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Autore: Studio Legale Berto

Assunzioni Scuola: legge di riforma e piano straordinario di assunzioni

Assunzioni Scuola.
Nella Gazzetta ufficiale del 15 luglio 2015 è stata pubblicata la legge di riforma della scuola (L. 107/2015): che così è entrata ufficialmente in vigore.
Una delle principali novità concerne l’avvio, per l’a.s. 2015/2016, di un piano straordinario di assunzioni di docenti a tempo indeterminato, rivolto a vincitori ed idonei del concorso del 2012 e agli iscritti nelle graduatorie ad esaurimento.
Il piano è avviato solo dopo aver preventivamente proceduto, per lo stesso anno scolastico, alle ordinarie operazioni di immissione in ruolo effettuate attingendo per il 50% alle graduatorie dei concorsi e per il 50% alle graduatorie ad esaurimento ed è finalizzato, anzitutto, a coprire i posti comuni e di sostegno rimasti vacanti e disponibili all’esito delle precedenti immissioni.
Inoltre, per lo stesso a.s., il MIUR è autorizzato a coprire ulteriori posti destinati al potenziamento dell’offerta formativa e alla copertura delle supplenze temporanee fino a 10 giorni nella scuola primaria e secondaria, e ulteriori posti di potenziamento per il sostegno. Dall’a.s. 2016/2017, questi posti confluiranno nell’organico dell’autonomia e ne costituiranno i posti per il potenziamento.
La prima fase del piano straordinario si conclude con l’assunzione entro il 15 settembre 2015.
Per le fasi successive, è necessario presentare domanda di assunzione, esprimere l’ordine di preferenza fra tutte le province, nonchè, se si è in possesso della specializzazione, fra posti di sostegno e posti comuni. La decorrenza giuridica delle assunzioni è il 1° settembre 2015, mentre la decorrenza economica è dalla presa di servizio presso la sede assegnata, che varia fra il termine della relativa fase (se i destinatari non sono impegnati in contratti di supplenza o sono titolari di supplenze brevi e saltuarie), il 1° luglio 2016 (se i destinatari sono titolari di supplenze fino al termine delle attività didattiche) e il 1° settembre 2016 (se i destinatari sono impegnati in supplenze annuali) (art. 1, co. 95-104).

Le migliorie del bene concesso in comodato alla coppia convivente non devono essere rimborsate

Una coppia decide di andare a convivere nell’appartamento di proprietà del padre di lei, concesso in comodato.
Il compagno, per rendere l’immobile più conforme alle loro esigenze e desideri, investe una cospicua somma di denaro per apportarvi le migliorie del caso.
Dopo qualche mese, a seguito di una crisi relazionale, l’uomo interrompe il rapporto e se ne va di casa. A quel punto vuole essere rimborsato per i soldi impiegati nelle opere di un appartamento non suo e, a fronte del diniego del mancato suocero, lo cita in giudizio.

Ebbene, la Cassazione (Sez. III, Sent. 30-06-2015, n. 13339) ha stabilito che nessuna somma debba essere restituita, in quanto il contratto di comodato – lo si ricorda, essenzialmente gratuito – impone il rimborso a favore del comodatario, ossia di colui il quale riceve in prestito il bene, delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, mentre sono escluse quelle impiegate per servirsene.

E’ stata esclusa, pertanto, la possibilità che possa spettare un qualche rimborso (neppure nella forma dell’indennità o dell’indennizzo) per esborsi che, ancorchè abbiano determinato un miglioramento, non siano risultati necessari per far fronte ad improcrastinabili esigenze di conservazione della cosa.

E’ stato, infatti, notato che “”il comodatario che, al fine di utilizzare la cosa, debba affrontare spese di manutenzione può liberamente scegliere se provvedervi o meno, ma, se decide di affrontarle, lo fa nel suo esclusivo interesse e non può, conseguentemente, pretenderne il rimborso dal comodante.

Ne consegue che, se un genitore concede un immobile in comodato per l’abitazione della costituenda famiglia, egli non è obbligato al rimborso delle spese, non necessarie nè urgenti, sostenute da uno dei coniugi comodatari durante la convivenza familiare per la migliore sistemazione dell’abitazione coniugale”

Convivenza more uxorio: se l’ex chiede il rimborso degli importi corrisposti durante la coabitazione

Quando finisce un amore… i problemi più rilevanti, oltre a rimettere a posto i cocci del cuore, sono quelli attinenti alla gestione/spartizione/rimborso di quanto gli ex partner si siano attribuiti durante la convivenza.

Mentre, da un lato, è pacifico che se un acquisto è stato eseguito da entrambi i compagni, il bene che ne ha formato oggetto apparterrà ad entrambi e per esso varranno le regole contemplate in materia di comunione, in particolare quelle attinenti l’amministrazione e lo scioglimento della comunione, altrettanta certezza non v’è con riferimento a quei beni, in particolar modo il denaro, reciprocamente elargiti nell’ambito del menage familiare.

Quando la coppia “scoppia”, la tendenza è quella di dimenticare ciò che è stato, ossia che a monte vi era un’unione, un progetto familiare, in virtù del quale chi dava qualcosa non lo faceva per vederselo ritornare, ma per fornire il proprio apporto ad un percorso da compiere assieme al proprio compagno.

Ecco allora che le elargizioni, anche se significative, possono essere lette ed inquadrate nel dovere di solidarietà che presiede qualsiasi consorzio familiare e, in quanto tali, non possono essere oggetto di restituzione.

Non solo.

Per poter arguire che un qualcosa è stato dato per essere restituito è imprescindibile che chi rivendichi di essere creditore dimostri il titolo, il motivo, il contratto per cui si considera tale.

A tale approdo è giunta la Corte di Cassazione, in una recente pronuncia (n. 9864/2014) che ha esaminato il caso in cui “lei” aveva consegnato a “lui” delle somme di denaro, nel mentre era in corso la loro convivenza.
Ebbene, anche a fronte della pacifica ricorrenza della prova di tale erogazione, i giudici supremi hanno ritenuto che incombesse sull’asserita creditrice l’onere di dimostrare – tipico di chi evochi una pretesa in giudizio – che quella somma fosse stata corrisposta a titolo di mutuo, sì da giustificare l’obbligo della restituzione.

“L’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo” per gli ermellini “è, ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 1, tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna ma anche il titolo della stessa, da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; l’esistenza di un contratto di mutuo, infatti, non può essere desunta dalla mera consegna di assegni bancari o somme di denaro…

In altre parole, la circostanza che il convenuto ammetta di aver ricevuto una somma di denaro dall’attore, ma neghi che ciò sia avvenuto a titolo di mutuo, non costituisce una eccezione in senso sostanziale, sì da invertire l’onere della prova; con la conseguenza, pertanto, che rimane fermo a carico dell’attore l’onere di dimostrare che la consegna del denaro è avvenuta in base ad un titolo (mutuo) che ne imponga la restituzione”.
In difetto, ben potrà essere argomentato che la corresponsione sia stata effettuata quale adempimento spontaneo di un’obbligazione naturale, scaturente dal vincolo affettivo, ed in quanto tale irripetibile.

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L’assegno di mantenimento può essere modificato?

L’assegno di mantenimento può essere modificato?

L’art. 710 del codice di procedura civile contempla la possibilità di richiedere “la modificazione dei provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole conseguenti la separazione”.

Si noti bene: l’assegno di mantenimento può essere modificato  e quindi anche i provvedimenti– nell’ambito dei rapporti patrimoniali tra i coniugi – solo se i motivi sono sopravvenuti rispetto a quelli contemplati ed esistenti al momento della separazione.

Infatti, l’art. 156 cc. stabilisce espressamente che il giudice, su istanza di parte, può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti attinenti le condizioni (economiche) di separazione “qualora sopravvengano giustificati motivi”.

L’assegno di mantenimento può essere modificato anche in caso di separazione consensuale.

La Giurisprudenza più recente della Suprema Corte ha espressamente esteso l’applicabilità della norma sopra citata anche a tale fattispecie di separazione.

In particolare, la Sentenza n. 8839 del 22.01.2015, ha cassato la pronuncia di merito che modificava le condizioni contemplate nel decreto di omologa di separazione consensuale tra coniugi, in assenza di fatti sopravvenuti giustificativi di un nuovo assetto tra le parti.

assegno di mantenimento

 

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Assegno di mantenimento e assegnazione casa

 Revoca dell’assegnazione casa coniugale?Legittimo riconsiderare l’assegno di mantenimento.

In sede di separazione, il Tribunale può disporre l’assegnazione della casa familiare ad uno dei due coniugi, tenendo conto prioritariamente dell’interesse dei figli. Recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, (Cass. civ. Sez. I, Sentenza n. 28001 del 16/12/2013) ha evidenziato che tale misura è finalizzata unicamente alla tutela della prole e non può essere disposta come se fosse una componente dell’assegno di mantenimento. Nel caso, tuttavia, in cui i figli diventino economicamente autosufficienti, il coniuge proprietario della casa può chiederne il godimento e la conseguente revoca della concessione del diritto di abitazione, ma, in tal caso, è necessario che il Giudice valuti, una volta in tal modo modificato l’equilibrio originariamente stabilito fra le parti e venuta meno una delle poste attive in favore di un coniuge, se sia ancora congrua la misura dell’assegno di mantenimento originariamente disposto.

Insidia stradale: la pubblica amministrazione è responsabile, salvo caso fortuito.

Insidia stradale: la pubblica amministrazione è responsabile, salvo caso fortuito.

Con riferimento alla responsabilità della Pubblica Amministrazione sui beni di sua proprietà, ivi comprese le strade,  l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c.(responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia), dei sinistri causati dalla particolare conformazione della strada o delle sue pertinenze. Tale responsabilità ha carattere oggettivo e perché possa configurarsi in concreto è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta della P. A. custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza da parte della stessa. Funzione della norma è chiaramente quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo, pertanto, considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d’uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Ne consegue che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito (da intendersi nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato), fattore che attiene non già ad un comportamento del custode (che é irrilevante) bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile, non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità. Il caso fortuito, in particolare,  può consistere, sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti nemmeno con l’uso dell’ordinaria diligenza, sia nella condotta della stessa vittima, consistita nell’omissione delle normali cautele esigibili in situazioni analoghe e che, attraverso l’impropria utilizzazione del bene pubblico, abbia determinato l’interruzione del nesso eziologico tra lo stesso bene in custodia ed il danno ( L’attore che agisce per il riconoscimento del danno ha, quindi, l’onere di provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, mentre il custode convenuto, per liberarsi dalla sua responsabilità, deve provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale (Cassazione civile , sez. III, sentenza 18.02.2014 n° 3793, Cass. 19.2.2008 n. 4279; Cass.19.5.2011 n. 1106; v. anche Cass. 11.3.2011 n. 5910).

il conferimento di incarico di responsabile di struttura complessa secondo la riforma Balduzzi

La disciplina degli incarichi dirigenziali nel comparto della sanità è stata caratterizzata, sin dalle sue origini, dalla presenza di rilevanti tratti di specialità rispetto alla normativa racchiusa nel decreto legislativo 165/2001, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”
La disciplina in oggetto si è, infatti, sin dai suoi esordi caratterizzata per la rilevanza assegnata all’elemento della “fiducia” in sede di scelta dei dirigenti, in ossequio al paradigma aziendalistico accolto dalle riforme degli anni Novanta.
Dietro quella stagione di riforme vi era la ferma convinzione che il settore pubblico potesse essere migliorato trasponendovi concetti imprenditoriali propri del settore privato: e ciò avrebbe dovuto innalzare il livello di efficacia e di efficienza dei servizi, deburocratizzandoli e depoliticizzandoli.
Uno dei primi terreni di sperimentazione fu proprio il settore della sanità, dove, non a caso, si è parlato di aziendalizzazione del servizio sanitario.
Tale impianto aziendalistico postulava il riconoscimento in capo al direttore generale di amplissimi poteri di gestione, tramite l’intestazione al vertice aziendale delle prerogative riferite, tra l’altro, all’adozione dell’atto aziendale, all’individuazione degli uffici ed alla nomina dei relativi responsabili.
Il riconoscimento di tali ampi poteri si giustificava con la necessità di rendere effettiva, e concretamente azionabile, la responsabilità manageriale del direttore generale .
Anche per le nomine aziendali si affermò il convincimento che la responsabilità del direttore generale richiedesse per essere attivata un certo margine di discrezionalità nella scelta dei più stretti collaboratori sanitari.
Per la verità, le scelte inizialmente compiute dal d.lgs 502/1992 in parte contraddicevano questa idea: il potere riconosciuto in capo al direttore generale nella nomina dei dirigenti di secondo livello (oggi di struttura complessa) veniva, infatti, circondato da garanzie di trasparenza e di imparzialità tali da renderlo sostanzialmente vincolato agli esiti di vere e proprie procedure concorsuali.
Nella sua versione originaria l’art. 15, comma 3, d.lgs 502/1992 prevedeva, infatti, per la nomina di dirigenti di secondo livello un procedimento selettivo di tipo tradizionale, articolato nelle diverse fasi della pubblicazione dell’avviso nella Gazzetta Ufficiale, della designazione della commissione di esperti e della formazione della graduatoria di merito, cui faceva seguito la designazione del responsabile ad opera del direttore generale.
Tale modello di designazione venne, tuttavia, ben presto giudicato poco coerente con la logica manageriale sottesa al d. lgs 502/1992.
Per questo motivo il testo dell’art. 15 d. lgs 502/1992 venne in parte qua modificato già nell’anno successivo, per effetto del decreto delegato 7 dicembre 1993, n. 517, prevedendosi una revisione sostanziale del ruolo della commissione di esperti, non più chiamata a formare una graduatoria, ma soltanto a valutare l’idoneità all’incarico dei singoli candidati.
Il potere di nomina, prima vincolato, diviene, per effetto delle modifiche, discrezionale, assumendo così caratteri tali da consentire al direttore generale di instaurare con il nominato un rapporto essenzialmente fiduciario.
Le scelte del legislatore divennero, se possibile, ancor più nette con la c.d. riforma ter del servizio sanitario nazionale ( d. lgs 229/1999), per effetto della quale venne modificata la composizione della commissione di esperti, in guisa da rafforzarne la componente direttamente designata dal direttore generale.
In tale contesto, la giurisprudenza riconduceva il conferimento dell’incarico nell’alveo degli atti assunti dalla p.a. con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro, con conseguente devoluzione del relativo contenzioso alla cognizione del giudice ordinario. Si veda, ex multis Consiglio di Stato, sez. V, decisione 05.02.2007 n° 432, secondo cui la procedura svolta a norma dell’art. 15-ter del d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502, introdotto dal d.lgs. 19 giugno 1999 n. 229, per il conferimento di incarico di direzione di struttura complessa, non può farsi rientrare nella figura del concorso per l’assunzione al pubblico impiego.

“Il direttore generale” – secondo la sentenza in esame – “ infatti, compie la scelta del sanitario cui conferire l’incarico all’interno di una rosa individuata dalla commissione prevista dalla norma ricordata, la quale non opera una valutazione comparativa dei candidati e non redige una graduatoria di merito, ma esprime esclusivamente un giudizio di idoneità. In altri termini manca, nella procedura di affidamento dell’incarico, una valutazione dei candidati sotto il profilo della maggiore o minore idoneità all’esercizio delle funzioni da assegnare, che il connotato tipico della procedura concorsuale”.

“L’incarico, quindi,” – continua il giudice amministrativo -viene conferito sulla base di una scelta di carattere fiduciario, affidata alla responsabilità del direttore generale, senza che la legge indichi i criteri da seguire, onde è da escludere che l’atto costituisca esercizio di attività amministrativa in senso pubblicistico, rientrando piuttosto in una scelta riconducibile alla capacità di diritto privato dell’Amministrazione”.
Senonché l’assenza di reali forme di procedimentalizzazione del potere di nomina è stata col tempo giudicata quale concausa del crescente livello di politicizzazione delle nomine aziendali, anche al livello della media dirigenza aziendale.
In tale quadro si viene ad inserire la c.d. riforma Balduzzi.
La relazione illustrativa presentata alle Camere per la conversione in legge del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 individua apertis verbis le ragioni dell’intervento di riforma nella necessità di porre rimedio alle inefficienze organizzative indotte, in diverse realtà sanitarie regionali, da fenomeni di eccessiva politicizzazione delle nomine.
L’obiettivo dichiarato dal legislatore è, dunque, quello di riequilibrare il rapporto tra indirizzo politico e gestione delle aziende sanitarie, introducendo maggiori garanzie di trasparenza e di imparzialità nella nomina dei dirigenti.
In coerenza con la necessità di assicurare, già nell’immediato, una netta cesura rispetto al pregresso quadro ordinamentale, il legislatore ha così introdotto delle ragguardevoli modifiche alla procedura di conferimento dell’incarico di struttura complessa.

Le novità di maggiore interesse riguardano le modifiche apportate alla struttura stessa della procedura di selezione che non è più, come prima, finalizzata alla mera verifica di idoneità dei candidati.

L’operato della commissione che si estrinseca sostanzialmente nell’effettuazione di valutazioni tecniche riferite ai curricula, ai titoli professionali ed alle risultanze dei colloqui – si conclude infatti (come emerge chiaramente dal testo dell’art. 15, comma 7 bis del decreto legislativo n. 502 del 1992, introdotto dal decreto Balduzzi)  con la formazione di una graduatoria  e con la comunicazione al direttore generale di una rosa composta da tre soli candidati, diversamente graduati in ragione del punteggio loro assegnato.

Ora, è da ritenere che le modifiche strutturali apportate dal legislatore statale  al procedimento di conferimento dell’incarico abbiamo modificato la natura stessa della procedura: non vi è dubbio infatti che, sulla scorta della nuova regolamentazione, l’individuazione del soggetto destinatario dell’incarico avvenga sulla base di una procedura comparativa che prende avvio con la pubblicazione di un bando, si snoda in una fase di valutazione tecnica e si conclude con la formazione di una graduatoria.

Dall’introduzione di tali importanti novità ne consegue la riconduzione del conferimento dell’incarico di struttura complessa nell’alveo delle procedure selettive finalizzate all’assunzione, devolute dall’art. 63, comma 4, d. lgs 165/2001 alla cognizione del giudice amministrativo.

seminario giuridico sulla non autosufficienza

Lo studio legale Berto e l’avv. Stefania Cerasoli hanno organizzato in collaborazione con la Fondazione Zoé un seminario dedicato alla “gestione del rischio legale nell’assistenza alle persone non autosufficienti”.

Il seminario, suddiviso in tre parti, si terrà dalle 14.30 alle 17.30 presso la sede della Fondazione Zoè nei giorni di Venerdì 21 Marzo, Venerdì 11 Aprile e Venerdì 9 Maggio 2014.

Per il programma ed iscrizioni clicca qui sotto:

http://www.fondazionezoe.it/code/16615/Seminari-legali

Diritto di abitazione della casa familiare al coniuge superstite

L’eredità della casa. Il nostro codice civile riconosce al coniuge superstite, quando concorra con altri chiamati all’eredità, i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano (art. 540 cc.)
A ben vedere, il riferimento disciplinato dal legislatore attiene all’ipotesi di successione testamentaria, nella quale a determinate categorie di soggetti sono riservate quote – indisponibili – del patrimonio del defunto.
Nell’ipotesi in cui si abbia successione legittima, ossia senza che sia stato redatto un valido testamento, non troviamo identico, specifico richiamo normativo al diritto di abitazione del coniuge superstite.
La Suprema Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 20703 del 10.09.2013, ha propeso per l’applicazione dell’art. 540 cc anche a quest’ultimo caso.

Al coniuge superstite che succede quale erede legittimo spetta il diritto reale di abitazione sulla casa familiare e il diritto di uso dei beni mobili che la arredano di cui all’art. 540, comma 2, c.c., che pur dettato in tema di successione necessaria trova applicazione anche alla successione intestata del coniuge.

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