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Rifiuto cure da parte dell’Amministratore di sostegno: ci vuole un potere ad hoc

 

 

La Corte Costituzionale si pronuncia sul tema del rifiuto cure da parte dell’amministratore di sostegno e circoscrive il perimetro dei poteri che gli sono attribuiti dalla legge

 

 

Ringraziamo la Collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

 

Come è noto, la recente legge n. 217/2019 – cd testamento biologico – statuendo che ” nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge“, ha riconosciuto la possibilità per “ogni persona capace di agire” di rifiutare, in tutto o in parte .. qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso“.

In buona sostanza, è possibile rifiutare le cure, anche se siano essenziali per la propria sopravvivenza, purchè tale determinazione sia frutto di una libera e consapevole scelta del disponente, maggiorenne, capace di agire, di intendere e di volere.

 

E chi non sia più pienamente capace?

 

Se in passato abbia manifestato con le D.A.T. (disposizioni anticipate di trattamento) le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, queste determinazioni andranno rispettate ed il medico sarà vincolate ad esse, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte,  qualora  appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

 

 

Per chi non avesse disposto D.A.T., la legge ha statuito che il consenso o il rifiuto delle cure sia prestato dal rappresentante della persona incapace: il tutore per l’interdetto, colui che eserciti la responsabilità genitoriale per il minore, l’amministratore di sostegno.

Su tale previsione, tuttavia, si è aperta un’intensa discussione, giuridica e morale.

 

Rifiuto cure da parte dell’Amministratore di sostegno

 

Ci si è interrogati se un Amministratore di sostegno, eventualmente investito dal Giudice Tutelare, come spesso avviene, del potere di rappresentanza in materia di prestazione del consenso informato a trattamenti sanitari, potesse spingersi addirittura a rifiutare le cure per il proprio assistito, intervenendo – direttamente o indirettamente – nel percorso clinico e vitale dello stesso.

 

Il Giudice Tutelare di Pavia ha investito della problematica la Corte Costituzionale, sollevando la questione di legittimità della suddetta legge nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la  rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.

 

 

Nella fattispecie, all’amministratore di sostegno, già nominato circa una decina di anni prima, non era stata attribuita alcuna rappresentanza in ambito sanitario.


Dal momento che il beneficiario si era venuto a trovare successivamente in stato vegetativo, il tribunale di Pavia aveva ritenuto necessario integrare il decreto di nomina, prevedendo anche poteri in ambito sanitario.


Tuttavia, secondo il giudice tutelare, la norma di cui all’art. 3 della legge n. 219/2017, quando stabilisce che l’amministratore di sostegno con potere di rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, verrebbe a violare gli articoli 2, 3, 13, 32 della Costituzione.


In particolare, secondo il Giudice Tutelare, una tale ampia e generica attribuzione di poteri verrebbe ad attribuire all’ADS sostanzialmente “il potere di decidere della vita e della morte dell’amministrato”, senza alcun sindacato da parte dell’autorità giudiziaria.

 

 


Il rifiuto delle cure deve corrispondere alla volontà dell’interessato e dei suoi orientamenti esistenziali: l’amministratore non deve decidere né al posto dell’incapace, né per l’incapace, perché rifiutare le cure è un diritto personalissimo.


Quindi, o la decisione sul rifiuto delle cure risulti dalle DAT o, in mancanza, dovrà essere ricostruita la volontà dell’incapace, mediante indici sintomatici, di elementi presuntivi, o con l’audizione di conoscenti dell’interessato o strumenti di altra natura.


Secondo la Corte Costituzionale si tratta di un presupposto interpretativo erroneo.


Come abbiamo avuto già modo di affermare, (post) l’amministrazione di sostegno è un istituto “duttile, suscettibile di essere plasmato dal giudice sulla necessità del beneficiario” ed avente ad oggetto “le sole categorie di atti al cui compimento l’amministratore sia ritenuto idoneo”.


Del resto l’amministrazione di sostegno, a differenza dell’interdizione e dell’inabilitazione, si propone di “limitare nella minore misura possibile la capacità di agire della persona”.


Alla luce di tali precisazioni, si può affermare che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, le norme censurate non attribuiscono ex lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, anche il potere di esprimere o no il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale.


Nella logica del sistema dell’amministrazione di sostegno, è il giudice tutelare che, con il decreto di nomina, individua l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario.


Spetta al giudice, quindi, il compito di individuare e circoscrivere i poteri dell’amministratore, anche in ambito sanitario, nell’ottica di apprestare misure volte a garantire la migliore tutela della salute del beneficiario, tenendone pur sempre in conto la volontà, come espressamente prevede l’art. 3, comma 4, della legge n. 219 del 2017.

 

Rifiuto cure da parte dell’amministratore di sostegno: deve essere investito di specifico potere dal Giudice Tutelare

 

 


Le misure di tutela, quindi, non possono non essere dettate in base alle circostanze del caso di specie e, dunque, alla luce delle concrete condizioni di salute del beneficiario, dovendo il giudice tutelare affidare all’amministratore di sostegno poteri volti a prendersi cura del disabile, più o meno ampi in considerazione dello stato di salute in cui, al momento del conferimento dei poteri, questi versa.


La specifica valutazione del quadro clinico della persona, nell’ottica dell’attribuzione all’amministratore di poteri in ambito sanitario, tanto più deve essere effettuata allorché, in ragione della patologia riscontrata, potrebbe manifestarsi l’esigenza di prestare il consenso o il diniego a trattamenti sanitari di sostegno vitale: in tali casi, infatti, viene a incidersi profondamente su “diritti soggettivi personalissimi”, sicché la decisione del giudice circa il conferimento o no del potere di rifiutare tali cure non può non essere presa alla luce delle circostanze concrete, con riguardo allo stato di salute della persona con disabilità in quel dato momento considerato.


La ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, pertanto, richiede al giudice tutelare di modellare, anche in ambito sanitario, i poteri dell’amministratore sulle necessità concrete del beneficiario, stabilendone volta a volta l’estensione nel solo interesse del disabile.


L’adattamento dell’amministrazione di sostegno alle esigenze di ciascun beneficiario è, poi, ulteriormente garantito dalla possibilità di modificare i poteri conferiti all’amministratore anche in un momento successivo alla nomina, tenendo conto, ove mutassero le condizioni di salute, delle sopravvenute esigenze del beneficiario.


La Corte Costituzionale conclude arrivando a negare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita.


Le norme censurate, infatti, si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda.

 

La sentenza della Corte Costituzionale  n. 144 del 13.06.2019

 

 

 

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rifiuto cure da parte dell’amministratore di sostegno

Operazione sanitaria senza consenso? Illegittima anche se indispensabile per la salute del paziente ed andata a buon fine.

 

 

E’ possibile richiedere i danni per un’operazione sanitaria senza consenso del paziente, anche se utile, se non indispensabile per la sua salute? 

 

 

 

Libertà è partecipazione.
(Giorgio Gaber)

 

 

Partecipare.


Il diritto di dire la propria. Specie su decisioni che riguardano la propria pelle.


Fondamentale; anzi, inviolabile.


La libertà personale è inviolabile”: lo dice la nostra Costituzione (art. 13).
“nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”: art. 32 Cost.


La libertà di autodeterminarsi. Anche in ambito sanitario.


Fino alla fine. Senza eccezioni.


La recente legge, cd sul testamento biologico, ha sancito una volta di più il diritto di ogni persona “di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonche’ riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.


Ed ancora “nessun trattamento sanitario puo’ essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”.

 

 

operazione sanitaria senza consenso: facciamo il punto


La domanda di oggi è duplice:


– è possibile considerare legittimo un intervento sanitario salvifico, eseguito contro la volontà del paziente?

–  Se un’operazione dovesse essere cominciata col consenso del paziente, ma in corso d’opera fossero necessari ulteriori interventi, questi ultimi si potrebbero effettuare anche senza informare il diretto interessato?


Due sentenze, interessantissime, ci aiutano a fare il punto.


La prima, un po’ risalente ma sempre attuale, riguardava il caso di un giovane che, a seguito di incidente, veniva ricoverato in ospedale per gli interventi del caso.
Il ragazzo, lucidissimo, esponeva di professare una confessione religiosa che gli precludeva la possibilità di ricevere emotrasfusioni, per cui ammoniva i medici dicendo di operare come credevano, ma senza trasfusioni di sangue.


Di lì a qualche tempo dopo, imprevedibilmente, le condizioni del paziente peggioravano e, una volta persa coscienza, si rendevano essenziali per la sua vita stessa le trasfusioni di sangue rispetto alle quali aveva formulato il proprio divieto.


Nonostante ciò, per salvare il ragazzo, i medici decisero ugualmente di procedere al trattamento sanitario, che si rivelò salvifico, ma che – dopo la guarigione del giovane – causò una richiesta di risarcimento danni, per violazione del diritto costituzionale alla autodeterminazione.

I medici si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto delle istanze avversarie “ma come? Ti abbiamo salvato la vita e ti lamenti pure?”.


I giudici, con sentenza confermata dalla Cassazione, hanno respinto le richieste del ragazzo, ma la motivazione fa riflettere.


Il paziente non aveva dimostrato l’attualità del suo rifiuto al trattamento sanitario effettuato. Aveva accennato alla sua posizione in merito, manifestando il suo credo e la sua opposizione, ma lo aveva fatto quando stava “bene”, quando nulla lasciava presagire alla perdita di coscienza e al precipitare delle sue condizioni, quando la morte non bussava ancora alla sua porta.

Ecco, se lo avesse fatto in quelle condizioni, se avesse manifestato il suo “rifiuto informato”, con piena coscienza della situazione, allora nessuno avrebbe potuto imporgli un trattamento rigettato a ragion veduta.


Si segnala, al riguardo, una recente sentenza del Tribunale di Termini Imerese che, proprio in relazione ad un caso analogo, ha stabilito: “il consenso espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, è vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato… il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale. Va dunque riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita.
Più specificamente in tema di consenso informato nella trasfusione di sangue, non può non rilevarsi la peculiarità della fattispecie in cui sia il Testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, a negare il consenso alla terapia trasfusionale, essendo in tal caso il medico obbligato alla desistenza da tale terapia posto che, in base a principio personalistico, ogni individuo ha il diritto di scegliere tra la salvezza del corpo e la salvezza dell’anima.

 

 

Un altra ipotesi, parzialmente differente, è quella in cui un soggetto si sottoponga volontariamente ad un intervento chirurgico, ma poi, in corso d’opera, venga eseguito un trattamento sanitario, diverso ed ulteriore rispetto a quello previsto, a fronte dell’opportunità di meglio tutelare la salute del paziente.


Ci occupiamo di una fattispecie in cui ad una donna, ricoverata per togliere una cisti alla milza, veniva espiantato totalmente tale organo, avendo i sanitari ritenuto, a ragione, che tale operazione sarebbe stata assai più indicata per le condizioni della paziente.


A fronte di un dolore post operatorio, acuto e continuo, alla signora veniva spiegato quanto accaduto, che l’intervento effettuato era il migliore possibile per lei, che non sarebbe stato opportuno rimandarlo, in attesa di raccogliere il suo consenso.


Non la pensava così la paziente, che adiva il Tribunale chiedendo il risarcimento dei danni.


La Cassazione, con una sentenza recentissima, ha riconosciuto i buoni diritti della signora.


Nessun trattamento sanitario può essere eseguito senza il consenso libero ed informato di chi lo debba subire.


Non possono rilevare, ai fini dell’esclusione della responsabilità del medico (e della struttura sanitaria), l’assenza di prova che la paziente, in presenza di tempestiva e idonea informazione, si sarebbe egualmente sottoposta all’intervento, nonchè il carattere “necessitato” dell’intervento eseguito .


Accanto alla lesione del diritto alla salute, infatti, va affiancata la “lesione del diritto all’autodeterminazione terapeutica in sè considerato, rispetto al quale il carattere necessitato dell’intervento e la sua corretta esecuzione restano circostanze prive di rilievo”.


Difatti, “in tema di attività medico-chirurgica, è risarcibile il danno cagionato dalla mancata acquisizione del consenso informato del paziente in ordine all’esecuzione di un intervento chirurgico, ancorchè esso apparisse, “ex ante”, necessitato sul piano terapeutico e sia pure risultato, “ex post”, integralmente risolutivo della patologia lamentata, integrando comunque tale omissione dell’informazione una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all’espletamento dell’atto medico e di beneficiare della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall’esito favorevole dell’intervento“.

 


Quando va riconosciuto il risarcimento del danno?


la violazione “dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori – anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione – a condizione che sia allegata e provata, da parte dell’attore, l’esistenza di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto fondamentale alla autodeterminazione in sè considerato


Come può essere liquidato il danno?


il danno da lesione del diritto all’informazione può essere costituito, “eventualmente, dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene ai fini terapeutici, parti del corpo o la funzionalità di esse: poichè tale diminuzione si sarebbe potuta verificare solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa, si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno-conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona

 

 

 

 

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operazione sanitaria senza consenso

Pagamento retta casa di riposo: no a criteri difformi da ISEE

Pagamento retta casa di riposo: non sono ammessi calcoli di reddito non conformi alle previsioni ISEE.

Un grazie alla collega Avv. Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

È illegittima la scelta dei Comuni di determinare la quota della propria compartecipazione alla retta relativa al ricovero di una persona con disabilità facendo riferimento a parametri economici ulteriori rispetto a quelli che già rientrano nel calcolo dell’Isee.

Questo è quanto ha stabilito il TAR Veneto con la sentenza n. 303/2019.

La fattispecie riguardava una persona con disabilità in condizione di handicap grave ed invalida al 100% che, tramite i servizi socio-sanitari locali, era stata inserita presso una comunità alloggio per poi essere trasferita, a causa dell’aggravarsi della sua condizione e dell’aumento del bisogno assistenziale, in una RSA.

retta casa di riposo

Se inizialmente il Comune aveva disposto l’integrazione parziale della retta, con successivo provvedimento aveva comunicato la chiusura del contributo economico motivando il tutto sulla base dell’assunto che “dal modello ISEE 2018” sarebbero risultati “provvidenze e disponibilità di beni mobili che gli permettono di provvedere autonomamente al pagamento della retta alberghiera per l’ospitalità presso la RSA.

Occorre precisare, infatti, che nel frattempo la persona con disabilità aveva ereditato dal padre la quota di 1/6 del patrimonio mobiliare ed immobiliare motivo per cui il suo ISEE nel 2018 era passato da Euro 1.195,13 ad Euro 11.324,27.

Ai sensi del regolamento comunale impugnato, quindi, dal 1 giugno 2018 veniva disposta la chiusura del contributo in favore dell’utente “essendo questi in grado di provvedervi autonomamente senza pregiudicare la sua permanenza in RSA.”.

Pertanto il Comune, che prima si era accollato parte della retta, viene ad azzerare la propria quota di compartecipazione accollando in toto all’utente il costo della retta di residenzialità.

calcolo isee casa di riposo
pagamento retta casa di riposo: no a criteri avulsi da Isee

Il TAR Veneto, con la sentenza in commento, ha riconosciuto che il Regolamento del Comune sia illegittimo nella parte in cui contiene criteri avulsi dall’ISEE, in contrasto con la normativa in materia ed, in particolare, poichè:

  • conteggia nelle disponibilità economiche del disabile tutti i beni mobili, tra le quali le somme depositate sul conto corrente che, invece, sono già considerate come componente di calcolo dell’ISEE, secondo i parametri stabiliti dal DPCM n. 159/2013;
  • conteggia in toto nelle disponibilità economiche del disabile anche le somme riconosciute a titolo di pensione di invalidità civile e indennità di accompagnamento, che, invece, l’art. 2-sexies del Decreto Legge n. 42/2016 esclude dal calcolo dell’ISEE;
  • determina in maniera del tutto astratta, nella misura di 150 euro mensili l’importo forfettario per quelle che vengono definite “piccole spese personali”, senza riconoscere, invece, la possibilità di considerare anche le spese effettivamente sostenute dalla persona con disabilità

Alla luce di quanto esposto è stata ritenuta ricorrente l’illegittimità del regolamento del Comune (e, quindi, del provvedimento di chiusura del contributo comunale che ne costituisce attuazione) nella parte in cui l’ente, “se pure ha tenuto conto dell’ISEE nella fissazione del tetto per l’accesso alla contribuzione, ha, poi, individuato i criteri per la determinazione dell’entità del contributo comunale (e, quindi, per differenza, della parte di retta che resta a carico del disabile) in maniera del tutto avulsa dall’ISEE, in contrasto con il quadro normativo di riferimento”.

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Responsabilità medica per mancata diagnosi malattia mortale: quando e quali danni risarcibili?

Responsabilità medica per mancata diagnosi malattia mortale: il punto della Cassazione 2019.


È compito del medico prolungare la vita e non è suo compito prolungare l’atto della morte.”
Barone Thomas Jeeves Horder

Oggi ci occupiamo di verificare l’ipotesi in cui l’evento morte sia non già prolungato ma anticipato da una mancata diagnosi di malattia mortale da parte del sanitario.


Partiamo dal caso concreto, per scendere via via nei dettagli.


Una signora aveva effettuato un’ecografia al seno presso una struttura privata, dalla quale non era emerso alcun dato che potesse destare allarme, o, quanto meno, dall’esame dei noduli che presentava alla mammella non emergeva nessuna evidenza di carcinomi o masse tumorali.


Sulla scorta di tali risultati veniva consigliato alla paziente di effettuari controlli a distanza per monitorare l’evolversi del quadro sanitario.


Scrupolosamente la signora effettuava il controllo suggerito, appoggiandosi tuttavia ad un’altra struttura medica.


In tale sede, le veniva effettuata anche una biopsia, la cui necessità era stata esclusa alla prima visita, dalla quale purtroppo emergeva la natura maligna ed aggressiva della patologia, che la costrinse dapprima alla rimozione della mammella, quindi ad un severo ciclo di chemioterapia: rimedi tutti rivelatisi poi inutili a fronte dello stato avanzato della malattia.


La signora, con le ultime forze che aveva, promuoveva causa nei confronti dei sanitari e della struttura presso la quale aveva effettuato il primo controllo, lamentando che un esame diligente avrebbe diagnosticato tempestivamente il male e le avrebbe dato la possibilità di seguire per tempo la terapia indicata, con l’effetto – se non di evitare – di posticipare in misura consistente l’evento morte.


Nel giudizio si affiancarono i suoi familiari, lamentando anche un danno personale conseguito dall’amara vicenda, concretatosi non solo nella sofferenza per la sorte rimediata alla propria cara, ma anche per tutte le difficoltà scaturenti dalla necessità di dover assistere un malato terminale.


Nel corso del procedimento sortiva la morte della signora.

danni errore medico


La Cassazione, con pronuncia n. 8641/2019, fa il punto sul risarcimento danni da responsabilità medica per mancata diagnosi malattia mortale.


I passi salienti del procedimento.

1 La prova del nesso causale.


Come è possibile determinare che un’azione od omissione sanitaria possano aver determinato l’evento dannoso, nella fattispecie la morte del paziente?


In primis, andrà valutato se l’evento non si sarebbe verificato in assenza della condotta negligente del sanitario.


In secondo luogo, se l’evento non avrebbe avuto luogo in assenza di tale azione od omissione colposa, si dovrà valutarlo alla luce di una cosiddetta causalità adeguata, ossia dando rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ex ante, ossia prima dell’evento dannoso – del tutto inverosimili.


Può verificarsi, infatti, che assieme alla condotta sanitaria oggetto di doglianza, si innestino una serie di fatti sopravvenuti ed autonomi che possano incidere sull’evento dannoso poi verificatosi.


Tali circostanze, se dovessero rivestire le caratteristiche del caso fortuito e fossero idonee a causare da sole l’evento, reciderebbero il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività svolta, producendo effetti liberatori per il sanitario in quanto comportano la degradazione delle cause preesistenti al rango di mere occasioni.


Un concetto difficile?


Aggiungiamo un’ulteriore specificazione.


Mentre in ambito penale, per verificare l’addebitabilità dell’evento dannoso, e quindi del reato, all’azione od omissione del personale sanitario è necessario che la prova del nesso causale sia raggiunta “al di là di ogni ragionevole dubbio”, in sede civile vi è minor rigore, ed è sufficiente “il più probabile che non”, ossia basta che la soglia del 50% di possibilità che il fatto sia addebitabile alla condotta medica sia varcato anche di poco.


Ne consegue, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, che, essendo quest’ultimo tenuto a espletare l’attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso“.


È onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata.

Responsabilità medica per mancata diagnosi malattia mortale

2 La responsabilità per la morte di un paziente già affetto da male incurabile.


Mi fido solo dei medici che sbagliano le diagnosi infauste”, scriveva argutamente Roberto Gervaso.


Può avvenire, tuttavia, che la diagnosi fatale non venga effettuata, ma comunque poco si sarebbe potuto fare.


Che responsabilità vi sarà in questo caso?


La Cassazione ha ribadito che anticipare il decesso di una persona già destinata a morire perchè afflitta da una patologia, costituisce pur sempre una condotta legata da nesso di causalità rispetto all’evento morte, ed obbliga chi l’ha tenuta al risarcimento del danno.

Il nesso di causalità può esistere non solo in relazione al rapporto tra fatto ed evento morte, ma anche tra fatto ed accelerazione dell’evento morte; sicchè per escludere il nesso di causalità, in relazione alla lesione del bene “vita”, è necessario non solo che il fatto non abbia generato l’evento letale, ma anche che non l’abbia minimamente accelerato.


Diversamente si verserà in fattispecie di danno risarcibile, corrispondente – tra gli altri – al minor tempo di vita che si è potuto godere rispetto a quello preventivabile se la malattia fosse stata tempestivamente accertata e tamponata.


Non solo.


Potrebbe sembrare cinico, riduttivo e marginale, ma vivere meno comporta una diminuzione patrimoniale diretta per il paziente ed i propri familiari nell’ipotesi in cui egli avrebbe potuto continuare a lavorare e percepire reddito ancora per un po’ di tempo.

Anche di tale circostanza dovrà tenersi conto.


3 il danno da perdita di chance patito dal soggetto destinatario di omessa diagnosi di malattia terminale.


Ce ne eravamo già occupati in questo post, qui basti accennare al diritto per il soggetto malato di vivere appieno ed integrale consapevolezza la parte finale della propria vita, intraprendendo le scelte ritenute consequenziali alla coscienza dell’imminente fine e, circostanza non trascurabile, accedendo ai servizi ed alle cure volte a tamponare gli effetti dolorosi della malattia (vedi cure palliative).

danno morte parente


4 Quali danni per la perdita di una persona cara? Il danno da perdita parentale.


Quando, ahime, il soggetto direttamente leso dalla condotta negligente del sanitario non possa far valere in giudizio i propri diritti, per la morte intercorsa, potranno agire i parenti più prossimi.


Questi – in quanto eredi – potranno esercitare le medesime pretese risarcitorie vantate dal loro dante causa.


Ma è indubbio che perdere, ingiustamente, una persona cara sia un evento sconvolgente per i parenti più prossimi, i quali saranno anche direttamente danneggiati da tale circostanza, personalmente coinvolti.


Si tratta di un “danno che va al di là del crudo dolore che la morte in sè di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonchè nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” (Cass. civ. Sez. III Ord., n. 9196/2018)


Si parla al riguardo di “danno conseguente alla lesione del rapporto parentale” e deve essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva, indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto che non sia legato da un vincolo di consanguineità naturale.


La liquidazione del danno patito potrà essere “equitativa”, tenendo conto “dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti ed ogni altra circostanza allegata”.

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Insegnante di sostegno scuola paritaria: l’obbligo è come quella pubblica

Insegnante di sostegno scuola paritaria: non vi deve essere differenza con le garanzie offerte dalla scuola pubblica

Ringraziamo la Collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione civile, con sentenza n. 9966 del 20.04.2017, hanno affermato che, in tema di integrazione scolastica dell’alunno portatore di handicap, la scuola privata paritaria è obbligata a garantire all’alunno con disabilità le medesime prestazioni di sostegno che gli sarebbero assicurate presso la scuola statale, i cui costi sono solo parzialmente coperti dallo Stato a mezzo di contributi all’uopo stanziati.

Costituisce, quindi, discriminazione indiretta, imputabile all’amministrazione statale, l’inottemperanza all’obbligo di erogare le suddette provvidenze che determini una riduzione del servizio educativo ed assistenziale offerto dalla scuola paritaria.

insegnante sostegno scuola privata

Il caso esaminato dalla Corte riguardava un minore affetto da handicap in situazione di gravità che, nel passaggio da una scuola primaria statale ad una scuola privata paritaria, si era visto ridurre le ore di insegnamento scolastico di sostegno previste nel Piano educativo individualizzato (PEI).

Corre onere precisare che il minore aveva frequentato, fino all’anno precedente, la scuola statale primaria di primo grado usufruendo dell’insegnante di sostegno per 22 ore settimanali, di 2 ore di programmazione e di 12 ore con l’educatrice – assistente sociale.

In fase di passaggio alla scuola primaria paritaria parrocchiale, però, nonostante le rassicurazioni ricevute dal dirigente al momento dell’iscrizione, all’alunno erano state riconosciute solo 12 ore settimanali di sostegno, oltre a 3 messe a disposizione dalla scuola e a 12 ore con l’educatrice.

La Legge 10.03.2000, n. 62 “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione”, prevede che le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, debbano accogliere chiunque, accettandone il relativo progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap.

Nel sistema così delineato, la scuola statale e quella paritaria devono garantire i medesimi standard qualitativi: il sostegno scolastico degli alunni con disabilità è presupposto e condizione indefettibile per il riconoscimento, e il mantenimento, della parità della scuola privata “dovendo questa in ogni caso garantire al minore portatore di handicap le medesime condizioni di frequenza e di apprendimento assicurate dalla scuola statale, e quindi il sostegno specializzato nella misura necessaria, secondo quanto stabilito in sede di piano educativo individualizzato”.

insegnante sostegno
Insegnante sostegno scuola paritaria: eventuali limitazioni costituiscono discriminazione indiretta sanzionabile

La Corte ben evidenzia come il PEI obblighi l’amministrazione scolastica a garantire il supporto per il numero di ore programmato “senza lasciare ad essa il potere discrezionale di ridurne l’entità in ragione delle risorse disponibili”.

Pertanto, la condotta dell’amministrazione scolastica che non garantisca il sostegno pianificato “si risolve nella contrazione del diritto del disabile alla pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico, la quale, ove non accompagnata dalla corrispondente riduzione dell’offerta formativa per gli alunni normodotati, concretizza discriminazione indiretta”.

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Insegnante di sostegno scuola paritaria

Ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche: via libera se non pregiudica l’utilizzabilità degli spazi comuni

L’ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche può creare disagio e minor godimento degli spazi comuni, ma se non ne impedisce la loro utilizzabilità è legittima la sua installazione.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art 2 Costituzione.

Alziamoci in piedi alla parola della Costituzione.

Solidarietà: i padri costituenti hanno imposto a tutti i cittadini un sentimento, la solidarietà, volto a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.


“Roba che se non ci vogliamo bene ci danno una multa”, come salacemente arguiva il noto attore, Roberto Benigni.


Solidarietà, pertanto, risiede anche nell’eliminare le barriere architettoniche che pregiudicano l’inclusione della persona con disabilità.


Il problema è che tale obbligo, in contesti talvolta ristretti e animati come quelli condominiali, dove i diritti dei singoli e quelli comuni di tutti possono, se non collidere, trovare difficile composizione, anima, eccome, i consessi assembleari per scaturire – come se fossero la naturale destinazione – in ingarbugliati meandri giudiziari.

Ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche: dal diritto all’inclusione al pieno godimento degli altri condomini


Facciamo il punto della situazione? Proviamoci.


La partenza è variegata, come le circostanze che contraddistinguono ogni persona non autosufficiente: la vecchiaia debilitante, una malattia risalente, un infortunio paralizzante possono rendere angusto ed inaccessibile lo stesso ambiente dove risieda chi – suo malgrado – si trovi a far fronte ad una disabilità.


Specie se – tra l’androne di ingresso e l’appartamento di abitazione vi siano svariate rampe di scale.
In questo caso, spostarsi, accedere e recedere da casa può risultare impeditivo.


Un aiuto, concreto, può essere l’installazione di un ascensore.


Qui, tuttavia, entrano in gioco diversi fattori da prendere in considerazione: il decoro architettonico dell’edificio, la minorata ampiezza dei pianerottoli interessati dall’innovazione e delle scale coinvolte dall’opera, l’illuminazione deteriorata, il godimento degli spazi compresso, la riluttanza dei condomini a farsi carico di spese per loro non immediatamente necessarie ed indispensabili.


Cosa dice la legge.


Entrano in ballo molteplici discipline normative, codice civile e leggi ad hoc.
In primis, l’art. 1120 cc, a mente del quale “I condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell’articolo 1136 – maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio – possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto….le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche”.


Quindi, se l’installazione di un ascensore venisse approvata con voti che rappresentino più della metà dei millesimi di proprietà, nessun problema, purchè venga rispettata la norma di chiusura posta dal codice civile: sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.


E se non ci fosse la maggioranza? Oppure se nemmeno venisse dato ascolto alla richiesta del condomino che, trovandosi in condizioni di disabilità, faccia richiesta di installare il salvifico ascensore?


Vi è una normativa specifica, la Legge n. 13/1989, “Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, volta a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata.


E’ stabilito che “nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni – volte ad attuare le innovazioni negli dirette ad eliminare le barriere architettoniche – i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages”.

condominio persone con handicap


In buona sostanza, la persona con disabilità potrà procedere comunque all’esecuzione dell’opera richiesta, con spese a proprio integrale carico, fatta salva la possibilità per gli altri condomini di poterla utilizzare in futuro, purchè rimborsino quota parte delle spese di realizzazione e manutenzione dell’ascensore.


Pare si sia trovata la “quadra” e che problemi non possano sussistere a fronte della chiarezza della legge.


Non è così.


Le facoltà riconosciute alla persona con disabilità debbono comunque preservare alcune indicazioni dettate dal codice civile.
In particolare quelle stabilite dal già menzionato art. 1120 cc., che vieta le innovazioni lesive del decoro architettonico e comunque quelle che rendano parti dell’edificio inservibili all’uso o al godimento da parte degli altri condomini.


Inoltre, va richiamato un altro principio generale, vigente in materia di comunione: ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (1102 cc)


E’ incontestabile che, talora, l’installazione dell’ascensore possa comportare un’invasione di consistenti aree di proprietà condominiale e che, conseguentemente, possa limitare il pieno e pregresso utilizzo delle stesse da parte degli altri compartecipanti.


Ebbene, sul punto è intervenuta pochi giorni fa una sentenza della Corte di Cassazione che aiuta a fare chiarezza.


Il limite fissato dall’art. 1120 c.c. non si indentifica nel semplice disagio ovvero nel minor godimento che l’innovazione procuri al singolo condomino rispetto a quella goduta in precedenza, ma con l‘inutilizzabilità del bene secondo la sua normale destinazione.


L’installazione dell’ascensore nel vano scale che comporti la limitazione, per alcuni condomini, della originaria possibilità di utilizzazione delle scale e dell’andito occupati dall’impianto non rende l’innovazione lesiva del divieto richiamato dall’art. 1120 cc, anche se, se a fronte della minore utilizzabilità delle parti comuni, gli altri comproprietari non abbiano ricevuto alcun vantaggio compensativo. La sola riduzione dei gradini o l’occupazione dello spazio comune, disgiunta dall’accertamento dell’impossibilità di servirsi delle scale o dello spazio condominiale, o dal concreto apprezzamento della riduzione di luminosità alla porzione esclusiva, non consentono di ritenere l’opera in contrasto con il limite imposto dalla legge.

La sentenza: Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 29-11-2018) 12-03-2019, n. 7028

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Infermiere adibito ad OSS: è demansionamento

Infermiere adibito ad OSS: se è impiegato in modo sistematico per compiti che non rientrano tra le sue competenze e che non consentano allo stesso di svolgere in maniera prevalente le attività riferibili al proprio profilo professionale, vi è demansionamento illegittimo.

Un grazie alla Collega Stefania Cerasoli per il contributo.

Con la sentenza n. 1306/2017, il Tribunale di Brindisi ha condannato la locale azienda sanitaria per demansionamento.

Il caso riguardava un infermiere di un reparto di chirurgia vascolare che, a causa della carenza di personale OSS e OTA, denunciava di essere stato costretto in modo sistematico a svolgere mansioni di natura alberghiera non rientranti tra quelle di competenza infermieristica.

L’infermiere si rivolgeva, quindi, al Tribunale di Brindisi affinché venisse riconosciuto il suo diritto ad essere adibito allo svolgimento delle mansioni proprie della categoria professionale di appartenenza. Inoltre, avanzava la richiesta di risarcimento danni nei confronti dell’Azienda sanitaria, pari al 50% della retribuzione netta percepita durante gli otto anni di demansionamento.

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Infermiere adibito ad OSS: illegittimo se l’impiego è in pianta stabile o prevalente

Il Tribunale di Brindisi, con la sentenza in commento, nell’accogliere le richieste dell’infermiere, ha evidenziato come questa figura e quella dell’operatore socio sanitario debbano essere tenute distinte.

Secondo i giudici, pur in assenza di una vera e propria gerarchia, non si possono impiegare gli infermieri come OSS in quanto l’infermiere professionale svolge delle mansioni maggiormente qualificate e, pertanto, superiori, a quelle dell’Operatore Socio Sanitario.

Lo svolgimento da parte dell’infermiere dei compiti propri dell’Oss integra, pertanto, un demansionamento che, per quanto riguarda il lavoro pubblico, è pratica vietata dall’art. 52 del Decreto legislativo n.165/2001.

Di demansionamento, infatti, potrebbe parlarsi solo per brevi periodi di tempo e con carattere di occasionalità.

Infatti, è possibile modificare in peius le mansioni dell’infermiere solo qualora l’impiego sia di breve durata, rivesta carattere esclusivamente occasionale e consenta, in ogni caso, l’espletamento in modo prevalente e assorbente delle mansioni relative alla propria qualifica professionale.

Nel caso in esame era stato rilevato come, invece, il personale Oss nell’ospedale fosse carente e che adibire infermieri al compimento delle attività di natura igienico-domestico-alberghiero era pratica sistematica e non occasionale.

impiegare infermiere come oss

Per il Tribunale, quindi, doveva ritenersi provato “il dato della adibizione del ricorrente, in modo non isolato e tale da condizionare il pieno e satisfattivo svolgimento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, a mansioni inferiori”.

Da qui l’illegittimità del demansionamento.

Il Giudice ha inoltre condannato l’ASL a risarcire alla ricorrente, in virtù della sua anzianità lavorativa, della durata del demansionamento e della sua gravità, un importo corrispondente al 6% della retribuzione percepita negli ultimi 8 anni.

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Esclusione capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno

E’ legittimo un provvedimento di esclusione della capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno?

Ringraziamo per il contributo la Collega Stefania Cerasoli.

Il giudice tutelare del Tribunale di Ravenna aveva disposto, nel decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno in favore di B.E., le limitazioni e i divieti previsti dal codice civile nei confronti degli interdetti con riguardo alla capacità di donare e di testare.

Il beneficiario proponeva reclamo che veniva respinto e del caso veniva, quindi, investita la Corte di Cassazione.


In particolare, secondo il ricorrente tale limitazione costituiva violazione degli artt. 407 e 411 c.c., secondo i quali sarebbe esclusa la possibilità di estendere d’ufficio al beneficiario dell’amministrazione di sostegno le misure dettate per l’interdetto e per l’inabilitato.


Una siffatta estensione, difatti, avrebbe comportato – secondo il ricorrente – lo snaturamento della funzione protettiva dell’istituto, tendenzialmente volto alla conservazione della capacità di agire.


La censura è stata tuttavia respinta dalla Suprema Corte, secondo cui la ratio dell’amministrazione di sostegno deve essere individuata nell’esigenza di offrire, a chi si trovi nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità d’agire.

divieto testamento amministratore di sostegno
Esclusione capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno: sì se è a protezione degli interessi del soggetto tutelato


Del resto, è noto come la misura dell’amministrazione di sostegno sia caratterizzata da una maggiore flessibilità rispetto agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, in quanto maggiormente idonea ad adeguarsi alle specifiche esigenze del soggetto protetto e rispetto alle quali se ne determina l’ambito di applicazione.
Per cui nell’escludere la possibilità di estendere in via analogica al beneficiario dell’amministrazione di sostegno l’incapacità prevista dall’art. 591 comma 2 c.c. per l’interdetto, occorre tuttavia ammettere che il giudice tutelare possa imporre al beneficiario, mediante il provvedimento di nomina dell’amministratore o successivamente, una limitazione della capacità di testare o di fare donazioni laddove “le condizioni psicofisiche dell’interessato appaiano compromesse in misura tale da indurre a ritenere che egli non sia in grado di esprimere una libera e consapevole volontà testamentaria.


E’ difatti vero che, “in presenza di situazioni di eccezionale gravità, tali da indurre a ritenere che il processo di formazione e manifestazione della volontà possa andare incontro a turbamenti per l’incidenza di fattori endogeni o esterni, l’esclusione a priori della capacità di testare o donare può rivelarsi uno strumento di tutela efficace non solo nell’interesse di coloro che aspirano alla successione, ma anche dello stesso beneficiario, potenzialmente esposto a pressioni e condizionamenti.”

donazione amministratore di sostegno

Ad opinione dello scrivente, va sottolineata l’eccezionalità della limitazione: non è possibile parlare, infatti, di tutela di interessi successori in capo ai potenziali eredi.
Il soggetto da tutelare con la misura in esame è sempre e solo il beneficiario di amministratore di sostegno.

Gli eredi che dovessero essere lesi da disposizioni testamentarie viziate da incapacità mentale potranno sempre far ricorso alle ordinarie e specifiche azioni loro riconosciute dalla legge in materia (art 591 cc).

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 12460 del 21.05.2018

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Responsabilità sanitaria: la riforma Gelli si applica ai giudizi civili in corso?

Responsabilità sanitaria: la Legge Gelli introduce una riforma sostanziale e non procedurale, per cui deve essere applicata anche ai giudizi risarcitori in corso.

Sintetizziamo la riforma.


La cd “legge Gelli” ha (ri)definito l’ambito di responsabilità sanitaria, tanto in sede penale quanto in quella civile.


Per quanto attiene ai giudizi volti a chiedere il risarcimento del danno per “colpa sanitaria”, la legge, in buona sostanza, ha sancito una responsabilità contrattuale della struttura che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, mentre ha designato come “extracontrattuale” la responsabilità del professionista stesso.


Che significa?


Molto, in termini probatori e di tempistica per azionare il diritto risarcitorio.

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responsabilità sanitaria in ambito civile: la riforma si applica ai procedimenti in corso?


La responsabilità contrattuale comporta per la struttura sanitaria l’obbligo di dover rispondere dei fatti illeciti compiuti da personale che abbia in essa operato, a qualsiasi titolo, in un termine di prescrizione di dieci anni e con l’onere, per discolparsi, di provare la correttezza del proprio adempimento o della non addebitabilità dell’eventuale inadempimento, rimandendo in capo al danneggiato il solo compito di provare il titolo da cui è derivata l’obbligazione (ad es. contratto di ricovero).


La responsabilità extracontrattuale, cui sono soggetti i medici e comunque gli altri esercenti la professione sanitaria (infermieri, Oss..) – a meno che non sia intervenuto un rapporto contrattuale diretto col paziente – contempla tempi di prescrizione più brevi, 5 anni, e l’onere della prova in capo al danneggiato, il quale pertanto dovrà dimostrare, oltre al titolo che ha dato luogo all’obbligazione, anche la colpa del sanitario ed il nesso causale tra l’attività (o la mancata attività) effettuata ed il danno subito.


Il sanitario, inoltre, come previsto dal codice civile per quanto attiene la responsabilità di qualsiasi prestatore d’opera (2236 cc) non risponderà che per dolo o colpa grave nei casi di particolare difficoltà tecnica.


Bene, in generale la legge dispone solo per l‘avvenire, per cui la riforma in linea di massima non ha effetto retroattivo e si applica a fatti sorti in seguito alla sua promulgazione.


Una recente sentenza del Tribunale di Latina, ( sentenza 27 novembre 2018) ha statuito che la riforma – almeno per quanto attiene gli aspetti civilisti appena accennati – trova applicazione anche per i procedimenti in corso.

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La valutazione a cui è pervenuto il Giudice Laziale riposa sulla valutazione ermeneutica della nuova normativa.


La Legge Gelli, infatti, avrebbe sciolto un annoso contrasto giurisprudenziale circa la configurazione – se contrattuale o extracontrattuale – della responsabilità del professionista sanitario, deponendo per la seconda.


In tal guisa, non già si dovrebbe parlare di “riforma”, bensì di interpretazione legislativa della natura di tale responsabilità.


La normativa sopravvenuta, inoltre, secondo il Tribunale di Latina, “è di carattere sostanziale” e non processuale, per cui non imporrebbe nuovi ed inapplicabili vincoli di rito.


Va segnalato che la pronuncia in commento è tra le prime a disporre relativamente a questioni analoghe, dopo l’introduzione della Legge Gelli, almeno per quanto attiene l’applicabilità civile retroattiva della riforma.


Alcuni provvedimenti, di altri giudici di merito, erano arrivati, tuttavia, a conclusioni differenti, volti piuttosto a sottolineare come per i casi verificatisi in precedenza all’entrata in vigore della novella, dovesse essere applicata non già tale legge, ma le derivazioni interpretative delle norme all’epoca vigenti, in particolar modo il codice civile.


Senza dubbio la Corte Suprema avrà modo di sciogliere il contrasto ed avremo definitiva certezza.

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responsabilità sanitaria

Congedo straordinario per assistenza a genitore non convivente?

Congedo straordinario per assistenza a genitore non convivente: costituzionalmente illegittima la norma che lo preclude

Anche il figlio non convivente può godere del congedo straordinario
per assistere il genitore malato.

a cura dell’ Avv. Stefania Cerasoli

Un agente penitenziario aveva chiesto di poter usufruire del congedo straordinario retribuito per poter assistere il padre gravemente malato ai sensi dell’art. 42 del D.lgs. 26.03.2001 n. 151Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53

Il Ministero della giustizia, dopo avere riscontrato che il lavoratore e il genitore da assistere non convivevano, rigettava l’istanza.


L’agente presentava, quindi, ricorso avanti il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione III, che sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del D.lgs. 26.03.2001 n. 151, nella parte in cui richiede, ai fini dell’ottenimento del congedo straordinario per l’assistenza a genitore con handicap in situazione di gravità accertata, la preesistente convivenza dei figli con il soggetto da assistere.


In particolare, secondo il Tribunale lombardo, in questo modo si verrebbe a violare “il combinato disposto di cui agli artt. 2, 29 e 32 della Costituzione” che affida a ogni componente della famiglia il compito di assistere il familiare in condizione di disabilità. Al “dovere di solidarietà, che vincola comunitariamente ogni congiunto” corrisponde il “il diritto del singolo di provvedere all’assistenza materiale e morale degli altri membri, ed in particolare di quelli più deboli e non autosufficienti, secondo le proprie infungibili capacità”.

congedo parentale non convivente


La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 232 del 7 dicembre 2018, in primo luogo evidenzia come il requisito della convivenza ex ante, inteso come criterio prioritario per l’identificazione dei beneficiari del congedo straordinario per l’assistenza a genitore con handicap in situazione di gravità accertata, si riveli idoneo a garantire, in linea tendenziale, il miglior interesse del familiare con disabilità.


La stessa Corte, però, afferma che tale presupposto non può assurgere a criterio indefettibile ed esclusivo, così da precludere al figlio, che intende convivere ex post, di adempiere in via sussidiaria e residuale i doveri di cura e di assistenza, anche quando nessun altro familiare convivente, pur di grado più lontano, possa farsene carico.


Tale preclusione è illegittima in quanto sacrifica in maniera irragionevole e sproporzionata l’effettività dell’assistenza e dell’integrazione del disabile nell’ambito della famiglia.


In altre parole, porre la preesistente convivenza come “prerequisito” indispensabile per il godimento del beneficio determinerebbe “una visione statica e presuntiva dell’organizzazione familiare, che può rivelarsi incompatibile con la necessità di prendersi cura, dall’oggi al domani, di una persona divenuta gravemente disabile”.


Secondo la Corte, inoltre, tale visione risulterebbe anche non coerente con il “moderno dispiegarsi dell’esistenza umana”.


Le necessità che conducono i figli ad allontanarsi dal nucleo familiare di origine non possono “costituire ostacolo alla concreta attuazione dell’inderogabile principio solidaristico di cui all’art. 2 Costituzione” giacché è proprio l’assenza di convivenza a imporre al figlio “di richiedere il congedo straordinario, non avendo altro modo di prestare assistenza continuativa al genitore disabile che si trovi nella situazione di non avere nessun altro famigliare in grado di fornire adeguato sostegno”.


La disposizione censurata, inoltre, nel subordinare la concessione del congedo straordinario al requisito della convivenza, si porrebbe «in contrasto con il combinato disposto di cui agli artt. 2 e 3 Costituzione».

congedo assistenza genitore non autosufficiente
Congedo straordinario per assistenza a genitore non convivente: illegittima l’esclusione. 

La normativa in esame, infatti, verrebbe a richiedere un “requisito ulteriore rispetto a quanto previsto dalla disciplina di altri istituti aventi la medesima finalità assistenziale” come i permessi disciplinati dall’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che prescindono dal presupposto della convivenza.


Sarebbe irragionevole una disciplina difforme “di istituti preordinati alla tutela dei medesimi valori costituzionali, attuati attraverso il medesimo strumento solidaristico della famiglia” e tale irragionevolezza sarebbe palese nel caso di specie, che vede il ricorrente, pur beneficiario dei permessi di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, escluso dal congedo straordinario in ragione della mancanza di una convivenza preesistente.


Alla luce di queste considerazioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma V, del D.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non annovera tra i beneficiari del congedo straordinario ivi previsto, e alle condizioni stabilite dalla legge, il figlio che, al momento della presentazione della richiesta, ancora non conviva con il genitore in situazione di disabilità grave, ma che tale convivenza successivamente instauri, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine determinato dalla legge.

Interessante è, infine, la considerazione che la Corte costituzionale fa nella parte finale della sentenza.


Nella disciplina di sostegno alle famiglie che si prendono cura del familiare con disabilità convergono non soltanto i valori della solidarietà familiare, ma anche “un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale” e impongono l’interrelazione e l’integrazionetra i precetti in cui quei valori trovano espressione e tutela”.
Il tutto in linea:
con la Carta sociale europea che, all’art. 15, garantisce alla persona con disabilità “l’effettivo esercizio del diritto all’autonomia, all’integrazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità”;
-con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, all’art. 26, “tutela il diritto delle persone -con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”;
-con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità che, nel preambolo, prescrive di assicurare alle famiglie, “nucleo naturale e fondamentale della società”, la protezione e l’assistenza indispensabili per “contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità”.

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la GUIDA ALL’INGRESSO IN CASA DI RIPOSO

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