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Pagamento retta casa di riposo da parte del comune: sì se l’anziano ha reddito limitato

Pagamento retta casa di riposo da parte del Comune: la semplice esistenza di familiari tenuti agli obblighi alimentari o che abbiano firmato un impegno contrattuale con la casa di riposo in presenza di condizioni di reddito limitato non esclude, di per sè, l’obbligo per il Comune.

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

Con sentenza num. 1625 del 27.06.2018 il Tribunale di Vicenza ha condannato un Comune al pagamento in favore dell’IPAB della somma di Euro 8.876,89 a titolo di integrazione economica delle rette di ricovero presso l’rsa di un anziana.

L’IPAB aveva ospitato un’anziana, affetta da morbo di Alzheimer e che al momento del ricovero risultava residente, appunto, presso il Comune in causa.

Nonostante il figlio avesse sottoscritto con la casa di riposo un impegno personale a pagamento della retta, non vi era stata alcuna possibilità di ottenere dallo stesso qualsivoglia forma di pagamento.

L’IPAB, quindi, procedeva alla notifica di decreto ingiuntivo nei confronti dell’ente comunale, decreto ingiuntivo al quale il Comune si opponeva prontamente con atto di citazione.

Tesi del Comune era, tra l’altro, che nella fattispecie non fossero sussistenti i presupposti di legge per l’insorgere dell’obbligo assistenziale in capo allo stesso “posto che gli unici soggetti tenuti al pagamento delle rette sarebbero la stessa ospite nonché il figlio sia a norma di legge (Art. 433 c.c.), che di Regolamento comunale sia in forza dell’impegno assunto dal familiare con l’IPAB”.

Secondo la RSA opposta, invece, l’obbligo del Comune di pagare l’insoluto maturato discendeva dalle previsioni degli artt. 6, IV comma, del della Legge 08.11.2000, n. 328, secondo il quale “Per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica”.

Il Tribunale di Vicenza, dopo un’attenta istruttoria, ha ritenuto di dover accogliere le tesi dell’IPAB, vicentina confermando il decreto ingiuntivo.

In particolare, secondo il Tribunale l’anziana aveva diritto alla prestazione socio assistenziale da parte del Comune essendo persona in stato di bisogno:

-in quanto soggetto in condizioni di reddito limitato che non consentivano di far fronte al pagamento della retta di ricovero;

-in quanto soggetto per il quale si era necessario il ricovero stabile preso RSA perché soggetto ultrasessantacinquenne non autosufficiente e , quindi, rientrante nella fattispecie di cui all’art. 3, comma II ter, del D.Lgs. n. 109/1998.

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Si ritiene doveroso evidenziare che la fattispecie oggetto del giudizio è antecedente alla riforma dell’ISEE avvenuta con D.P.C.M. n. 159/2013.


Come noto, in conseguenza di tale riforma, ai fini dell’integrazione della retta di ricovero di un anziano non autosufficiente da parte del Comune, è necessaria la presentazione dell’ISEE socio sanitario uso residenziale che risponde a criteri diversi rispetto a quelli evidenziati nella sentenza oggetto del presente articolo.


Più precisamente, il calcolo dell’ISEE terrà conto anche della condizione economica dei figli del beneficiario non inclusi nel nucleo familiare, integrando l’indicatore con una componente aggiuntiva per ciascun figlio.

Al di là di questa doverosa precisazione, resta ferma, a parere di chi scrive, la legittimazione della casa di riposo ad agire nei confronti del Comune in caso di rette non pagate, e questo data la natura del Comune di soggetto “previamente informato” del ricovero ex art. 6, IV comma, della Legge n. 328/2000.


Sarà poi il Comune a valutare se vi siano gli estremi per agire in regresso verso l’eventuale firmatario dell’impegno di pagamento o altri componenti del nucleo familiare.

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Pagamento retta casa di riposo da parte del comune

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Consenso al vaccino ospite casa di riposo: chi lo presta se non vi è capacità del diretto interessato?

Consenso al vaccino ospite casa di riposo: a fronte dell’attuale emergenza pandemica vi è un decreto ad hoc.

Si ringrazia la collega, Stefania Cerasoli, per il prezioso contributo.

Come noto, nel nostro ordinamento il diritto di decidere a quali trattamenti sanitari sottoporsi è tutelato a livello costituzionale (cfr. artt. 13 e 32) e internazionale (cfr. Convenzione di Oviedo del 1997) e con apposita legge (n 219/2017).

Non solo.

Il paziente ha il diritto di ricevere una specifica informazione sul trattamento medico a cui deve sottoporsi in modo da poter esprimere un consenso, o un dissenso, consapevole.

Come si pongono questi principi nell’ambito delle case di riposo dove, troppo, spesso, sono ricoverate persone non in grado di esprimere una volontà consapevole?

 

 

licenziamento-lavoro-senza-vaccino.

 

Si tratta di un problema di estrema attualità.

Mi riferisco, infatti, alla somministrazione dei vaccini, trattamenti sanitari a tutti gli effetti, relativamente agli ospiti delle case di riposo spesso soggetti incapaci di esprimere una volontà libera e consapevole.

In tale scenario si colloca il Decreto Legge n. 1 del 05.01.2021 che, per l’attuazione del piano di somministrazione del vaccino contro il contagio da COVID-19, individua specifiche procedure per l’espressione del consenso alla somministrazione del trattamento, proprio per gli ospiti di residenze sanitarie assistite (o altre strutture analoghe).

L’Art. 5 del Decreto Legge n. 1 del 05.01.2021, ponendosi in continuità con la disciplina sul testamento biologico , viene ad assegnare un ruolo pressoché chiave ai direttori sanitari e ai responsabili medici delle Rsa.

Più precisamente, il citato articolo prevede che le persone incapaci ricoverate presso strutture sanitarie assistite esprimano il consenso al trattamento sanitario per le vaccinazioni anti Covid tramite il loro rappresentante legale (tutore, curatore, amministratore di sostegno o fiduciario di cui all’articolo 4 Legge n. 219/2017).

Nel caso in cui il soggetto si trovi in una situazione d’incapacità naturale e sia privo di un rappresentante legale , il direttore sanitario o, in difetto, il responsabile medico della residenza, “ne assume la funzione di amministratore di sostegno, al solo fine della prestazione del consenso”.

Analoga procedura è prevista nel caso in cui il rappresentante legale esista ma risulti irreperibile per almeno 48 ore.

 

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Si precisa, inoltre, che i soggetti incaricati di esprimere il consenso alla vaccinazione debbano, in ogni caso, sentire il parere del “coniuge, della persona parte di unione civile o convivente o, in mancanza, del parente più prossimo entro il terzo grado dell’incapace”.

Qualora questi soggetti acconsentano, il medico provvederà ad inviare una comunicazione al dipartimento di prevenzione sanitaria competente per territorio.

In ogni caso, il consenso non potrà essere espresso in difformità dalla volontà dell’interessato o, se lui non è in grado, dei parenti indicati. In quest’ultimo caso, il medico potrà richiedere, con ricorso al giudice tutelare, l’autorizzazione a fare comunque la vaccinazione.

Qualora non sia possibile procedere per mancanza di disposizioni di volontà dell’interessato, anticipate o attuali, o per irreperibilità o indisponibilità dei parenti, il consenso dato dal medico-amministratore di sostegno deve essere comunicato immediatamente al giudice tutelare che, nelle 48 ore successive, dovrò procedere alla sua convalida.

Si precisa che, qualora la convalida venga negata, il consenso sarà privo di effetti.

Nel caso in cui, invece, non pervenga alcuna comunicazione, il silenzio del giudice tutelare nelle successive 48 ore sarà da considerare un assenso alla vaccinazione.

È evidente a tutti la necessità di regole snelle dato l’alto numero di ospiti presenti nelle RSA e dall’estrema comorbilità che caratterizza gli ospiti stessi (si veda a tale proposito l’interessante studio posto in essere dall’Istituto Superiore di Sanità in merito ).

A parere di chi scrive, però, il decreto in esame non ha raggiunto l’obiettivo sperato venendo, invece, a creare appesantimenti e complicazioni.

Che senso ha, ad esempio, imporre all’amministratore di sostegno di sentire i famigliari quando, normalmente lo stesso amministratore di sostegno può prestare il consenso informato senza necessità di confrontarsi con i familiari del beneficiario?

Prima di concludere si segnala il documento redatto dall’VIII Sezione del Tribunale di Milano che, sempre nell’ottica di semplificare, per quanto possibile, il lavoro degli operatori sanitari, dei rappresentanti legali delle persone incapaci impegnati nell’applicazione delle nuove disposizioni, individua dieci situazioni tipo e la relativa disciplina.

 

 

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Consenso al vaccino ospite casa di riposo

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Licenziamento rifiuto vaccino: è legittimo?

 

 

 

Licenziamento rifiuto vaccino contro Covid 19: in assenza di una legge che imponga l’obbligo vaccinale, è legittimo?

 

 

 

Licenziamento rifiuto vaccino: si ringrazia la Collega, Avv. Cinzia Rizzo, per il prezioso contributo.

 


Dai mass media avrete appreso che l’infezione dal COVID-19 può dare luogo ad un infortunio sul lavoro.

 


Quali azioni devono essere assunte dal datore di lavoro per mettere in sicurezza i luoghi di lavoro, da un lato, e quali obblighi incombono sul lavoratore, dall’altro?

 


Come noto, il datore di lavoro dovrà adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri lavoratori.


Dal campo scientifico sono giunte indicazioni in tema di prevenzione del contagio, confluite nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 24 aprile 2020, e ora finalmente i primi vaccini, non ancora contemplati nel protocollo.

Del resto anche l’obbligo di protezione previsto dalla legge prevede che le misure a tutela della salute siano aggiornate in base alla “esperienza e tecnica”; ora che il progresso scientifico ha reso disponibile il vaccino, è doveroso, per le aziende, prenderlo in considerazione!

 

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licenziamento rifiuto vaccino

 


Dunque, per garantire la sicurezza delle sedi di lavoro, il datore dovrebbe poter pretendere che ciascun dipendente si sottoponga a vaccinazione garantendo così l’incolumità del singolo e dei suoi colleghi?

 

Il vaccino contro il COVID-19 può essere considerato una di quelle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro che il datore è tenuto ad applicare?


Allo stato attuale non si rinvengono precetti normativi per effetto dei quali si possa immediatamente ritenere la possibilità, per il datore di lavoro, di richiedere la vaccinazione quale misura obbligatoria di prevenzione e, quindi, condizione di accesso sui luoghi di lavoro.

 

Certo, non tutti i rapporti di lavoro sono uguali.


Il giudizio sull’inadempimento del lavoratore che rifiuti la vaccinazione deve essere necessariamente condotto sul piano del singolo rapporto; è un giudizio che va individualizzato.


Ne consegue che diversa sarà la valutazione di un ospedale o una casa di cura privata nei confronti dei medici e infermieri che non intendano sottoporsi a vaccinazione, anche perché sarebbero esposti a responsabilità risarcitoria nei confronti di chi, ricoverato per curarsi, abbia contratto il virus in conseguenza di un comportamento negligente di un dipendente, rispetto alla valutazione del datore di lavoro che occupi un solo dipendente, non a contatto con il pubblico.

 


Infine, una volta che, caso per caso e in relazione ai diversi ambienti lavorativi, potrebbe essere considerata esigibile la richiesta di vaccinazione, resta la questione della sanzione applicabile al comportamento deviante del lavoratore.

 

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Non è detto, infatti, che il datore di lavoro possa comminare il licenziamento per rifiuto vaccino.

 

Il datore potrebbe adibire il lavoratore, che abbia scelto di non vaccinarsi, a posizioni compatibili con tale scelta.

Residuerebbe, infine, la possibilità di configurare il comportamento del lavoratore come un oggettivo impedimento alla prestazione di lavoro, in ragione di una impossibilità sopravvenuta.

Il datore di lavoro dovrebbe sospendere il dipendente e procedere al suo licenziamento solo quando siano venute meno le condizioni di un suo proficuo impiego (cioè quando sussistano ragioni organizzative o produttive che lo autorizzino).

 


Il problema potrebbe, in parte, moderarsi a fronte dell’utilizzo massivo dello smart working, o della adibizione del lavoratore a diverse mansioni e dell’utilizzo di specifici d.p.i. e di una diversa distribuzione degli spazi aziendali ed essere, quindi, relegato alle figure che hanno contatti con colleghi, clienti e fornitori.

Tuttavia, una volta ragionevolmente ristretto l’ambito entro il quale l’eventuale obbligo vaccinale sul lavoro sia rilevante, il vaccino, una volta disponibile, dovrà essere considerato una misura di prevenzione dei rischi indispensabile allo svolgimento della prestazione.

 


Probabilmente il Governo a determinate condizioni prevederà l’obbligatorietà della vaccinazione, e questa potrebbe essere oggetto di una specifica previsione per i luoghi di lavoro, innanzitutto per quelli in cui risulti altrimenti più difficoltoso il rispetto delle altre misure anti-contagio.

 

 

 

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licenziamento rifiuto vaccino

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Impegno al pagamento della retta della casa di riposo: si può ritirare?

 

 

 

Impegno al pagamento della retta della casa di riposo: una volta dato è per sempre?

 

 

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo

 

 

Ce ne eravamo già occupati in un post ad hoc. 

Oggi troviamo conferma da una recentissima pronuncia della Corte d’appello di Venezia: è possibile revocare l’impegno al pagamento della retta della casa di riposo da parte dei familiari.

 

La Corte lagunare, con sentenza dello scorso 22 Settembre 2020, ha confermato il provvedimento di primo grado con cui il Tribunale di Padova aveva revocato il decreto ingiuntivo che era stato notificato al figlio di un’anziana ricoverata in una casa di riposo e notificatogli in quanto aveva interrotto di integrare la retta di ricovero, integrazione resa necessaria dall’insufficienza della pensione della madre.

 

 

 

Come noto, per accedere alle strutture residenziali l’anziano che si trova in condizione di bisogno deve presentare apposita domanda presso il distretto socio-sanitario di residenza al fine di richiedere la convocazione dell’Unità valutativa multidimensionale distrettuale (Uvmd).

 

Tale UVMD ha il compito di valutare la situazione dell’anziano sotto il profilo sanitario, assistenziale e sociale attraverso la compilazione della cd. scheda Svama.

La scheda Svama è, infatti, una scheda di valutazione che riassume tutte le informazioni utili a descrivere, sotto il profilo sanitario e socio-assistenziale nonché delle abilità residue, le condizioni dell’anziano.

 

Se l’équipe valuta l’inserimento in residenza per anziani come il progetto di assistenza che meglio risponde alle esigenze della persona, questa, sulla base di un punteggio di gravità determinato dalla condizione sanitaria, sociale e dall’assenza di alternative all’istituzionalizzazione, viene inserita in una “graduatoria” unica per tutta l’Ulss (Registro unico della residenzialità).

Nel momento in cui, presso una delle strutture indicate dall’utente tra quelle presenti nell’elenco sottoposto al momento della UVMD, dovesse rendersi disponibile un posto convenzionato, sarà cura della struttura contattare l’utente al fine di valutare l’inserimento.

 

È doveroso evidenziare che, anche una volta ottenuto l’inserimento nel Registro Unico di Residenzialità, non è affatto detto che il beneficiario riesca ad accedere immediatamente ad un posto letto in regime convenzionato. A fronte di tante richieste, solo alcune vengono evase, e non per assenza di posti letto ma per disponibilità di “quote” regionali sanitarie.

In altre parole, l’anziano verrà ad essere contattato dalle varie strutture prescelte solo nel momento in cui la sua posizione rientrerà nei limiti della programmazione di bilancio già stimata.

 

In ogni caso, nell’ipotesi in cui l’ingresso in struttura avvenga in regime convenzionato ossia in virtù dell’impegnativa di residenzialità , la casa di riposo, operando come una Pubblica Amministrazione, non potrà vantare somme in base ad accordi privati con l’utente e con i parenti di quest’ultimo, invocando di essere un soggetto privato.

Né tantomeno potrà subordinare l’ingresso in struttura alla prestazione di garanzia, come effettuato dalla RSA di cui al giudizio che ci occupa.

 

Questo principio, affermato in I grado dal Tribunale di Padova è stato confermato anche dalla Corte di Appello che, però, è andata oltre dichiarando la legittimità di un eventuale recesso da parte dei familiari relativamente al contratto sottoscritto ed avente ad oggetto l’integrazione della retta di ricovero.

 

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La Corte, infatti, uniformandosi all’orientamento giurisprudenziale che ha avuto inizio con la sentenza n. 26863/2008 della Corte di Cassazione, III Sezione Civile, ha stabilito che nulla sia dovuto da parte del parente che si era obbligato qualora questi abbia esercitato il diritto di recesso.

 

E questo in primo luogo perchè l’impegno assunto dai familiari con la sottoscrizione del contratto è qualificato come assunzione di un’obbligazione di garanzia per futuri possibili debiti dell’obbligato, garanzia in relazione alla quale la facoltà di recesso è riconosciuta dalla giurisprudenza.

 

In secondo luogo perchè il parente che si è precedentemente obbligato avrà la “facoltà del recesso unilaterale, prevista dall’art.1373 c.c. per i contratti ad esecuzione continuata o periodica e che rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, in sintonia con i principi di buona fede nell’esecuzione del contratto” (cfr. Sentenza n.26863/2008 Corte di Cassazione, III Sezione Civile).

 

 

Gli impegni assunti dai parenti dei ricoverati in una Rsa o altra struttura a titolo di integrazione della retta di degenza sarebbero, quindi, sempre revocabili tramite l’invio alla struttura di una lettera a mezzo raccomandata con la quale si comunica la propria volontà di risolvere/recedere/revocare l’impegno economico.

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Impegno al pagamento della retta della casa di riposo

Nella stessa classe possono esserci più alunni con disabilità?

 

 

 

Il tribunale di Milano risponde al quesito se nella stessa classe possono esserci più alunni con disabilità con una sentenza degna di nota.

 

 

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

 

La vicenda ha inizio nel dicembre 2017 quando i genitori di un bambino con disabilità (in particolare si parla di disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, disturbo del linguaggio e livello cognitivo borderline), decidono di presentare domanda di pre-iscrizione alla prima elementare presso lo stesso istituto della scuola materna proprio per garantire al piccolo la possibilità di un percorso continuo e integrato tra la scuola d’infanzia e la scuola primaria.


A dicembre dello stesso anno ai genitori viene comunicato che l’iscrizione non poteva essere accolta.


Secondo la cooperativa sociale che gestiva la scuola paritaria (con classi della scuola d’infanzia e della primaria), non era possibile “accogliere più di un alunno disabile per ciascuna sezione” di prima elementare, in ragione “delle difficoltà dei minori accertate in sede di pre-iscrizione”.

 

Circostanza che, sempre a detta della cooperativa, avrebbe “messo a rischio la garanzia di un percorso formativo efficace per tutti gli alunni”.


La famiglia si è trovata quindi costretta ad iscrivere il bambino presso altra scuola, fatto che ha determinato, come è ovvio, grave disagio al piccolo che si è trovato costretto a ricostruire il rapporto relazionale con nuovi compagni.


Disagio patito anche dai genitori che, per far fronte alle difficoltà del figlio, hanno dovuto nei primi tempi assentarsi con frequenza dal lavoro, andando incontro ad un’inevitabile contrazione di reddito.


La famiglia ha quindi deciso di presentare ricorso in Tribunale al fine di vedere accertata la condotta discriminatoria della scuola per aver precluso al figlio la possibilità di iscriversi alla scuola primaria.

 

 

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nella stessa classe possono esserci più alunni con disabilità?

 


Il Tribunale, con l’ordinanza del 20.02.2020, ha in primo luogo chiarito che l’obbligo di accoglienza degli studenti con disabilità nelle scuole statali (e in quelle paritarie) non è soggetto ad alcun limite numerico rigidamente prestabilito.


Se è vero che di norma le classi che accolgono alunni con disabilità sono costituite – di norma –  da un numero di non più di 20 alunni, è anche vero che tale previsione non impedisce l’inserimento di più alunni disabili nella stessa classe, né preclude il superamento del limite di 20 (cfr. art. 5 del D.P.R. 81/09).


Del resto, la stessa scuola ha dichiarato di aver composto classi anche di 26 alunni ospitanti alunni con disabilità e di aver accolto 13 bambini con disabilità certificata su 10 classi.


Perché non derogare, se di deroga si deve parlare, anche nella fattispecie in esame?


Secondo i giudici non è possibile comprendere, neanche a titolo comparativo, cosa abbia fatto prediligere come scelta quella di escludere dalla frequenza della scuola il minore che, quindi, risulta essere stato escluso, di fatto, per la sua condizione di disabilità.


Tale rifiuto all’iscrizione si prospetta pertanto come illegittimo e il Tribunale di Milano riconosce la discriminazione in quanto “il rifiuto di iscrizione risulta direttamente connesso alla condizione di disabilità del minore e dunque contraria all’obbligo di parità di trattamento degli alunni disabili e normodotati”.

 

 

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Del resto la normativa nazionale e non, è chiarissima nell’affermare che l’inclusione scolastica non è soggetta a limitazioni.


Si leggano ad esempio:


Non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità” (Legge n. 67/2006, art. 2);


E’ garantito il diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie” (Legge n. 104/1992, art. 12);


Le persone con disabilità possano accedere su base di uguaglianza con gli altri, all’interno delle comunità in cui vivono, ad un’istruzione primaria di qualità e libera ed all’istruzione secondaria.” (Convenzione Onu del 13.12.2006, art. 24).

 

Tali normative, si noti bene, sono pienamente applicabili anche alle scuole  paritarie, le quali sono tenute ad accogliere chiunque, comprese gli studenti con handicap, e sono soggette all’applicazione delle norme di legge vigenti in materia di inserimento di studenti con handicap.

 

Conseguentemente  il Tribunale ha dichiarato che il rifiuto all’iscrizione effettuato dalla scuola fosse pienamente discriminatorio, in quanto direttamente legato alla condizione di disabilità del richiedente, comportandone un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai  compagni “normo dotati”.  

 

 

 

 

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nella stessa classe possono esserci più alunni con disabilità?

Si tiene conto dell’indennità di accompagnamento per la compartecipazione alla retta della casa di riposo?

 

 

Si tiene conto dell’indennità di accompagnamento per la compartecipazione alla retta della casa di riposo? 

 

 

Un grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo

 

 

 

Con la sentenza n. 682 del 24.06.2020, il Tar Veneto ha accolto il ricorso presentato dall’amministratore di sostegno di una persona in condizioni di handicap grave ed avente ad oggetto il ricalcolo effettuato dal Comune della quota a carico dell’utente della retta di residenzialità della struttura in cui lo stesso era accolto.

 

Il Comune aveva, infatti, rideterminato la quota “alberghiera” di residenzialità a carico della persona con disabilità  in base ai criteri fissati dal regolamento comunale impugnato, senza attenersi all’ISEE presentato dal ricorrente per gli anni in questione.

 

In particolare, il Tar Veneto ha evidenziato l’illegittimità del regolamento comunale nella parte in cui prevede, valutando la condizione economica dell’assistito in modo del tutto avulso dall’ISEE, che “ l’utente compartecipi al costo della retta utilizzando le proprie “risorse economiche a qualsiasi titolo percepite al netto delle ritenute (pensioni, rendite…), ivi compresa l’indennità di accompagnamento”.

 

 

Più precisamente, l’art. 9 del Regolamento comunale, nella parte in cui disciplina l’entità della prestazione economica “per le persone con disabilità” venendo a conteggiare nelle sue disponibilità “le risorse economiche a qualsiasi titolo percepite al netto delle ritenute (pensioni, rendite…), ivi compresa l’indennità di accompagnamento”, è da considerare illegittimo “per evidente contrasto” con la vigente normativa in materia di ISEE e deve essere, di conseguenza, annullato.

 

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Si tiene conto dell’indennità di accompagnamento per la compartecipazione alla retta della casa di riposo?

 

Del resto, la giurisprudenza è ormai unanime nell’affermare che l’ISEE “resta l’indefettibile strumento di calcolo della capacità contributiva dei privati in conformità alle prescrizioni delle indicate norme costituzionali e dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia per la tutela delle persone con disabilità gravi, e deve pertanto scandire le condizioni e la proporzione di accesso alle prestazioni agevolate”.

 

 

In particolare, il TAR Veneto, con la sentenza n. 303/2019 (poi confermata dal Consiglio di Stato, Sezione III, con la sentenza n. 1505/2020), aveva già ribadito il principio “secondo cui non può essere riconosciuta ai Comuni una potestà di deroga alla legislazione statale e regionale, nell’adozione del regolamento comunale, in violazione della disciplina statale dell’ISEE, così come prevista dal DPCM n. 159/2013”.

 

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Isee retta casa di riposo

Discriminazioni misure urgenti di solidarietà alimentare: il bisogno primario non ammette subordinazioni

 

 

Discriminazioni misure urgenti di solidarietà alimentare: il bisogno primario non ammette subordinazioni

 

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 


Con Ordinanza del 30.04.2020, il Tribunale di Ferrara ha dichiarato il carattere discriminatorio della delibera n. 113/2020 della Giunta del cittadina estense avente ad oggetto le linee di indirizzo per l’erogazione delle risorse da destinare a misura urgenti di solidarietà alimentare sotto forma di “buoni spesa” una tantum.


Il Tribunale ha, quindi, condannato il Comune di Ferrara alla riformulazione delle linee di indirizzo per l’erogazione delle risorse da destinarsi a misura urgente di solidarietà alimentare sotto forma di buoni spesa una tantum con eliminazione delle clausole discriminatorie che di seguito si evidenziano.

L’Associazione degli Studi Giuridici sulla Immigrazione, esercitando una azione di tutela collettiva, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 215/2003, ha proposto un ricorso ex art. 700 c.p.c. al fine di ottenere l’accertamento della natura discriminatoria di tale delibera nella parte in cui viene a subordinare l’accesso al predetto strumento assistenziale da parte dello straniero non appartenente alla Unione Europea al possesso di un permesso di lungo soggiorno, oltre che subordinare il contributo alla residenza anagrafica, stabilendo una gradazione interna per la ripartizione delle risorse (prima gli italiani, poi i cittadini comunitari ed infine gli stranieri extracomunitari con permesso di lungo soggiorno).

 

 

Come noto, le fonti che riconoscono il diritto alla assistenza sociale quale garanzia della dignità umana e di sostentamento minimo hanno carattere non solo interno (artt. 2,3 e 38 della Carta Costituzionale), ma anche internazionale (richiamate ex art. 10, II comma della Costituzione, artt. 1, 14 e 26 della CEDU) ed infine comunitario (art. 34 della Carta dei diritti dell’Unione Europea 2) .


È per questo motivo che l’assistenza e la solidarietà sociale devono essere riconosciute non solo al cittadino, ma anche allo Straniero.


Nei limiti in cui poi si riflette sul diritto alla alimentazione, quale bisogno primario di ogni essere umano, la disciplina normativa finisce per incidere su quel “nucleo irriducibile” di diritti fondamentali della persona che lo Stato deve riconoscere a tutti indipendentemente dalle norme che regolano il soggiorno nello Stato (cfr. Corte Costituzionale n. 252/2001)


Del resto non si sta discutendo dell’accesso a prestazioni assistenziali “ordinarie” “ma dell’accesso ad una misura emergenziale tesa a fronteggiare le difficoltà dei soggetti più vulnerabili a soddisfare i propri bisogni primari a causa della situazione eccezionale determinata dall’emergenza sanitaria in atto.

Si tratta del diritto all’alimentazione che costituisce il presupposto per poter condurre un’esistenza minimamente dignitosa e la base dello stesso diritto alla vita e alla salute. Non vi è dubbio, quindi, che si tratta di quel nucleo insopprimibile di diritti fondamentali che spettano necessariamente a tutte le persone in quanto tali (cfr. Tribunale Roma n. 12835/2020).

 

buoni spesa stranieri
Discriminazioni misure urgenti di solidarietà alimentare: il diritto all’alimentazione non ammette subordinazioni

 

Del resto, la stessa Ordinanza introduttiva di tali forme di assistenza (Ordinanza della Protezione Civile n. 658/2020), all’art. 2, VI comma, prevede che il solo criterio contenuto nel provvedimento di determinazione sulle modalità di riconoscimento del beneficio assistenziale è la condizione economica del richiedente, ovvero lo stato di bisogno per soddisfare le necessità più urgenti con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico.


Nessun elemento ulteriore è ivi contenuto ad ulteriore conferma dell’illegittimità dell’atto amministrativo adottato dal Comune.


Del resto è evidente che l’ottenimento del permesso di soggiorno di lunga durata richieda requisiti minimi di reddito: imporre tale requisito determinerebbe l’esclusione dalla tutela proprio dei soggetti più deboli e fragili.

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Discriminazioni misure urgenti di solidarietà alimentare

Aumento assegno di invalidità? la Corte Costituzionale lancia un messaggio.

Aumento assegno di invalidità: l’attuale importo è inadeguato per la tutela di diritti di rango costituzionale.

 

 

Un ringraziamento alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

La Corte Costituzionale, nella camera di consiglio del 23.06.2020, esaminando una questione di legittimità costituzionale evidenziata dal Corte di Appello di Torino, ha stabilito che l’assegno di invalidità che, come noto, ha un importo pari ad Euro 285,66, è manifestamente inadeguato a garantire alle persone totalmente inabili al lavoro i mezzi necessari per vivere.

 

Secondo la Consulta, quindi, l’importo viene a violare il diritto riconosciuto dall’articolo 38 della Costituzione, secondo cui “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”.

 

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Era stata la Corte di Appello di Torino, Sezione Lavoro, con ordinanza n. 240 del 03.06.2019,  nel pronunciarsi sul ricorso presentato nell’interesse di una persona affetta da tetraplegia spastica neonatale, incapace di svolgere i più elementari atti quotidiani della vita e di comunicare con l’esterno a definire l’importo della pensione di invalidità “insufficiente a garantire il soddisfacimento delle elementari esigenze di vita”.

 

In particolare, secondo la Corte di Appello, era ravvisabile un contrasto con il contenuto dell’articolo 3 della Costituzione, per “violazione del principio di uguaglianza, ponendo a confronto l’importo della pensione di inabilità, corrisposta agli inabili a lavoro di età compresa tra i 18 e i 65 anni, e l’importo dell’assegno sociale corrisposto ai cittadini di età superiore a 66 anni in possesso di determinati requisiti reddituali, meno favorevoli di quelli di riferimento per il riconoscimento della pensione di inabilità”.

 

Inoltre, un contrasto veniva rilevato anche nei confronti degli articoli 4 e 28 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità stipulata a New York il 13 dicembre 2006, resa esecutiva in Italia con legge n. 18/2009, nonché con gli articoli 26 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea richiamata dall’art.6 del Trattato di Lisbona.

Tra ricorso e sentenze, nell’ultima ordinanza del 03.06.2020, la Corte di Appello ha deciso di sospendere il giudizio e rimettere gli atti alla decisione della Consulta.


La Corte Costituzionale, come detto, ha evidenziato come 285,66 euro non siano sufficienti a soddisfare i bisogni primari della vita determinando una violazione del diritto al mantenimento, che la Costituzione all’articolo 38 riconosce agli inabili.

 

Non solo.

 

Viene anche ritenuto ingiusto che l’invalido civile riceva meno benefici rispetto a quanto riconosciuto economicamente ai destinatari dell’assegno sociale, avendo il giudice stabilito la sostanziale similitudine tra le due condizioni.

 

Di conseguenza, il cosiddetto “Incremento al milione” (pari agli attuali 516,46 euro) da tempo riconosciuto, per vari trattamenti pensionistici, dall’articolo 38 della legge n. 448 del 2011,deve essere assicurato agli invalidi civili totali, di cui alla Legge n. 118/1971, art. 12, I comma, senza attendere il raggiungimento del sessantesimo anno di età, attualmente previsto dalla legge.

 

aumento assegno di invalidità: l’attuale importo è insufficiente a garantire la tutela del diritto al mantenimento

 

Questo aumento dovrà d’ora in poi essere garantito (dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza e , quindi, senza effetto retroattivo) a tutti gli invalidi civili totali che abbiano compiuto i 18 anni e che non godano, in particolare, di redditi su base annua pari o superiori a 6.713,98 euro.

 

E’ una goccia nel mare, certo. Ma sappiamo che il mare è composto da tante gocce: un buon inizio, la strada è ancora lunga.

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

aumento assegno di invalidità

Guida all’ingresso in casa di riposo

 

 

 

Ci siamo.


Tante volte nel corso della vita abbiamo pensato “ e se dovessi perdere le mie capacità, la mia autosufficienza, l’attitudine a svolgere le mansioni di vita quotidiana?”. O semplicemente, “ se mi trovassi solo? Senza nessuno che si occupasse di me, dei miei bisogni, delle mie necessità?”.


Ci siamo.


E’ arrivato il momento, per sé o per un proprio caro. Abbiamo bisogno di aiuto. Di assistenza alla nostra cura. Di un soccorso per la nostra salute che ci fa vacillare. Quotidianamente.


I nostri familiari – beati coloro che ci possono contare – non sono più in grado di darci una mano.
Hanno il loro lavoro, la loro famiglia. La loro vita.


Farebbero di tutto per noi. Ma non ce la fanno più.


Le nostre esigenze sono diventate soverchianti. E loro non sono medici, nemmeno infermieri.
Neanche badanti, verrebbe da dire, ma quello ormai hanno imparato a farlo, mossi dal loro amore e affetto.

Sono persone come tutti. Non hanno la competenza e la professionalità per affrontare la moltitudine di risvolti e sfaccettature che la nostra età avanzata o la malattia prospettano ogni giorno.


La soluzione che abbiamo individuato, per quanto sofferta, è l’ingresso in casa di riposo.


Già aver assunto una determinazione in merito è molto.
Il percorso per entrare in una RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) potrebbe rivelarsi ingarbugliato ed accidentato.

Questa guida è per te, che non sai da dove partire.


Qui puoi trovare le informazioni base che cerchi.


Per il resto… siamo a Tua disposizione.

 


Avv. Paolo Giovanni Berto                                   Avv. Stefania Cerasoli

 

 

Per scaricare gratuitamente

la GUIDA ALL’INGRESSO IN CASA DI RIPOSO

Asilo nido e disabilità

Asilo nido e disabilità.

 

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

L’integrazione scolastica è fondamentale per lo sviluppo delle potenzialità della persona con handicap nell’ apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione.


Da quanto detto ne deriva che è diritto del bambino con disabilità, anche nella fascia d’età da 0 a 3 anni, ad essere inserito all’asilo nido data l’importante valenza educativa e formativo di questo servizio.

Se in passato l’asilo nido veniva considerato solo come un momento di socializzazione prima dell’ingresso della scuola elementare, oggi siamo tutti convinti della sua importanza e valore pedagogico.


La legge n. 517 del 04.08.1977, oltre ad abolire le classi differenziali per gli alunni cd. “svantaggiati”, viene ad indicare gli strumenti utili all’integrazione così da consentire a tutti gli alunni con handicap di avere accesso alle scuole elementari ed alle scuole medie inferiori, quali:

• La presenza di classi costituite da un massimo di 20 alunni;

• La presenza di insegnanti di sostegno specializzati;

• Il sostegno specialistico da parte degli enti locali e dello Stato.

 

Persona con disabilità asilo nido
Asilo nido e disabilità: ai comuni spettano i programmi di integrazione

 


Con l’approvazione della Legge n. 104/1992, all’art. 12, si vengono finalmente a riconoscere le finalità educative e formative degli asili nido sancendo il diritto all’educazione e all’istruzione del bambino con disabilità anche nella fascia di età da 0 a 3 anni.


Più precisamente, la Legge n.104/92, individua l’integrazione scolastica come passaggio fondamentale per lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione.


A tale scopo, nei casi di maggiore gravità, è la legge stessa a stabilire “priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”.


Questo, in parole povere, significa che i minori con disabilità grave hanno diritto di priorità di accesso agli asili nido.


La legge stabilisce inoltre che gli enti locali e le ASL debbano provvedere all’adeguamento dell’organizzazione e del funzionamento degli asili nido alle esigenze dei bambini con disabilità, al fine di avviarne la socializzazione e l’integrazione, anche con il supporto di operatori, assistenti e personale docente specializzato.


È compito dei Comuni, quindi, provvedere alla costituzione di asili nido che perseguano le finalità inclusive del sistema formativo, mettendo al centro le esigenze di integrazione di tutti i bambini, nelle particolari ed individuali specificità.


Chiarito che l’inserimento all’asilo nido del bambino con disabilità deve essere garantito dal Comune che eroga il servizio, veniamo a concentraci sul costo di tale servizio.


Da più parti, si sente sostenere il diritto alla gratuità di tale frequenza.


Non è possibile dare una risposta


L’eventuale riduzione o esenzione dal pagamento della retta, infatti, sono oggetto di disciplina dei singoli comuni che, di regola, stabiliscono il tetto, le scadenze e altri parametri.


Di norma, per i bambini con disabilità, i Comuni sono tenuti, come visto, a prevedere la priorità nelle graduatorie nell’accesso al nido mente il pagamento della retta mensile dipenderà dall’Isee non essendo, in assoluto, dipendente dalla disabilità.

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

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