciuto l’esistenza dei vizi.

E’ inutile, infatti, porre a carico dell’acquirente un onere ultroneo,se il venditore abbia già appurato i difetti lamentati.

E’ovvio, comunque, che di tale circostanza chi acquista ne dovrà dar prova, per cui, in ogni caso, per non sapere né leggere né scrivere, meglio avere un pezzo di carta in mano.

L‘onere della prova di aver denunziato al venditore i vizi della cosa venduta entro otto giorni dalla scoperta, infatti, incombe sul compratore, in quanto tale denunzia costituisce una condizione per l’esercizio dell’azione giudiziaria.

2. il termine decadenziale per la denuncia, come abbiamo detto, decorre dalla scoperta dei vizi.

Per giurisprudenza pacifica, la scoperta consiste nell’acquisizione con certezza obiettiva e completa della consistenza dei difetti, sicché,ove avvenga gradatamente ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sulla consapevolezza della sua entità, occorre far riferimento al momento in cui essa si sia completata.

Talvolta, ai fini del riscontro oggettivo e pieno della reale entità del vizio, sarà necessaria una perizia, che ne stabilisca genesi e portata, per cui dalla relativa acquisizione dell’elaborato tecnico potrà considerarsi decorrente il termine decadenziale.

rimedi in caso di acquisto di un bene viziato 
vanno osservati attentamente i termine di decadenza e prescrizione

3. interruzione della prescrizione

In relazione al termine di un anno per far causa, che ribadiamo decorrere non dalla denuncia del vizio, ma dalla consegna del bene,va precisato che, a differenza di quanto avviene normalmente per la prescrizione ordinaria, che può essere interrotta con un atto idoneo, ad esempio una diffida formale, nel nostro caso può essere utilmente interrotto solo dalla proposizione di una domanda giudiziale e non mediante atti di costituzione in mora.

Quali sono i rimedi offerti dalla legge al compratore che abbia denunciato i vizi in tempo e voglia far valere la garanzia in giudizio?

Due sono le possibilità:

  1. chiedere la riduzione del prezzo.

Se a seguito di contratto di compravendita, il bene in oggetto presenti dei vizi che determinino la diminuzione del suo valore o la diminuzione dell’utilità che dal medesimo si può trarre, l’acquirente, ha diritto di chiedere una diminuzione del prezzo pattuito in una percentuale pari alla riduzione che il valore effettivo della cosa venduta subisce a causa dei vizi, in modo tale da essere posto nella situazione economica equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se la cosa fosse stata immune da vizi.

Talvolta , può risultare arduo stabilire con precisione l’esatto ammontare del minor valore gravante sul bene in virtù dei difetti appurati; si osserva, in proposito, che la legge non imponga particolari criteri da seguire per la determinazione della somma dovuta per riduzione di prezzo e sarà consentito al giudice il ricorso a criteri equitativi secondo il suo prudente apprezzamento.

2 Chiedere la risoluzione del contratto

nei casi più gravi in cui i vizi rendano la cosa venuta del tutto inidonea all’uso cui era destinata.

In tal caso di risoluzione del contratto il venditore deve restituire il prezzo e rimborsare al compratore le spese e i pagamenti legittimamente fatti per la vendita.
Il compratore, dal canto suo, dovrà restituire il bene acquistato, a meno che questo non sia perito in conseguenza dei vizi, della quale circostanza se ne farà esclusivo carico il venditore.

Si noti, i due rimedi appena accennati sono alternativi, o l’uno o l’altro, ma non cumulabili, non possono essere chiesti congiuntamente.

La scelta giudiziale, operata per l’uno o per l’altro, è irrevocabile.

Come abbiamo accennato sopra, quando abbiamo parlato della consapevolezza o meno da parte del venditore circa la presenza di vizi sul bene ceduto, il compratore potrà chiedere, in aggiunta ai rimedi appena esaminati, anche il risarcimento del danno alla controparte che non provi di aver ignorato senza colpa i vizi della cosa.

Tra tutte le possibilità contemplate dalla legge in favore del compratore, manca quella di poter chiedere l’esatto adempimento,ossia l’eliminazione dei vizi presenti sul bene (a meno che le parti non l’abbiano espressamente contemplata).

Potrebbe risultare incongrua tale singolarità, ma è stato osservato come l’obbligazione principale del venditore non abbia per oggetto, neppure in via sussidiaria, un obbligo di fare relativo alla materiale struttura della cosa venduta. Ne consegue che l’acquirente non dispone, neppure a titolo di risarcimento del danno in forma specifica, di un’azione di esatto adempimento per ottenere dal venditore l’eliminazione dei vizi della cosa venduta, motivo per cui,in assenza della richiesta di risoluzione del contratto da parte dell ‘acquirente, il Giudice non può imporre al venditore di eseguire direttamente i lavori ritenuti necessari per l’eliminazione del vizio.

A meno che….

…il venditore non solo abbia riconosciuto i vizi, ma si sia impegnato espressamente alla loro eliminazione.

Sul punto va detto che la giurisprudenza si sia scatenata su come possa essere considerata questa circostanza.

Sarebbe tedioso e troppo tecnico riportare tutte le oscillazioni della Corte di Cassazione.
Basti, per il momento, riportare l’orientamento attuale e predominante (conseguente ad una pronuncia a Sezioni Unite del 2012)..

L’impegno del venditore all’eliminazione dei vizi non fa venir meno le garanzie tradizionali previste dalla legge in materia di compravendita – riduzione del prezzo e risoluzione del contratto – le quali, pertanto, potranno essere esercitate nei termini previsti (8 giorni per la denuncia, 1 anno per l’azione), ma ad esse si aggiunge, senza sostituirle.

In buona sostanza, tale impegno sarà configurabile come una terza opzione, ulteriore alle altre due.

Con una buona notizia, quella di non soggiacere ai rigidi termini prescritti per gli altri due rimedi, tipici della disciplina della garanzia prevista dalla legge, ma a quelli ordinari, contemplati dal codice civile per la prescrizione di un obbligazione contrattuale:dieci anni.

Rimedi in caso di acquisto di un bene viziato. Altre due precisazioni.

Ai medesimi termini stabiliti per la disciplina contemplata in materia di vizi occulti, soggiace l’eventualità che il bene venduto, pur senza difetti, non abbia le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l’uso a cui è destinato (ad esempio, se venisse ceduto un bene usato e non nuovo, oppure se un macchinario venduto per conseguire un risultato promesso, risultasse in realtà inidoneo).

In tale ipotesi, il venditore potrà chiedere la risoluzione del contratto, pur dovendosi azionare sempre con denuncia tempestiva entro otto giorni e promuovere il giudizio entro l’anno dalla consegna.

Può capitare, talora, che venga consegnato un bene non già difettoso, o privo delle caratteristiche essenziali che ne avevano determinato l’acquisto, ma completamente diverso da quello pattuito, vuoi perché appartenente ad un genere differente da quello posto a base della decisione del compratore, oppure con difetti che gli impediscono di assolvere alla sua funzione naturale.

Portiamo ad esempio la vendita di un fondo  inedificabile, in realtà privo di tale caratteristica, oppure di un veicolo asseritamente predisposto per la guida da parte di persone con disabilità, ma invece fattivamente inadatto a tale scopo

Si parla, in gergo, di “aliud pro alio”, ossia di una cosa per una altra, di fischi per fiaschi.

In questo caso, essendo venuta meno in toto l’obbligazione principale del venditore, che è quella di consegnare la cosa pattuita, all’ acquirente saranno riconosciuti non solo i rimedi previsti per la disciplina della compravendita, ma quelli vigenti in via generale per tutte le ipotesi di inadempimento di un contratto, stabilite dall’art. 1453 cc: l’esatto adempimento o la risoluzione del contratto, senza alcun onere di denuncia (e quindi di decadenza) e con termine di prescrizione decennale.

Sarebbe utile, a questo punto, accennare e soffermarsi sulla disciplina e tutela – ulteriore – offerta all’acquirente “consumatore”dal codice del consumo, ma per esaminarla e capirla attentamente rimandiamo ad altro post.

rimedi in caso di acquisto di un bene viziato

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Il proprio nome appare sui giornali per fatti passati: il diritto all’oblio

Diritto all’oblio: se il proprio nome appare sui giornali per fatti passati e non si vuole che abbia ulteriore divulgazione.

Di Stefania Cerasoli.

Un uomo che diversi anni prima si era reso responsabile dell’omicidio della moglie per il quale aveva scontato la pena che gli era sta inflitta, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Cagliari il quotidiano Unione Sarda s.p.a chiedendo la condanna del quotidiano in solido con il direttore responsabile e con la giornalista autrice di un articolo.
Il quotidiano, infatti, aveva pubblicato un articolo riguardante il predetto fatto di cronaca nera.
Secondo l’uomo la rievocazione di quel fatto, a distanza di così tanto tempo, avrebbe leso il suo diritto all’oblio, arrecandogli gravi danni non solo di immagine ma anche di salute e di reputazione.

In particolare, tale pubblicazione “aveva determinato un profondo senso di angoscia e prostrazione, che si era riflesso sul suo stato di salute piuttosto precario, ma aveva anche causato un notevole danno per la sua immagine e per la sua reputazione, in quanto era stato esposto ad una nuova “gogna mediaticaquando ormai, con lo svolgimento della sua apprezzata attività di artigiano, era riuscito a ricostruirsi una nuova vita e a reinserirsi nel contesto della società, rimuovendo il triste episodio”.

diritto all'oblio
La testata giornalistica si era difesa sostenendo che la pubblicazione faceva parte di una rubrica settimanale volta a rievocare alcuni fatti di cronaca nera avvenuti nella città di Cagliari, che per diverse ragioni (quali l’efferatezza del delitto, la giovane o giovanissima età della vittima o degli assassini, il particolare contesto nel quale era maturato e si era svolto l’omicidio, la straordinarietà della decisione giudiziaria) avevano profondamente colpito e turbato la collettività della piccola città di Cagliari.

Il quotidiano evidenziava che la pubblicazione, anche a distanza di 27 anni, non era illecita neppure sotto il profilo del diritto all’oblio “proprio perché avvenuta nell’ambito di una rubrica settimanale dedicata agli avvenimenti più rilevanti della città accaduti negli ultimi 30/40 anni”.

Il Tribunale di Cagliari aveva accolto le ragioni del quotidiano ritenendo che l’interesse pubblico sotteso al riconoscimento della libertà di informazione “possa essere senz’altro idoneo a fondare l’eventuale sacrificio dell’interesse del singolo” e questo sulla base dell’art. 21 della nostra Costituzione.

Anche la Corte di appello aveva accolto le ragioni della stampa ritenendo che nella fattispecie non potesse ritenersi realizzata “nessuna gratuita e strumentale rievocazione del delitto, nessuna ricerca di volontaria spettacolarizzazione, nessuna al principio della continenza delle espressioni”.

Il proprio nome appare sui giornali per fatti passati: la parola alla Cassazione

Si giunge, quindi, alla Corte di Cassazione che, dopo un attento esame della normativa in materia, evidenzia come il diritto di cronaca non possa essere considerato senza limiti, ritenendolo legittimo quando concorrono le seguenti tre condizioni :

1.verità dei fatti narrati;
2.forma civile della loro esposizione e valutazione;
3.sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia.

diritto all'anonimato
il proprio nome appare sui giornali per fatti passati: tra diritto all’oblio e diritto di cronaca

La Corte evidenzia come i requisiti sopraindicati assumano rilevanza sia come “fattori legittimanti l’iniziale diffusione della notizia, ma anche come elemento persistente nel tempo volto ad escludere l’antigiuridicità delle successive rievocazioni.”

In tale scenario, l’interesse del singolo all’anonimato assurge a “diritto” esclusivamente allorquando “non vi sia più un’apprezzabile utilità sociale ad informare il pubblico; ovvero la notizia sia diventata falsa in quanto non aggiornata o, infine, quando l’esposizione dei fatti non sia stata commisurata all’esigenza informativa ed abbia recato un vulnus alla dignità dell’interessato”.

In particolare, proprio la Corte di Cassazione ha esplicitamente riconosciuto il diritto all’oblio, qualificandolo come “giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata” : in altre parole, perché possa dirsi legittimo l’esercizio del diritto di cronaca, non sarà sufficiente la sussistenza del requisito dell’interesse pubblico circa il fatto narrato ma sarà necessaria anche l’attualità della notizia.

Sempre la Sezione III della Corte di Cassazione civile, con l’ordinanza n. 6919 del 20.03.2018, ha affermato che il diritto fondamentale all’oblio può subire una compressione, a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti:
1) il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico;
2) l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali);
3) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del Paese;
4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione;
5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico.

Successivamente a tale ordinanza, è entrato in vigore il Regolamento UE n. 2016/679 in materia di trattamento dei dati personali che, all’art. 17, disciplina proprio il diritto all’oblio.

In particolare, il III comma di tale articolo, prevede che il trattamento dei dati sia necessario “per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione…per l’adempimento di un obbligo legale, …per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica …per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”.

La Corte di Cassazione (Ordinanza 28084/2018) ha, quindi, rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ritenendo la “questione concernente il bilanciamento del diritto di cronaca e del c.d. diritto all’oblio di massima importanza”.

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La dichiarazione del testatore di aver fatto donazioni ad erede legittimario: priva di valore senza le prove

Che valore ha la dichiarazione del testatore di aver fatto donazioni ad erede legittimario, in modo da giustificare la sua estromissione dal testamento o comunque la diminuzione della sua quota spettantegli per legge?

“Quando un testatore non vi ha lasciato niente, probabilmente vi voleva risparmiare le imposte di successione.”
PETER ALEXANDER USTINOV (attore/regista)

Vallo spiegare al diseredato: probabilmente non sarà lieto della gentile premura.

L’ipotesi è frequente, e la motivazione di fondo del tutto legittima: in vita una persona può aver inteso di beneficiare qualcuno tra i suoi familiari con donazioni.
D’altro canto risulta coerente alla logica intervenire con aiuti ed elargizioni proprio quando ce ne sia bisogno, senza attendere il passaggio a miglior vita: potrebbe essere troppo tardi.

il testatore dichiara di aver effettuato donazioni
Aiutare un figlio a ripianare alcuni debiti, a sostenere le spese delle nozze, oppure ad acquistare la casa familiare sono sostegni che hanno senso immediatamente e non in sede successoria, quando i piatti saranno già stati lavati od i buoi sfuggiti.

Premessa: in linea di massima le donazioni costituiscono un anticipo di eredità. Di esse, infatti, si terrà conto nel determinare il patrimonio complessivo del de cuius su cui calcolare il valore della quota di legittima spettante agli eredi necessari.

Bene.
Se di tali donazioni ci sarà la prova, nemo problema, se ne terrà conto e nessuno potrà contestare che siano state effettuate.

Ma se non ce ne sia traccia?

O meglio, se fossero state effettuate non con crismi formali, dal Notaio alla presenza di due testimoni, ma con donazioni indirette, ad esempio tramite l’intestazione della casa al figlio, pagata con i soldi di papà, o con l’elargizione di somme sotto banco?

Capita sovente che il testatore di tali circostanze ne dia atto nel redigere le sue ultime volontà e, nell’estromettere il benefattore di tali liberalità dall’eredità, inserisca postille del tipo “nulla lascio a mio figlio, poiché gli ho già donato 50.000 mila euro con cui si è comprato casa”.

Tali allegazioni possono essere utilizzate come prova contro colui il quale – ritenendosi danneggiato (ad esempio il figlio di cui sopra) per essere stato leso o lasciato fuori dalla successione – impugni il testamento?

Abbiamo due pronunce della Corte di Cassazione, tutte e due dall’identico tenore, che ci aiutano a fare il punto.

Normalmente una dichiarazione confessoria da parte di chi la rilasci è destinata a costituire massima prova per colui al quale sia diretta.

Si noti: è confessione l’attestazione di circostanze sfavorevoli a chi le dichiari, in quanto si presume che se un soggetto dia atto della verità di qualcosa a lui svantaggioso allora ciò debba per forza corrispondere alla realtà.

Per esempio la quietanza di pagamento costituisce piena attestazione di avvenuta ricezione di somme da parte di chi l’abbia rilasciata.

prova della donazione
la dichiarazione del testatore di aver fatto donazioni deve essere corroborata da elementi di prova: da sola non basta

La dichiarazione del testatore di aver fatto donazioni ad erede legittimario, poi leso o estromesso, non può tuttavia rivestire valore confessorio.

Tale attestazione, infatti, non contiene nulla di sfavorevole al testatore che l’abbia effettuata, essendo semmai svantaggiosa per il (mancato) erede a cui è riferita la donazione indicata.

La confessione, poi, per rivestire la rilevanza menzionata, deve essere rivolta al soggetto che ne deve beneficiare, ma il legittimario – estromesso o leso – che abbia inteso impugnare il testamento, è un soggetto terzo, non destinatario della dichiarazione confessoria.

Rileva, infatti, la Corte Suprema “Siccome nell’azione di riduzione promossa dal legittimario preterito, questi deve considerarsi terzo(Cass. 20868/04; n. 6632/06; n. 7834/08) anche rispetto al testatore, la sua dichiarazione non gli è opponibile”.

In buona sostanza, le dichiarazioni del testatore di aver già soddisfatto con donazioni le pretese ereditarie del soggetto che abbia ricevuto le liberalità potranno avere valore solo se supportate dalla prova della loro effettiva elargizione.

La massima: “In tema di successione ereditaria, la dichiarazione del testatore di avere già soddisfatto il legittimario con antecedenti donazioni non è idonea a sottrarre allo stesso la quota di riserva, garantita dalla legge anche contro la volontà del “de cuius”; né tale dichiarazione può essere assimilata ad una confessione stragiudiziale opponibile al legittimario, essendo egli, nell’azione di riduzione, terzo rispetto al testatore

Le sentenze: Cassazione Civile n. 28785/2018; Cassazione Civile n 11737 / 2013

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A chi appartiene il muro di confine?

Come si fa a stabilire a chi appartiene il muro di confine? Facciamo il punto.

Proverbio cinese “Purtroppo sono più numerosi gli uomini che costruiscono muri di quelli che costruiscono ponti”.

Ed alla fine i muri sono talmente tanti che si potrebbero perdere le fila su  a chi appartengano.

Mettiamo il caso tipo: un muro di confine, posto lì, a cavallo tra due o più proprietà.

C’è da sistemarlo, da effettuare manutenzione, da attaccargli un palo, da appoggiarci una costruzione, da abbatterlo: ma a chi appartiene? Chi si deve sobbarcare i costi? Chi può utilizzarlo come se fosse proprio?

muro di confine
a chi appartiene il muro di confine? la legge ci dà due presunzioni

In primo luogo, bisogna vedere ove ricada l’opera muraria: se sia ubicata interamente su un solo terreno tra quelli confinanti, ne discende che appartenga al proprietario del fondo, per il principio dell’accessione (“tutto ciò che è costruito su un terreno appartiene al proprietario dello stesso”).

 

Altrimenti… le cose si complicano, ma la legge a disciplina è molto chiara quanto concisa.

 

Innanzitutto, per il muro posto a cavallo tra due fondi opera una presunzione di comunione.

 

Stabilisce, infatti, l’art. 880 cc che “il muro che serve di divisione tra edifici si presume comune fino alla sua sommità e, in caso di altezze ineguali, fino al punto in cui uno degli edifici comincia ad essere più alto. Si presume parimenti comune il muro che serve di divisione tra cortili, giardini e orti o tra recinti nei campi”.

Il muro, pertanto, affinché operi la presunzione di comproprietà, deve essere posizionato su porzioni di suolo comuni ai due proprietari confinanti e sia posto a dividere edifici, cortili, giardini e orti, campi.

 

In presenza di tali presupposti la legge presume la comunione, che può essere vinta con qualsiasi evidenza che dimostri il contrario.

Taluna giurisprudenza attribuisce il vigore di tale norma al caso in cui il muro divida entità omogenee di fondi (cortili da cortili, campi da campi etc) e pertanto non troverebbe applicazione in caso di muro che separi, ad esempio, un edificio da un giardino.

E’ stato, parimenti, osservato che la comunione riguardi l’intero muro, cosicchè i proprietari dei fondi confinanti dovranno essere ritenuti comproprietari dell’intera opera e non già soltanto della metà versante sul proprio terreno.

La presunzione richiamata è destinata ad essere vinta nel caso siano presenti elementi volti ad attribuire la proprietà esclusiva del muro ad uno solo dei confinanti.
L’art. 881 cc, infatti, stabilisce che “Si presume che il muro divisorio tra i campi, cortili, giardini od orti appartenga al proprietario del fondo verso il quale esiste il piovente e in ragione del piovente medesimo”.

In buona sostanza, se vi sono opere – come i pioventi – inclinati in modo tale da far defluire la pioggia verso uno dei fondi confinanti, si presume che il muro appartenga a quest’ultimo, essendo, infatti, vietato a chi esegua delle opere edilizie di comportare lo stillicidio delle acque su immobili altrui.

proprietà muro di confine

La norma continua e prevede che “Se esistono sporti, come cornicioni, mensole e simili, o vani che si addentrano oltre la metà della grossezza del muro, e gli uni e gli altri risultano costruiti col muro stesso, si presume che questo spetti al proprietario dalla cui parte gli sporti o i vani si presentano, anche se vi sia soltanto qualcuno di tali segni”.

In questo caso tali elementi sono sintomatici del fatto che chi li abbia posizionati debba per forza essere l’unico proprietario del muro, avendo operato come se lo stesso fosse di sua esclusiva titolarità.

Due annotazioni: l’elenco degli elementi architettonici indicati è tassativo, e pertanto non potranno essere invocati a rilevare la proprietà esclusiva del muro opere edilizie diverse.

In secondo luogo la norma impone che se vi siano sporti e vani in entrambi i lati del muro, criterio dirimente per attribuirne la titolarità sarà su tutti la direzione dell’eventuale piovente.

Una volta attribuita la proprietà del muro sarà possibile risalire su quale confinante incomba eseguire le opere di manutenzione.

Se esso sia in comunione, le riparazioni e le ricostruzioni necessarie “sono a carico di tutti quelli che ne hanno diritto e in proporzione del diritto di ciascuno, salvo che la spesa sia stata cagionata dal fatto di uno dei partecipanti”.

La legge, comunque, dà la facoltà al comproprietario che non voglia eseguire le opere manutentive di rinunciare alla propria quota di titolarità di tale bene “purchè il muro comune non sostenga un edificio di sua spettanza” (art. 882 cc)

La dottrina ha precisato come non sia possibile una rinuncia parziale, ossia limitata alla sola porzione ammalorata.

Dalla rinuncia deriverà un accrescimento della quota di proprietà degli altri partecipanti.

 

 

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a chi appartiene il muro di confine

è possibile revocare una donazione?

è possibile revocare una donazione? Cosa prevede il nostro codice ed un interessante caso pratico.

Alea iacta est.

Così (pare) si pronunciò Cesare nell’attraversare il Rubicone, andando incontro all’inevitabile guerra civile: il dado è tratto, non si può tornare indietro.

Ci soffermiamo oggi su un tema che deve essere preso in attenta considerazione quando ci si trovi ad effettuare o ad essere beneficiati da un atto di liberalità.

La donazione, una volta eseguita, può essere revocata?

Voglio dire, si tratta di un atto che – come il diamante – è per sempre, o ce ne si può pentire e tornare indietro?

Il nostro codice si sofferma, con più articoli, sul tema della revocazione delle donazioni e la risposta che si può trarre alla nostra domanda è che tale rimedio possa essere invocato ma solo in ipotesi rigorosamente determinate.

Due sono le circostanze contemplate:

1. revoca per sopravvenienza di figli.

Le donazioni fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre essere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio” (art. 803 cc).

revoca donazione sopravvenienza dei figli
E’ possibile revocare una donazione se sopraggiungano figli rispetto al momento in cui è avvenuto l’atto liberale

L’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione potrebbe infatti legittimare la revocazione, in quanto solo colui che non ha figli potrebbe non aver valutato adeguatamente il gesto liberale compiuto, non avendo provato il sentimento di amor filiale.

Ecco che, nel caso in cui il donante, al momento dell’elargizione, non avesse figli, o ignorasse di averli, può essere messo in condizione di ottenerne la restituzione nel caso sopravvenissero discendenti.

L’azione, si badi, deve essere esercitata entro cinque anni dal giorno della nascita dell’ultimo figlio o dalla notizia della sua esistenza e non può essere proposta dopo l’eventuale morte della prole.

2. Revoca per ingratitudine.

È possibile revocare una donazione se chi l’abbia ricevuta si renda colpevole di taluni atti gravi nei confronti del donante (art. 801 cc). In particolare:

– abbia volontariamente ucciso o tentato di uccidere il donante o il coniuge, o un discendente, o un suo ascendente, purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale;

– abbia commesso, in danno di una di tali persone, un fatto al quale la legge dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio;

– abbia denunciato una di tali persone per reato punibile con l’ergastolo o con la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denunzia è stata dichiarata calunniosa in giudizio penale; ovvero ha testimoniato contro le persone medesime imputate dei predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata, nei confronti di lui, falsa in giudizio penale.

revoca donazione per ingratitudine

Accanto a queste ipotesi, per la verità estreme, non essendo frequente che chi riceva una liberalità possa poi attentare alla vita del proprio benefattore o calunniarlo di gravissimi reati, ve ne sono altre assai più verosimili e diffuse.

E’ possibile revocare la donazione:

– per chi si è reso colpevole di aver dolosamente arrecato grave pregiudizio al patrimonio del donante;

– per chi si sia rifiutato di prestare gli alimenti al donante in caso in cui questo si trovasse in stato di bisogno e non in frado di provvedere al proprio mantenimento (ricordiamoci che il donatario – chi riceve la donazione – è il primo soggetto obbligato per legge a prestare gli alimenti al donante, art. 437 cc);

– per chi si sia reso colpevole d’ingiuria grave verso il donante.

E’ l’ipotesi più frequente.
Si badi. Non deve trattarsi di una semplice ingiuria. Ma di ingiuria grave, ossia idonea a ledere gravemente il patrimonio morale della persona, da valutare in concreto in relazione alle condizioni sociali ed ambientali delle parti, nonché del momento in cui è stata posta in essere.

revoca donazione per ingiuria grave

Può essere, pertanto, che la medesima offesa possa essere considerata grave in un determinato contesto sociale e temporale, mentre non lo sia  in altre circostanze.

Ad esempio, in ipotesi di donazione effettuata da un consorte all’altro, il fatto che quest’ultimo si sia reso colpevole di relazione extraconiugale non giustifica, di per se stesso, la possibilità di invocare la revoca per grave ingiuria. Il discrimine è dato dalla ripugnanza che detto comportamento possa suscitare nella coscienza sociale (ad esempio la sua ostentazione al di fuori delle mura domestiche) e deve essere accompagnato da un atteggiamento di disistima ed avversione verso il donante.

Da ultimo, è doveroso rilevare che l’azione per chiedere la revocazione per ingratitudine debba essere promossa entro l’anno dal giorno in cui il donante è venuto a conoscenza del fatto posto alla base della richiesta.

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Pensione di reversibilità dopo il divorzio: sì all’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile, purché non sia una tantum

Pensione di reversibilità dopo il divorzio: quali requisiti e quali impedimenti.

Ogni volta che vuoi sposare qualcuno, esci a pranzo con la sua ex moglie.”

SHELLEY WINTERS (attrice)

L’autrice di questo aforisma era una giurista?

Non crediamo, ma la sua “battuta” assembla un possibile scenario che si potrebbe creare a seguito di un divorzio e di nuove nozze: due mogli e un marito. Ma se questo morisse chi beneficerà della pensione di reversibilità?

Procediamo con ordine.

pensione reversibilità

Inutile soffermarsi su cosa sia e quando sia dovuto l’assegno divorzile.

Basta in questa sede riportare la previsione di cui all’art. 5 della Legge sul divorzio (898/1970) che così stabilisce “ Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Un assegno periodico al coniuge che non abbia mezzi adeguati, tenuto conto di diverse circostanze.

Ovviamente, ne abbiamo già parlato (link 1 2, 3 4) le circostanze che hanno determinato la contribuzione di tale beneficio ed il suo ammontare possono variare col tempo.

In questo caso “qualora sopravvengono giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale,… può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti …la misura e alle modalità dei contributi da corrispondere…” (art. 9 L 898/1970).

La norma di legge indicata consente,altresì, che “su accordo delle parti la corresponsione” – dell’assegno divorzile – possa “avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”.

Quindi, in luogo della contribuzione periodica gli ex coniugi possono convenire per la somministrazione una volta per tutte – una tantum – dell’assegno.

In tal caso la legge mette fin da subito in chiaro che alcuna modifica, neanche se fondata su giustificati motivi – possa essere richiesta in seguito, proprio perché le parti hanno inteso, con tale scelta, assumersi il carico anche del rischio di eventuali squilibri successivi.

Effettuate queste premesse, che riteniamo utili per inquadrare sufficientemente il tema di oggi, veniamo ad analizzare cosa succede se l’ex coniuge, tenuto a somministrare periodicamente l’assegno divorzile, venga a mancare.

Ovviamente si verrebbe a creare una drammatica rivoluzione nella vita del soggetto percipiente, che potrebbe perdere se non l’unica fonte del proprio sostentamento, un importante sussidio per conseguire mezzi adeguati alla quotidiana sussistenza.

Ecco, allora, che la legge viene ad ovviare a tale problematica prevedendo che In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”, (art. 9).

L’ex coniuge potrà beneficiare della pensione di reversibilità del passato consorte se:

– sia già titolare di assegno divorzile;

– egli non sia passato a nuove nozze;

– il rapporto lavorativo da cui trae origine la pensione, sia cominciato prima della sentenza di divorzio.

Bene, tutto chiaro?

Manca un tassello, anzi due.

Abbiamo cominciato l’articolo riportando l’immagine del pranzo di due donne, mogli della medesima persona.

Una la ex, l’altra l’attuale consorte.

due coniugi, una reversibilità

Mettiamo caso che la ex percepisca assegno divorzile.

E a tale caso aggiungiamo che venga a mancare il comune marito.

La donna che al momento del decesso era l’attuale consorte del defunto avrà senz’altro diritto alla sua pensione di reversibilità per diritto ereditario.

Ma l’altra, che beneficiava – in presenza dei presupposti di legge- dell’assegno divorzile, rimarrebbe a piedi senza tale sussidio.

In questa ipotesi, la legge stabilisce che “Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il Tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze”.

Conseguentemente, le due mogli (attenzione, la ex doveva già percepire l’assegno divorzile) si spartiranno la reversibilità del defunto.

Quanto spetterà a testa?

La legge dispone debba tenersi conto della (rispettiva) durata del rapporto matrimoniale.

La giurisprudenza include ulteriori criteri, quali l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali (ex multis Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 05/07/2017, n. 16602).

Nel caso in cui, a sua volta, dopo il marito decedesse una delle due mogli, l’altra avrebbe diritto di percepire l’intera reversibilità.

Soffermiamoci su un’ultima ipotesi.

Se l’assegno divorzile, anziché periodicamente, fosse stato corrisposto in un’unica soluzione, l’ex coniuge superstite che ne abbia beneficiato potrebbe vantare la pensione di reversibilità o una sua quota?

La risposta è negativa, ma c’è voluta una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite per mettere la parola definitiva.

Manca l’attualità della titolarità dell’assegno: questa in buona sostanza la considerazione preclusiva della Suprema Corte.

Se infatti la finalità del legislatore è quella di sovvenire a una situazione di deficit economico derivante dalla morte dell’avente diritto alla pensione, l’indice per riconoscere l’operatività in concreto di tale finalità è quello della attualità della contribuzione economica venuta a mancare; attualità che si presume per il coniuge superstite e che non può essere attestata che dalla titolarità dell’assegno, intesa come fruzione attuale di una somma periodicamente versata all’ex coniuge come contributo al suo mantenimento. Del resto l’espressione titolarità nell’ambito giuridico presuppone sempre la concreta e attuale fruibilità ed esercitabilità del diritto di cui si è titolari; viceversa, un diritto che è già stato completamente soddisfatto non è più attuale e concretamente fruibile o esercitabile, perchè di esso si è esaurita la titolarità”. (Cass. civ. Sez. Unite, Sent., n. 22434/2018)

pensione reversibilità
pensione di reversibilità dopo il divorzio: no se l’assegno è stato corrisposto una tantum

Faccia, pertanto, buona attenzione il coniuge che intenda acquisire in unica tranche l’assegno divorzile, perché in seguito non potrà recriminare alcunchè: né se dovessero volgere al peggio le circostanze tenute in considerazione al momento del divorzio ai fini della determinazione dell’importo da corrispondere, né a seguito della morte dell’ex consorte per far valere inesistenti diritti previdenziali.

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Avvocato separazione Vicenza

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