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Vendita di un immobile irregolare? Nulla, ma non sempre.

Vendita di un immobile irregolare: è necessario verificare il tipo e la portata del vizio urbanistico per sancirne la nullità.

“Quando la vendita viene conclusa, finisce l’ansia del venditore e comincia quella del cliente”. (Theodore Levitt)

In tema di compravendita immobiliare – l’illustre economista, da cui abbiamo tratto la citazione, ci perdoni – l’ansia potrebbe permanere, e a lungo, anche in capo al venditore.

Perchè?
Non solo per la responsabilità che la legge stabilisce in capo all’alienante relativa a vizi della cosa venduta (art. 1490 cc.), ma anche per ben più gravi sanzioni che possono essere comminate nel caso in cui il bene presentasse irregolarità dal punto di vista urbanistico.

Nullità per contrarietà a norme imperative

Vi è una norma, infatti, con cui il nostro codice civile stabilisce, a suprema garanzia dell’interesse pubblico e a protezione di fini fondamentali dell’ordinamento giuridico, la nullità dei contratti stipulati contro norme imperative, ossia norme che impongono l’assoluto loro rispetto, pena l’invalidità dell’atto (art .1418 cc).

vendita di un immobile irregolare
Vendita di un immobile irregolare: il contratto è nullo se contrario a norme imperative in materia urbanistica

Il commercio di beni immobiliari che siano in contrasto con norme imperative in materia urbanistica ricade senz’altro sotto la scure della nullità citata.

Per esempio, sarebbe senz’altro invalido – in quanto radicalmente nullo – il trasferimento di un edificio realizzato senza concessione edilizia.

Vendita di un immobile irregolare

E per gli immobili che non siano in regola con la normativa urbanistica, in quanto presentanti difformità?

Qui le cose si complicano.

La giurisprudenza, in talune pronunce, ha propugnato l’assoluta nullità della vendita di un immobile difforme rispetto alle autorizzazioni conseguite.

Su tutte una pronuncia ormai risalente a più di un lustro con cui la Cassazione ha sancito “il principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica”, a cui dovrà essere aggiunta anche un’ipotesi di “nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi”. (Cass. Civ. 23591/2013).

In buona sostanza, per poter essere venduto, un edificio dovrebbe essere in regola con le prescritte autorizzazioni urbanistiche, che dovranno essere riportate nell’atto di trasferimento stesso.

Una recente sentenza della Suprema Corte (11659/2018) si smarca da un orientamento così rigoroso ed opera un distinguo: c’è irregolarità ed irregolarità, per cui non potrà essere comminata un’identica sanzione.

vendità casa difforme
La nullità può essere scongiurata se vi siano leggi (urbanistiche) che stabiliscano diversamente: tra queste, i condoni

Il punto di partenza da cui si è pervenuti a tale approdo giurisprudenziale concentra l’attenzione sulla norma richiamata ad inizio di questo brano: l’art. 1418 cc, che stabilisce la nullità del contratto contrario a norme imperative…”salvo che la legge disponga diversamente”.

Ad esempio, la normativa in tema di condoni edilizi, alla luce della quale è possibile “con riguardo ad immobili oggetto del condono, il trasferimento nella fase di sanatoria in corso”.

Motivo per cui si dovrà realizzare che per gli immobili assolutamente non sanabili, in quanto viziati da pesanti ed irrimediabili vizi urbanistici, sarà da rinvenire la nullità dei relativi atti di trasferimento.
Per quelli attinti da difformità parziali, non così irreparabili, sarà possibile la vendita, purché la relativa richiesta di sanatoria – compatibile con la normativa urbanistica e le ipotesi di condonabilità – sia stata formulata nelle more del trasferimento.

E’ appena il caso di ricordare che l’azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione, salvi gli effetti dell’usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione (art. 1422 cc)

vendita immobile irregolarità urbanistiche sanabili

Ciò significa che potrà sempre essere rilevata la nullità di un trasferimento concernente immobili totalmente difformi dalla disciplina urbanistica, senza incorrere in decadenze, ma dalla controparte potrebbe essere eccepito – a seconda dei casi – l’avvenuto acquisto per usucapione del bene alienato (se sia trascorso il termine previsto dalla legge per la sua maturazione) oppure la prescrizione dell’azione per conseguire il rimborso delle somme versate in conseguenza del contratto, che si maturerà decorsi dieci anni dalla stipula.

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Il testamento posteriore revoca quello precedente?

Nel caso vi siano due o più atti di ultima volontà, il testamento posteriore revoca quello precedente?

Dio è morto. Ci ha lasciato due testamenti” osservava lo scrittore svizzero Heinrich Wiesner, forse con intento dissacrante.

Certo è che può ben capitare che il medesimo soggetto confezioni due o più schede testamentarie nel corso della vita.

Talvolta inconsapevolmente, semplicemente per dimenticanza di aver già redatto le proprie ultime volontà.

Altre volte – la vita è bella perché è varia- con l’incedere degli anni si vogliono beneficiare nuovi soggetti che abbiano costellato il proprio cammino o tralasciarne altri che abbiano tradito i propri sentimenti, abbiano fatto un torto o, forse, solo perché si vedano le cose diversamente.

Sono convinto che, nella maggior parte dei casi, il testatore dia per pacifico che sia l’ultimo atto quello valido, quello che dovrà essere tenuto in considerazione alla sua morte.

Ma è sempre così?

Il testamento posteriore revoca quello precedente?

Come abbiamo avuto modo di rilevare in passato (precedente post) la libertà testamentaria è un principio cardine del nostro ordinamento.

Il testatore deve essere assolutamente libero da condizionamenti nel redigere la proprie disposizioni.
Tale libertà comporta che si possano sempre modificare le proprie determinazioni, in tutto o in parte.

libertà testamentaria
Principio cardine del nostro ordinamento: libertà testamentaria. Possibilità di revocare le disposizioni precedenti in qualsiasi momento

Il testamento, infatti, può essere revocato: il codice civile stabilisce che non si possa “in alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie: ogni clausola o condizione contraria non ha effetto espressamente o tacitamente” (art. 679).

La revoca potrà essere espressa – con un nuovo testamento o con un atto ricevuto da notaio, in presenza di due testimoni, con cui personalmente si dichiari di revocare, in tutto o in parte, la disposizione anteriore – o tacita, con disposizioni incompatibili con quelle precedenti (ad esempio, se, prima della morte, si venda un bene che era stato assegnato con il testamento).

In caso di atti di ultima volontà che si susseguano, il codice stabilisce che “il testamento posteriore, che non revoca in modo espresso i precedenti, annulla in questi soltanto le disposizioni che sono con esso incompatibili” (art. 682 cc)

Vale a dire che il testatore, con la scheda posteriore, può revocare quelle precedenti con un’espressa dichiarazione in tal senso (di solito è “revoco ogni mia precedente disposizione testamentaria”, ma potrebbe essere qualsiasi formula che esprimesse tale concetto).

Il testamento posteriore revoca quello precedente
Il testamento posteriore revoca quello precedente? occorre effettuare un raffronto per verificare se le due schede siano incompatibili

Si badi bene. Se non intervenga una espressa revoca dei testamenti precedenti si dovrà operare un raffronto tra questi e quello posteriore, analizzando se vi siano disposizioni tra loro incompatibili o sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle volontà contenute in entrambi gli atti.
In tal caso, prevarrà l’atto posteriore rispetto al precedente.

Se, al contrario, il testamento successivo contenga disposizioni integrative ed ulteriori, ma non incompatibili, con le schede anteriori, allora saranno perfettamente validi entrambi e la volontà del de cuius andrà estrapolata da plurimi atti testamentari.

La semplice esistenza di un testamento posteriore, pertanto, non determina di per sé la revoca di quello anteriore, poiché è possibile che le disposizioni si possano perfettamente integrare tra loro o l’eventuale incompatibilità concerna solo alcune delle disposizioni.

Bisogna fare attenzione al fatto che ai fini della revoca espressa del testamento occorre guardare non tanto alla scheda testamentaria in sé, quanto piuttosto alle attribuzioni patrimoniali che essa reca.

Ad esempio, la Corte di Cassazione si è trovata a statuire in ordine a plurimi testamenti redatti dal medesimo soggetto.

Al primo, olografo, ne è susseguito un altro – pubblico – ma col medesimo contenuto (e identico erede universale). Successivamente il de cuius aveva proceduto a revocare, tramite altro, ulteriore, testamento pubblico quello precedente.

Ebbene, a poco sono valsi i tentativi del soggetto che era stato nominato erede nei primi due testamenti ad invocare la sussistenza del primo testamento olografo, che formalmente non era stato mai revocato.
La Corte ha, infatti, osservato come si debba porre attenzione alla volontà in sè espressa nel testamento più che al tipo di scheda testamentaria e ha rinvenuto che l’avvenuta revoca di un atto di ultime volontà, avente disposizioni identiche ad altro precedente, comportasse la revoca anche di quest’ultimo.

La sentenza Cass. civ. 2012, n. 17267

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Quale garanzia per l’immobile con crepe?

Garanzia per l’immobile con crepe: anche qui dieci anni?

Nulla è costruito sulla pietra; tutto è costruito sulla sabbia, ma dobbiamo costruire come se la sabbia fosse pietra. (Jorge Luis Borges)

Meglio, in ogni caso, che la costruzione sia eseguita come si comanda, altrimenti…

Altrimenti… lo avevamo trattato in precedenti post (link 1 link 2), in caso di gravi difetti o pericolo di rovina di un immobile, il costruttore risponde per dieci anni dal compimento dell’opera (art.  1669 cc).

grave difetto immobile

“grave difetto”, chi era costui?

Sta proprio qui il punto di numerosissime questioni.
La giurisprudenza è arrivata con il tempo a estendere il concetto e la portata di tale locuzione, includendo – in linea di massima – tutte le alterazioni, conseguenti all’imperfetta esecuzione dell’opera, che pregiudichino in modo considerevole il normale godimento dell’immobile.
Si potrà trattare di lesioni alle strutture portanti che – pur non comportando il pericolo di rovina – rendano sensibilmente deprezzato il valore dell’edificio.
Come pure difetti concernenti aree isolate o strutture secondarie dell’immobile che ne consentano l’impiego duraturo cui è destinato (quali, ad esempio, le condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l’impianto di riscaldamento, la canna fumaria), incidendo negativamente ed in modo considerevole sul godimento dell’opera stessa.
Bene, poiché il nostro post ha per oggetto le crepe, soffermiamoci a verificare se per esse sia valida la garanzia indicata.

Garanzia per l’immobile con crepe.

A lungo la giurisprudenza aveva escluso che la presenza di crepe o fessurazioni, che non comportassero un attentato alla stabilità o fruibilità di un immobile, potessero rientrare nell’applicazione dell’art. 1669 cc, in quanto non incidono negativamente sugli elementi strutturali essenziali del fabbricato e, quindi, sulla sua solidità, efficienza e durata, ripercuotendosi solamente sul suo aspetto decorativo ed estetico.

Negli ultimi anni, a fronte di un progressivo ampliamento di portata della garanzia per i gravi difetti di costruzione, si è assistito ad un deciso cambio di rotta, facendo rientrare nel novero anche vizi secondari, non compromettenti la stabilità dell’immobile, ma incidenti sulla sua fruibilità e sull’ampiezza del suo utilizzo.

garanzia per l’immobile con crepe
Garanzia per l’immobile con crepe: si applica quella decennale, purchè le fessurazioni non siano del tutto trascurabili

Ecco, allora, che una sentenza recentissima della Corte di Cassazione ha statuito in ordine ad una controversia sorta tra un condominio ed il costruttore per il verificarsi di diffuse “cavillature superficiali” (leggasi crepe) che aveva spinto il primo a richiedere il risarcimento danni alla ditta edile.

Secondo la suprema Corte, dando seguito ad un percorso che era stato decisamente consacrato da una precedente pronuncia a sezione Unite, “anche vizi che riguardano elementi secondari ed accessori, come i rivestimenti, devono ritenersi tali da compromettere la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”.
Gli ermellini si sono soffermati sulla considerazione che in edilizia, il rivestimento sia applicato agli elementi strutturali di un edificio con finalità di accrescere la resistenza all’aggressione degli agenti chimici, fisici e atmosferici, svolgendo anche funzioni estetiche.
In questo quadro le crepe, anche le microfessurazioni, purché non siano di minimo conto, possono comportare un aumento dell’esposizione alla penetrazione di agenti nocivi che intacchino la struttura dell’immobile.
Anche se non dovessero determinare infiltrazioni, le crepe che impattino sul piano meramente estetico, a patto che non siano di entità trascurabile, debbono comunque essere considerate “idonee a compromettere la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene e, quindi, a rappresentare grave vizio ex art. 1669 cc.
In buona sostanza, la Corte sottolinea come abbia sempre maggiore importanza il concetto di decoro architettonico di un edificio ai fini del suo godimento e commerciabilità secondo l’evoluzione sociale.

 

La sentenza: Cass. Civ. 10048/2018 del 24.04.2018

 

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L’incapacità di disporre per testamento

Incapacità di disporre per testamento: le tre ipotesi previste dalla legge.

Chi è erede per nascita è più sicuro di chi lo è per testamento” (Publilio Sirio)

Sono considerazioni svolte da uno scrittore latino vissuto attorno al 100 A.C.

Validissime tuttora, in quanto parecchie possono essere le insidie che possono minare la validità di un testamento.

Già in passato ci siamo soffermati su alcuni aspetti che debbono essere tenuti in considerazione nel confezionare le proprie ultime volontà (ecco il post).

Oggi verifichiamo in quali casi il nostro codice civile rinvenga un’incapacità di disporre per testamento.

Casi di incapacità: tre ipotesi.

La norma da prendere in considerazione è l’art. 591 cc., il quale stabilisce che sono incapaci di testare:

  • i minorenni;
  • gli interdetti per infermità di mente;
  • coloro i quali abbiano testato in uno stato di incapacità di intendere e di volere, anche transitoria,  sebbene non siano stati dichiarati interdetti.

 

incapacità di disporre testamento
incapacità di disporre testamento: minorenni, interdetti ed incapaci di intendere al momento della redazione della scheda testamentaria.

Testamento di Minorenne

Sul testamento redatto da persona che non abbia raggiunto la maggiore età c’è poco da dire: la capacità di agire – ossia la capacità di disporre dei propri diritti – si acquista al compimento dei 18 anni.  Conseguentemente, è naturale che il legislatore abbia statuito l’invalidità delle disposizioni testamentarie predisposte da un soggetto minorenne, anche se fosse emancipato.
E’ interessante, comunque, notare come non sia rilevante la successiva volontà di confermare le disposizioni testamentarie redatte da un soggetto minorenne una volta conseguita la maggiore età. E’ necessario un nuovo testamento.

Testamento dell’interdetto.

Anche qui, nulla quaestio. Se una persona affetta da abituale infermità di mente viene considerata incapace di provvedere ai propri interessi, può essere interdetta per assicurarsi la sua adeguata protezione.
Conseguentemente è annullabile l’atto di ultime volontà redatto da chi è soggetto a tale misura di protezione.
Di per sè non ricadrebbero nella preclusione le disposizioni redatte prima della sentenza di interdizione, ma sarebbero comunque sottoponibili all’accertamento dell’esame della capacità di intendere e di volere del disponente al momento della loro redazione.
Si considerano sempre annullabili, invece, le volontà consacrate in un atto predisposto dall’interdetto prima di una successiva revoca della misura di protezione.

In relazione al testamento redatto dal soggetto sottoposto alla misura dell’amministrazione di sostegno, fermo quanto considerato in merito alla valutazione della capacità di intendere e di volere, non vi è preclusione di validità, a meno che il decreto che abbia disposto tale tutela non abbia espressamente considerato di estendere quanto previsto per l’interdetto anche al beneficiario di tale protezione.

Al riguardo, va comunque sottolineato che la preoccupazione del legislatore è in linea di massima di tutelare la posizione del soggetto che abbia una ridotta capacità di provvedere ai propri interessi e non già – o non tanto – di preservare i diritti degli eredi legittimari, i quali, pertanto, potranno in ogni caso agire con le opportune azioni di impugnazione in caso di testamento a loro lesivo.

Testamento di chi è incapace di intendere e di volere.

Non è necessario sia stata pronunciata una sentenza di interdizione, che abbia pertanto accertato un’infermità mentale.

L’alterazione mentale può essere anche temporanea e deve sussistere al momento della redazione dell’atto di ultime volontà: il prima ed il dopo non contano.

Certo è che – in caso di malattia abituale,  per la quale siano stati appurati pregressi stati di compromissione delle facoltà psichiche, in modo che non siano paventabili periodi di lucido intervallo – ben potrà il giudicante presumere e dedurre l’incapacità al momento della predisposizione della scheda testamentaria.

Particolarmente degno di nota è come la giurisprudenza non ritenga sufficiente, al fine della pronuncia di annullamento, una semplice alterazione del processo di formazione della volontà del testatore, bensì la  totale compromissione della possibilità di determinarsi liberamente: circostanza da dimostrarsi con rigore.

I soggetti legittimati a chiedere l’annullamento.

L’ultima parte della norma oggi considerata assicura la possibilità di impugnazione a “chiunque vi abbia interesse“.

Si esclude siano abilitati a tale iniziativa i soggetti che sarebbero comunque stati esclusi dall’ordine della successione legittima.

Invalidità testamento dell'incapace
Testamento predisposto da incapace. Può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse entro il termine di cinque anni da quando è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.

Termine entro cui chiedere l’annullamento.

L’azione si prescrive in cinque anni dal momento di esecuzione delle disposizioni del testamento, ossia dal compimento di attività dirette alla concreta realizzazione della volontà testamentaria (ad esempio la consegna dei beni ereditari), a prescindere pertanto dalla data di pubblicazione del testamento, o da quella in cui è stata effettuata la denuncia di successione.

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Sostituzione di delibera condominiale precedente con una successiva

Non deve essere pronunciato l’annullamento in caso di sostituzione di delibera condominiale precedente con una successiva.

Electa una via, non datur recursus ad alteram, dicevano i romani.

Imboccata una strada, non è più possibile cambiare percorso.

Con buona pace dei nostri illustri predecessori, questo principio non vale per le delibere condominiali.

Oggi ci chiediamo se sia possibile sostituire una delibera assembleare viziata, ritenuta illegittima, con un’altra, successiva, che vi ponga rimedio, soppiantandola.

Il legislatore nulla dice di specifico in proposito.

Troviamo una disposizione simile in materia societaria, laddove è stabilito che “l’annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto. In tal caso il giudice provvede sulle spese di lite, ponendole di norma a carico della società, e sul risarcimento dell’eventuale danno” (art. 2377 cc).

Tale disposizione può essere applicata anche in ambito condominiale?
Nel nostro ordinamento è principio stabilito che se una controversia non possa essere decisa con una precisa disposizione si applicano le disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (art. 12 preleggi).

Sostituzione delibera condominiale precedente
Sostituzione delibera condominiale precedente con una successiva. La normativa in materia societaria è applicabile a quella condominiale


Sostituzione delibera condominiale precedente con una successiva: la giurisprudenza ritiene estensibile la normativa societaria a quella condominiale.

I giudici hanno ritenuto pienamente applicabile la disciplina dell’art. 2377 cc alla delibera condominiale.
In particolare, una recente ordinanza della Corte di Cassazione si è trovata a statuire in ordine ad una impugnazione di delibera assembleare da parte di un condomino, ritenuta viziata, mentre – nelle more di giudizio – ne era intervenuta la sostituzione, mediante delibera successiva, che ne aveva sanato gli aspetti critici.
I giudici ermellini hanno ritenuto pienamente corretta la pronuncia del Tribunale di primo grado, e della Corte d’appello poi, che avevano dichiarato la cessazione della materia del contendere a seguito dell’avvenuta sostituzione.
 

sostituzione delibera condominiale precedente
La nuova delibera deve avere il medesimo oggetto ma contenuti incompatibili con quella precedente.

 

In particolare, la Suprema Corte ha statuito  che “si ha sostituzione nel caso in cui la nuova Delibera regoli il medesimo oggetto in termini incompatibili con quelli ipotizzati in precedenza”.

In buona sostanza, perchè la sostituzione produca effetto ed eviti la necessità del suo annullamento, deve avere il medesimo oggetto di quella precedente, ma la statuizione deve essere differente e, ovviamente, conforme alla legge.

 

L’ordinanza della Corte di Cassazione:  n 8515/2018

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Tubi interrati: la loro presenza è sufficiente per accertare la servitù

La presenza di tubi interrati è ritenuta sufficiente per l’accertamento della costituzione di servitù per usucapione o destinazione del padre di famiglia.

 

 

Apparenza.

 

 

Per poter invocare l’acquisto per usucapione di una servitù è necessario non solo un possesso pubblico, pacifico, continuato e non interrotto per il tempo prescritto dalla legge (di regola 20 anni) ma anche che tale possesso sia appurabile dalla presenza di  opere (naturali o artificiali) visibili e permanenti che rivelino in modo inequivocabile l’esistenza della servitù. (art. 1061 cc): si parla, per l’appunto, di servitù apparenti.

 

tubi interrati
Possono essere usucapite solamente le servitù apparenti, ossia rilevabili dalla presenza di opere visibili e inequivocabilmente destinate all’esercizio della servitù

Perchè tale specifica?

Per cercare di impedire possano essere invocati a fondamento dell’acquisto del diritto attività esercitate clandestinamente o per mera tolleranza.

Ebbene, è innegabile che talvolta sia difficile configurare per certa l’esistenza di opere dall’inequivoca destinazione all’esercizio della servitù.

 

La giurisprudenza, al riguardo, ha chiarito che si dovrà effettuare una verifica caso per caso, nella specifica realtà sociale, negli usi e nelle consuetudini propri di un determinato luogo e di un’epoca precisa.

Non rileva che tutta l’opera sia apparente, essendo sufficiente la presenza di segni visibili, idonei a farne supporre l’esistenza.

Si è, inoltre, specificato, che tali segni potranno essere visibili da un punto di osservazione non necessariamente coincidente col fondo servente ma dovranno essere tali da rendere obiettivamente manifesta, per chi possegga detto fondo, la situazione di asservimento.

 

Tubi interrati sono opera apparente?

Viene da chiedersi se l’appurata presenza di un tubo, seppur interrato o cementato su un muro, possa ritenersi opera visibile, volta a consentire l’accertamento della servitù oppure debba considerarsi non apparente.

tubi interrati
Tubi interrati: non è necessario che l’opera sia interamente e sempre visibile, ma sufficiente anche sia rilevabile saltuariamente.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione depone per la prima ipotesi.

I giudici ermellini si erano trovati a dirimere una controversia attinente l’accertamento o meno della servitù di acquedotto, la cui opera asseritamente idonea a renderla apparente era la presenza di tubatura idrica posizionata al di sotto dell’appartamento costituente fondo servente.

La suprema Corte ha rilevato che  “la visibilità dal fondo servente è, dunque, un’ipotesi normale ma non per questo esclusiva, essendo, piuttosto, sufficiente che le opere destinate all’esercizio della servitù siano visibili – anche se solo saltuariamente ed occasionalmente – da qualsivoglia altro punto d’osservazione, anche esterno al fondo servente, purchè il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica

 

A tal fine l’opera non dovrà necessariamente essere “a vista” e nemmeno sarà necessario che il proprietario del fondo asservito sia a conoscenza dell’esistenza dei tubi interrati, essendo, per l’appunto, sufficiente la loro obiettiva ed inequivoca destinazione a servire altro fondo.

 

La sentenza della Corte di Cassazione: Cass Civ. 14292/2017

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Tubi interrati

Vendita beni fondo patrimoniale

Vendita beni fondo patrimoniale

L’istituto del fondo patrimoniale ha l’obiettivo di segregare una quota parte di beni, mobili o immobili, di uno o di entrambi i coniugi per far fronte alle necessità della famiglia.

Ad sustinenda onera matrimonii, dicevano i romani.

Una volta costituito, la proprietà dei beni del fondo appartiene ad entrambi i coniugi, salvo che sia stato diversamente pattuito nell’atto costitutivo, che può essere stipulato per atto pubblico (Notaio) anche durante il matrimonio (art. 167 cc).

vincolo vendita beni fondo patrimoniale
vendita beni fondo patrimoniale: l’impiego dei beni che costituiscono il fondo è vincolato alle necessità della famiglia

La  rendita (i frutti) che si conseguirà dai beni facenti parte del fondo ( i frutti) sarà destinata esclusivamente per i bisogni della famiglia.

Quali sono i bisogni della famiglia?

La giurisprudenza ha elaborato nel tempo un concetto via via più esteso.
Le necessità non sono solo quelle “primarie” per la vita dei componenti (mangiare, vestire ed un tetto dove dormire), ma tutte quelle che corredano il tenore di vita prescelto, che varia a seconda del nucleo familiare interessato e dovrà essere oggetto di attenta valutazione del giudice.
Il fondo patrimoniale può essere costituito da parte di un terzo, estraneo al nucleo familiare, ovviamente col benestare – accettazione – dei coniugi che lo compongono.
In questo caso, è escluso che il terzo costituente possa imporre per quali necessità familiari debbano essere impiegati i beni segregati: l’intento è naturalmente quello di garantire la massima autonomia e dignità per i coniugi nell’indirizzo della famiglia.

Vendita beni fondo patrimoniale.

Premesso che il fondo patrimoniale cessa con lo scioglimento del matrimonio – divorzio, ma dura comunque fino alla maggiore età dell’ultimo figlio, va precisato che i beni che ne fanno parte non possono essere venduti o ipotecati o vincolati senza il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minorenni, con l’autorizzazione del giudice (che dovrà appurare la necessità o utilità evidente dell’operazione): art. 169 cc.

Un bene del fondo patrimoniale potrà essere venduto con il consenso di entrambi i coniugi, salvo diversa indicazione contenuta nell’atto costitutivo

L’atto costitutivo, tuttavia, potrà derogare a tale previsione generale, consentendo al singolo coniuge, verosimilmente quello che abbia corrisposto i beni che costituiscono il fondo, di effettuare atti di straordinaria amministrazione senza l’adesione dell’altro consorte.
La giurisprudenza ha specificato che – in questo caso – non sarà nemmeno necessaria l’autorizzazione del tribunale nell’ipotesi in cui vi siano figli minorenni, proprio perchè sarà l’atto costitutivo, a monte, a consentire tale operazione.

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Il risarcimento danni per omessa diagnosi malattia terminale

Anche se la malattia terminale non lasci spazio alla speranza è configurabile un danno da perdita di chance esistenziali.

Nel nostro ordinamento sta prendendo sempre più piede un nuovo criterio per definire il concetto salute.

Salute, infatti, non significa solo “stare bene“, nel senso di non avere malattie, ma anche stare bene con se stessi nel momento della malattia.
Laddove, in precedenza, tale concetto era emarginato soltanto all’ambito fisico della persona, ora è esteso anche a quello psichico: anche quando si abbia un male, financo incurabile, si ha diritto ad avere la migliore percezione di se stessi, a godere della vita con tutte le attribuzioni, le risorse e le possibilità che siano consentite, a svolgere tutte le scelte che siano concretamente permesse.
Ecco, allora, che in ipotesi di omessa diagnosi di una malattia terminale, con una prognosi senz’altro infausta, il mancato -tempestivo – accertamento in termini diagnostici da parte del medico curante, pur non avendo nesso causale con l’evento morte, può legittimare la richiesta di risarcimento danni per perdita di chance esistenziali.

risarcimento danni per omessa diagnosi malattia terminale 2
Risarcimento danni per omessa diagnosi malattia terminale: una nuova concezione del diritto alla salute.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha efficacemente statuito in ordine alla domanda di risarcimento danni per omessa diagnosi di malattia terminale invocata dalle figlie di un paziente oncologico i cui medici che lo avevano in cura avevano accertato con colpevole ritardo il processo patologico in atto.

Laddove, in precedenza, il Tribunale e la Corte d’appello avevano deciso che nulla potesse essere liquidato, poichè il defunto, anche se la malattia fosse stata diagnosticata prima, non avrebbe potuto nutrire speranze di sopravvivenza, i giudici della Suprema Corte hanno rinvenuto come, al contrario, fosse concedibile il risarcimento del danno, “consistito nell’imposizione di una condizione esistenziale di materiale impedimento a scegliere cosa fare nell’ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, ovvero di programmare il suo essere persona e, dunque, l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell’esito“.

Non solo.

I giudici ermellini hanno rilevato che nella fattispecie sussisteva non tanto un danno per perdita di possibilità esistenziali alternative, quanto derivante dalla violazione di un diritto autentico, qual è l’autodeterminazione.
E’ stato evidenziato, infatti, che  “non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali che il velo d’ignoranza illecitamente indotto dalla colpevole condotta dei medici convenuti ha per sempre impedito che si attuassero come espressioni di una scelta personale“.

risarcimento danni per omessa diagnosi malattia terminale Vicenza
L’omessa diagnosi di malattia terminale, pur non determinando la morte, può legittimare il risarcimento del danno per lesione del diritto all’autodeterminazione personale. Libertà di compiere le proprie scelte di vita fino alla fine e non subire passivamente la malattia.

Da segnalare l’ultima considerazione della Corte ” anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose. Rilievo che vale a tradursi in una specifica percezione del sè quale soggetto responsabile, e non mero oggetto passivo, della propria esperienza esistenziale“.

Per dirla con le parole dello scrittore e saggista francese Paul Bourget “Bisogna vivere come si pensa, altrimenti si finirà per pensare come si è vissuto“.

La sentenza della Corte di Cassazione: Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 24-01-2018) 23-03-2018, n. 7260  

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Suddivisione conto corrente cointestato

Suddivisione conto corrente cointestato

Suddivisione conto corrente cointestato: presunzione di comproprietà in pari quote dei titolari, salvo prova contraria.

Il caso è frequente nell’ambito delle successioni ereditarie: un padre ha tre figli. Con uno di essi ha un rapporto più frequente, tanto da aver aperto un conto corrente in comune, per consentirgli di effettuare le commissioni che l’età avanzata non consente più di svolgere comodamente.
Alla morte del genitore scatta la baraonda tra gli eredi.
Il figlio prediletto vorrà tenere per sè la propria quota del 50 % del saldo del conto corrente cointestato, sostenendo che debba cadere in successione solamente la porzione del padre. Di tenore opposto sarà la posizione degli altri fratelli, che bolleranno come una donazione, da computare nella valutazione della quota del loro omologo, l’avvenuta cointestazione del conto paterno.
Chi avrà ragione?

Suddivisione conto corrente cointestato: alcuni punti fermi.

L’art. 1854 cc. stabilisce che “Nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere operazioni anche separatamente, gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto“.

Non solo.

L’art. 1298 cc , nell’ambito di una obbligazione, quale quella di apertura di conto corrente, contratta da più soggetti, sancisce che “Nei rapporti interni, l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di essi “.

Ergo, le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente.

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Suddivisione conto corrente cointestato: si presume contitolarità, ma è ammessa prova contraria.

Una presunzione non già assoluta, invincibile, ma suscettibile di essere superata mediante la prova che le somme confluite nel conto abbiano, ad esempio, una sola provenienza (ad esempio, la pensione del padre).

In tal caso, come ha avuto modo di rilevare una recentissima Sentenza della Corte di Cassazione,  laddove il saldo attivo derivi dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti,  l’altro non potrà, nel rapporto interno, avanzare pretese su tale saldo.

Non potrà, in buona sostanza, reclamare come propri tali importi, neanche pro quota.

Non solo.

Il contitolare non potrà operare per la parte eccedente la propria quota

Aanche se non si riuscisse a dimostrare un’ unica confluenza nel conto corrente cointestato, superando così la presunzione di cui sopra, va comunque escluso che, nei rapporti interni, ciascun cointestatario, anche se abbia facoltà di compiere operazioni  disgiuntamente, possa disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell’altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all’intero svolgimento del rapporto.

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Suddivisione conto corrente cointestato: la cointestazione non costituisce donazione, a meno che non sia provata la liberalità dell’originario unico proprietario del conto

Cointestare equivale a donare?

Ma la cointestazione, ad altro soggetto, di somme appartenenti ad un unico proprietario potrebbe costituire una sorta di donazione della metà di detti importi?
No, se non vi sia prova che l’originario titolare degli importi contenuti nel conto non avesse inteso beneficiare, a titolo liberale (il cd animus donandi) il soggetto cui è stata estesa la contitolarità del rapporto.

La sentenza: Cass. Civ. 04/01/2018, n. 77 

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esame perizia di stima per partecipare ad asta giudiziaria

 

Perizia di stima asta giudiziaria: l’esame è fondamentale per compiere una scelta consapevole.

perizia di stima asta giudiziaria
perizia di stima asta giudiziaria: se vi è una dettagliata indicazione delle condizioni del bene aggiudicato non è possibile recriminare

Le persone che partecipano ad un’asta giudiziaria spesso lo fanno nella convinzione che si tratti di una mossa conveniente.

Spesso, in effetti, lo è, ma a volte capita che dietro i meandri della procedura si celino delle insidie di cui ci si accorge soltanto una volta che si è già proceduto all’acquisto.

Ciò accade anche perché per partecipare ad un’asta non è richiesta la rappresentanza tecnica, cioè non è necessario avvalersi di un avvocato o di altro professionista qualificato.

Per partecipare ad un’asta in modo consapevole, risulta particolarmente importante l’esame della perizia di stima,  che è una relazione tecnica richiesta dal giudice per determinare il prezzo posto a base d’asta.

La perizia contiene tutti i dati dell’immobile (identificazione catastale, planimetria, condizioni di manutenzione, ecc…) e dovrebbe, ma non sempre purtroppo è così – descriverne tutti i vizi e difetti.

E’ importante far esaminare la perizia ad un professionista esperto che sappia interpretare le parole usate dal perito.

Spesso infatti nelle perizie si trovano espressioni come “stato di degrado” o “stato di manutenzione discreto” che nascondono delle realtà poco piacevoli.

Particolare attenzione va prestata alla regolarità urbanistica, in quanto in un’asta giudiziaria possono essere messi in vendita beni che ad esempio non hanno la concessione edilizia perché revocata o addirittura del tutto abusivi; questo perché appunto fanno parte di una procedura esecutiva e quasi sicuramente nella valutazione del bene viene calcolata anche la spesa per una eventuale messa in regola o addirittura per la sua demolizione.

E’ accaduto, ad esempio, che a seguito del provvedimento di aggiudicazione, un  beneficiario fosse venuto a conoscenza di un ordine di demolizione parziale dell’immobile acquistato all’asta. Di conseguenza, rifiutava di procedere al pagamento del prezzo di aggiudicazione entro il termine stabilito, perdendo la cauzione versata.

A sua difesa, l’aggiudicatario rilevava che l’ordine di demolizione non era stato evidenziato nell’ordinanza di vendita che era stata pubblicizzata online.

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha dato torto all’aggiudicatario in quanto la situazione urbanistica dell’immobile posto in vendita era stata chiaramente posta in evidenza nella perizia di stima richiamata dall’ordinanza di vendita.

Il principio di diritto affermato dalla Corte è dunque quello che non tutte le circostanze rilevanti ai fini della precisa individuazione delle caratteristiche del bene offerto in vendita debbano essere dettagliatamente esposte nell’ordinanza di vendita e indicate nella relativa pubblicità, purché esse siano comunque ricavabili dall’esame della relazione di stima e del fascicolo processuale, che è onere (e diritto) degli interessati all’acquisto consultare prima di avanzare le offerte.

Dove possiamo trovare la perizia di stima? La perizia è disponibile per la consultazione, presso la cancelleria del tribunale o presso lo studio del professionista incaricato. Inoltre, se l’asta immobiliare è pubblicizzata su siti internet dedicati, la perizia può essere consultata anche online, insieme all’avviso di vendita.

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