Skip to main content

Autore: Studio Legale Berto

Cosa fare in caso di mancato pagamento dell’assegno di separazione o divorzio?

Rimedi in caso di mancato pagamento assegno di separazione o divorzio

Tra dire e il fare c’è di mezzo il mare.


Ce lo dicevano le nostre mamme, ma il concetto è attualissimo in ambito giuridico: è inutile che la sentenza del giudice riconosca i nostri diritti se poi ad essi non sia possibile dare attuazione.


Ed in effetti, si sprecano i casi in cui provvedimenti di separazione o divorzio statuiscano obblighi economici a carico di una parte e poi questa non li rispetti, mettendo in ambasce l’altra (e i suoi figli).


Della problematica ce ne eravamo occupati in precedenza, ma oggi poniamo l’attenzione su alcuni rimedi che la legge assicura al coniuge titolare del diritto al mantenimento o dell’assegno divorzile in caso di inadempienza dell’obbligato.

garanzie e sequestro

Sia nel caso di separazione che di divorzio, il legislatore ha inteso scongiurare il pericolo che il coniuge debitore possa sottrarsi all’ adempimento delle obbligazioni economiche – anche quelle riguardanti i figli – statuendo la possibilità che il giudice gli imponga di prestare “idonee garanzie, reali o personali”.
Tra di esse, segnaliamo il pegno – che potrà avere ad oggetto cose mobili, (es la macchina), o crediti dell’obbligato (ad esempio un titolo, delle azioni), oppure altri suoi diritti (brevetti, marchi, diritti di autore) – e la fideiussione (sia bancaria che assicurativa).

Ipoteca immobiliare

Sia la sentenza separativa, quanto quella divorzile costituiscono titolo che legittima l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
In realtà, vi è una norma generale del codice civile che assicura la possibilità di avvalersi di tale garanzia in forza di ogni sentenza – o altro provvedimento giudiziale al quale la legge attribuisce tale effetto – che porta condanna al pagamento di una somma di denaro o all’adempimento di altra obbligazione (2818 cc).

Va da sé che identico portato è stato ribadito dalla Legge sul divorzio (art. 8) e da quella codicistica in ambito della separazione (art. 156 cc).

Scontato che possa iscriversi ipoteca anche su beni pervenuti al debitore anche successivamente al provvedimento di scioglimento del matrimonio o di separazione, (art. 2828 cc), si deve rilevare che il giudice potrà valutare se sia fondato il pericolo di inadempimento del coniuge tenuto a corrispondere le somme di denaro, cosicchè – a seguito di sindacato negativo – potrà ordinare la cancellazione dell’ipoteca.

Pare, invece, non consentita l’iscrizione in forza di sola ordinanza presidenziale che abbia statuito i provvedimenti provvisori ed urgenti, ordinando la corresponsione di un assegno in favore di una parte.

Versamento diretto da parte del terzo

Cosa fare in caso di mancato pagamento dell’assegno di separazione o divorzio? Voglio dire, il coniuge obbligato i soldi li prende, o dovrebbe prenderli, ma dopo? sai tu dove li fa confluire? E se li spendesse tutti quanti senza onorare il proprio debito familiare?

Ritenuta alla fonte, ecco il rimedio, per usare un termine d’ambito fiscale.

In caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può… ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto.

Tale possibilità è statuita sia in ambito della separazione, che in quello divorzile.

In quest’ultimo caso, tuttavia, senza scomodare il giudice, si potrà procedere tramite una via stragiudiziale: dopo aver richiesto gli importi dovuti (costituzione in mora) a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento al coniuge obbligato e inadempiente per un periodo di almeno trenta giorni, si potrà notificare il provvedimento in cui è stabilita la misura dell’assegno ai terzi tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato, con l’invito a versare direttamente le somme dovute, dandone comunicazione al coniuge inadempiente.

In caso di inadempimento del terzo a cui è stata indirizzata detta intimazione, il coniuge creditore avrà azione diretta esecutiva nei suoi confronti per il pagamento delle somme dovutegli quale assegno di mantenimento

mancato pagamento dell’assegno di separazione o divorzio



La maggior parte delle volte i “terzi” tenuti al versamento diretto delle somme dovute all’obbligato sono i datori di lavoro, i quali verseranno parte dello stipendio direttamente nelle mani del coniuge titolare dell’assegno. Si può tuttavia procedere ugualmente anche per gli importi dovuti a titolo di canone di locazione da parte dell’inquilino che abbia affittato un immobile di proprietà del coniuge obbligato.

La giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare che tale tutela è riconosciuta anche per gli importi dovuti a titolo di mantenimento dei figli, non soltanto per quello del coniuge.

E’ pacifico che si possa procedere ugualmente anche in caso di separazione consensuale, non solamente per quella giudiziale.



In quale misura il terzo sarà tenuto al versamento diretto in favore del coniuge?


Non ci sono limiti
.


Infatti, a differenza di quanto concerne l’ipotesi di pignoramento presso terzi, ove il salario del coniuge inadempiente può essere sottoposto al soddisfacimento del (coniuge) creditore entro un limite non superiore ad un mezzo, tale “soglia” non è vincolante per le misure che stiamo prendendo in esame.


La Corte di Cassazione ha avuto modo di sottolinearlo in una recente sentenza (n 24051/2021).


Partendo dal dato di legge – l’art. 156 c.c. prevede che il tribunale possa ordinare a terzi, obbligati nei confronti del coniuge debitore, di pagare direttamente al coniuge (avente diritto all’assegno), quanto a questi è dovuto – se ne deduce che “il giudice possa legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal terzo, quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente, l’assetto economico determinato in sede di separazione con la statuizione che, in concreto, ha quantificato il diritto del coniuge beneficiario”.
In buona sostanza, a monte – in sede separativa – c’era già stata una valutazione del giudice sulla congruità ed equità della somma dovuta dal coniuge a titolo di mantenimento, valutazione che – si noti – potrebbe essere molto dettagliata e tener conto non solo dello stipendio dell’obbligato ma dell’intera sua capacità patrimoniale (cespiti immobiliari, rendite, titoli, partecipazioni…). Conseguentemente, allorquando il Tribunale statuisca sull’ammontare dell’importo che il datore di lavoro dovrà corrispondere al coniuge beneficiario dell’assegno, potrà operare tenendo conto di tutti questi dati e, proprio alla stregua di essi, disporre il versamento diretto dell’intera somma dovuta, senza limiti o tetti massimi.


Quella di cui all’art. 156” – concludono gli ermellini – “è, in definitiva, una disciplina speciale, orientata dall’esigenza di assicurare un bilanciamento di interessi il più possibile aderente alla specificità del caso e governata da una propria autosufficienza”.

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

mancato pagamento dell’assegno di separazione o divorzio

Scarica gratuitamente la guida degli avvocati Berto

Avvocato col gratuito patrocinio: cosa bisogna sapere?

Alcune informazioni utili per poter farsi assistere da un avvocato col gratuito patrocinio.

Cosa significa gratuito patrocinio?

La nostra Costituzione identifica la difesa come “diritto inviolabile“. Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (art 24 Cost).

Anche chi è povero? Sissignore! E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno godimento dei diritti (art. 3 Cost).

Per coloro ai quali la limitatezza di risorse precluda la possibilità di partecipare ad un giudizio con l’assistenza di un avvocato, la legge ha introdotto l’istituto del patrocinio a spese dello stato (D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115).

Il beneficiario non dovrà sostenere le spese dell’assistenza legale in una causa, che saranno sostenute dallo Stato.

Il cd “gratuito patrocinio”, pertanto,  serve a garantire anche ai meno abbienti la difesa con avvocati che altrimenti non si potrebbero permettere.

Cosa comprende e cosa copre il gratuito patrocinio?

Il gratuito patrocinio assicura l’assistenza di un legale (scelto dal beneficiario stesso tra gli avvocati iscritti ad apposito elenco), nell’ambito di un processo civile, penale, amministrativo, contabile, tributario o negli affari di volontaria giurisdizione.

Il beneficio è assicurato al cittadino non abbiente tanto che voglia intraprendere una causa, quanto che sia stato citato a giudizio e debba conseguentemente resistervi.

Attenzione Attenzione! Come abbiamo rilevato, il gratuito patrocinio copre le spese di assistenza in un giudizio: sono, pertanto, escluse quelle relative a vertenze che non siano sfociate nella causa (cd stragiudiziali).

L’assistenza di un avvocato per una semplice consulenza, oppure in un percorso che si risolva (o meno) con diffide, transazioni, telefonate, lettere, appuntamenti o altro, senza che sia adita la giustizia, sarà interamente a carico del cliente.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha avuto infatti modo di statuire che “L’attività professionale di natura stragiudiziale che l’avvocato si trova a svolgere nell’interesse del proprio assistito non è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, in quanto si esplica al di fuori del processo, con la conseguenza che il relativo compenso si pone a carico del cliente

Va, comunque, rilevato che “ove di tratti di attività professionale svolta in vista della successiva azione giudiziaria, essa deve essere ricompresa nell’azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato, sicché in relazione alla stessa il professionista non può chiedere il compenso al cliente ammesso al patrocino a spese dello Stato”.

Chi ha diritto al gratuito patrocinio paga il contributo unificato?

Sono comprese nel beneficio, e quindi il cliente non deve corrisponderle o anticiparle, le spese di notifica, dei diritti di copia, di contributo unificato, quelle dovute al consulente tecnico d’ufficio (CTU) nominato dal tribunale, nonchè  del proprio consulente tecnico di parte,  l’imposta di registro della Sentenza: in una parola, le spese accessorie e strumentali al procedimento giudiziario.

Avvocato gratuito patrocinio

Il gratuito patrocinio vale anche in appello?

La legge stabilisce, dapprima,  che “l ’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse”. Poi, però, vi è una precisazione: “La parte ammessa rimasta soccombente  non può giovarsi dell’ammissione per proporre impugnazione”.

Dalla lettura combinata dei due articoli deriviamo che il beneficio permanga nel caso in cui la parte che l’abbia conseguito abbia coltivato vittoriosamente il giudizio di primo grado. In tal caso potrà goderne anche se convenuta in appello.

Diversa è la conclusione per la parte soccombente: non potrà più contare sull’originaria ammissione e dovrà presentare una nuova domanda, il cui fondamento sarà oggetto di apposita valutazione.

Chi ha diritto al gratuito patrocinio? 

La legge che abbiamo indicato stabilisce chi può richiedere ed ottenere il gratuito patrocinio:  colui il quale sia titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro 11.746,68. Quest’ultima è una somma che sarà aggiornata via via col passare del tempo, ogni due anni.

Non è un importo elevatissimo.

Il problema è che vi sono ulteriori limitazioni.

Innanzitutto, non si tiene conto soltanto del reddito del beneficiario, bensì dell’intero suo nucleo familiare convivente:  “se l’interessato convive con il coniuge  o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l’istante”.

In buona sostanza, la somma dei redditi dei familiari conviventi deve essere inferiore all’importo che abbiamo indicato.

A meno che…. l’azione per cui viene chiesto il beneficio sia rivolta verso un soggetto rientrante nel nucleo familiare, ad esempio il coniuge nel giudizio di separazione: si tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi.

Una seconda precisazione riguarda come calcolare il reddito di riferimento per il gratuito patrocinio. Sarà indicativa senz’altro la denuncia dei redditi (nota bene, non l’isee, in quanto redatta sulla base di criteri difformi da quelli prescritti per il calcolo del reddito ), ma dovranno essere compresi anche  i redditi che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche  (ad esempio, la pensione di guerra o l’indennità di mobilità) o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (es interessi su conti correnti), ovvero ad imposta sostitutiva (ad esempio gli interessi sui titoli di stato). Dovranno essere indicate anche le entrate che di fatto non hanno subito alcuna imposizione (ad esempio i redditi da attività illecite e da lavoro in nero).

In caso di impossibilità a produrre la documentazione richiesta, , questa potrà essere sostituita da una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dell’interessato.

Avvocato gratuito patrocinio Vicenza

Chi non può ottenere il gratuito patrocinio?

Chi abbia conseguito sentenze di condanna per alcuni tipi di reato (segnatamente, quelli caratterizzati da matrice mafiosa oppure attinenti l’evasione fiscale) non potrà fruire del beneficio, in quanto per esso vi è la presunzione di reddito superiore ai limiti previsti.

Chi può ottenere il gratuito patrocinio anche se ha reddito superiore ai limiti previsti?

Al contrario, chi sia stato vittima di alcune tipologie di crimini, (quelli attinenti il femminicidio, ad esempio, oppure commessi in danno di minori) potrà conseguire il beneficio anche se abbia un reddito superiore al tetto massimo  statuito.

Come richiedere il gratuito patrocinio?

Premessa, il beneficio si ottiene solo se si richiede: non potrà essere concesso d’ufficio dal Giudice.

Chi abbia i requisiti che abbiamo esaminato, può presentare istanza per essere ammesso al beneficio in ogni stato e grado del procedimento. Pertanto, se dovesse intraprendere un giudizio senza avvalersi del patrocinio a spese dello stato e poi, nel corso della causa, dovesse rientrare nella fascia dei soggetti che lo potrebbero conseguire, potrà presentare istanza che, ovviamente, coprirà l’attività da svolgere e non quella già effettuata.

L’istanza dovrà essere firmata dall’interessato stesso, a pena di inammissibilità: il suo difensore dovrà certificarne l’autografia.

In molti Tribunali è diffusa la pratica di deposito telematico: l’assistito sottoscrive la documentazione e l’avvocato la inoltra in formato elettronico.

L’istanza deve avere alcuni requisiti imprescindibili:

a) specificare la richiesta di ammissione al patrocinio e l’indicazione del processo cui si riferisce, se già pendente;

b) le generalità dell’interessato e dei componenti la famiglia anagrafica, unitamente ai rispettivi codici fiscali;

c) una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dell’interessato, attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fin;

d) l’impegno a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito, verificatesi nell’anno precedente, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di un anno, dalla data di presentazione dell’istanza o della eventuale precedente comunicazione di variazione.

e) le enunciazioni in fatto ed in diritto utili a valutare la non manifesta infondatezza della pretesa che si intende far valere, con la specifica indicazione delle prove di cui si intende chiedere l’ammissione.

Gratuito patrocinio: dove rivolgersi? 

L’istanza potrà essere presentata direttamente dall’interessato o dal suo difensore al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati competente, vale a dire quello del luogo in cui ha sede il magistrato davanti al quale pende il processo, ovvero, se il processo non pende, quello del luogo in cui ha sede il magistrato competente a conoscere del merito.

Il Consiglio dell’Ordine avrà dieci giorni di tempo per esprimersi in ordine all’istanza.

Se la riterrà fondata e coerente con i requisiti di legge, ammetterà l’interessato in via anticipata e provvisoria al patrocinio.

Sarà poi il magistrato al termine della causa, a stabilire definitivamente sussistente il diritto al beneficio, disponendone conseguentemente la liquidazione.

Se il consiglio dell’ordine dovesse respingere  l’istanza, questa potrà essere proposta al magistrato competente per il giudizio, che deciderà con decreto.

come funziona il gratuito patrocinio?
Avvocato gratuito patrocinio a Vicenza

Quando scade il gratuito patrocinio?

Il beneficio permane fintanto che i presupposti per i quali lo si è conseguito sussistano.

Fino a quando il processo non sarà terminato, l’interessato dovrà comunicare –  entro trenta giorni dalla scadenza del termine di un anno, dalla data di presentazione dell’istanza o della eventuale precedente comunicazione  – le variazioni rilevanti dei limiti di reddito, verificatesi nell’anno precedente.

Cosa significa: se il beneficiario per tutta la durata del procedimento non conoscerà variazioni di reddito rilevanti, non sarà tenuto ad effettuare alcuna comunicazione, continuando a permanere il gratuito patrocinio, che coprirà, quindi, tutta l’attività svolta dall’inizio del processo.

Se, al contrario, dovesse percepire somme che aumentino i redditi da considerare ai fini dell’istituto, dovrà darne comunicazione al Giudice procedente. Al termine del processo, questi liquiderà la parcella dell’avvocato patrocinante, escludendo dall’importo a carico dello Stato le somme riferite al periodo di tempo per cui non sussistevano i presupposti per il beneficio.

Attenzione Attenzione!

Il beneficiario che ometta di effettuare le comunicazioni indicate, al fine di mantenere, senza diritto, il gratuito patrocinio, è passibile di sanzione penale  con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309,87 a euro 1.549,37. 

Identica sanzione per l’istanza originaria di ammissione che abbia contenuto falsità o omissioni volte a conseguire il beneficio, altrimenti non ottenibile.

Si noti che copia dell’istanza dell’interessato, delle dichiarazioni e della documentazione allegate, nonché del decreto di ammissione al patrocinio sono trasmesse, a cura dell’ufficio del magistrato che procede, all’Agenzia delle Entrate – che potrà avvalersi anche della collaborazione della Guardia di Finanza –  al fine della verifica dell’esattezza dell’ammontare del reddito attestato dall’interessato, nonché della compatibilità dei dati indicati con le risultanze dell’anagrafe tributaria.

Se risulta che il beneficio è stato erroneamente concesso, l’ufficio finanziario richiede il provvedimento di revoca.

Chi paga il gratuito patrocinio?

Il beneficiario non deve anticipare nulla.

Anzi, è fatto espresso divieto all’avvocato che lo assista di richiedere qualsivoglia somma.

La violazione costituisce illecito disciplinare.

L’onorario e le spese spettanti al difensore sono liquidati dall’autorità giudiziaria con decreto di pagamento, al termine del processo, una volta che saranno verificati – in via definitiva – i presupposti per l’ammissione e la permanenza del beneficio.

La parcella sarà liquidata osservando la tariffa professionale, tenuto conto dell’attività svolta in concreto.

Gli importi, tuttavia, saranno dimezzati se l’assistenza prestata concerneva l’ambito civile, mentre saranno ridotti di un terzo per le cause penali.

avvocato gratuito patrocinio a Vicenza

Gratuito patrocinio per separazione o divorzio

Non saranno da computare nel reddito dell’istante le somme percepite a titolo di contributo al mantenimento dei figli.

Dovranno esserlo, invece, quelle conseguite a titolo di mantenimento personale del coniuge.

I redditi dei coniugi non si sommeranno, e andranno quindi considerati distintamente, se la separazione sia giudiziale, sussistendo una posizione di conflitto tra i componenti dello stesso nucleo familiare.

Identico discorso se la separazione sia consensuale: con una recente Sentenza, la Corte di Cassazione ha rilevato che ” la circostanza che i coniugi accedano al giudizio di omologazione sulla base di un accordo consensuale,  … non comporta l’assenza di interessi configgenti”.  

Gratuito patrocinio per negoziazione assistita e mediazione obbligatoria

Per tali forme alternative al percorso giudiziale, dobbiamo operare una distinzione.

E’ compreso nell’alveo del gratuito patrocinio l’assistenza nel procedimento di negoziazione assistita, qualora sia obbligatorio; vale a dire come percorso prodromico ed indefettibile per intraprendere il successivo giudizio.

Non è coperta, invece, la negoziazione d’ambito volontario.

Per quanto attiene la mediazione, purtroppo, allo stato non è possibile farla rientrare nel gratuito patrocinio, anche se dovesse essere obbligatoria, allorquando si concluda positivamente, ossia con la conciliazione.

Con una recente Sentenza, la Suprema Corte ha avuto modo di ribadirlo, sottolineando che la legge limita l’operatività del patrocinio a spese dello Stato all’ambito del procedimento, sia penale sia civile e postula, pertanto, l’intervenuto avvio della lite. 

Se, al contrario, dovesse essere intrapresa la causa, sarà il Giudice al termine del giudizio a dover liquidare anche tale fase di attività.

Lo studio Legale Berto offre assistenza come

Avvocato con gratuito patrocinio a Vicenza

gratuito patrocinio

Nascondere o falsificare un testamento? Indegnità a succedere

Nascondere o falsificare un testamento può comportare la perdita dei diritti successori in capo all’autore.

Il pianto dell’erede sotto la maschera è riso.
(Publilio Siro)


Ride bene chi ride ultimo.

Indegno.


persona che, per le sue colpe o la sua condotta, non possa esercitare certi diritti o assumere determinati uffici” (Treccani)


L’apertura di un testamento, al netto dell’evento luttuoso di cui è conseguenza, crea sempre un po’ di suspence.


Talvolta, le disposizioni del de cuius destano sorpresa per il loro contenuto o per i destinatari che coinvolgono.

Il pensiero dei “delusi” corre subito ad indagini sulla capacità mentale del disponente al momento del confezionamento delle ultime volontà, (“se fosse stato in sé non avrebbe scritto così..”) oppure a possibili manipolazioni intercorse nella stesura del testamento (“lo ha scritto lui? È la sua firma? È la sua grafia?”).


Bene. Mettiamo caso che venga scoperto l’arcano e, udite udite, si apprenda che effettivamente sì, un terzo ci ha messo lo zampino: ha scritto di pugno suo il testamento, spacciandolo per originale, oppure ha effettuato delle modifiche a quello già esistente, sperando che nessuno se ne sarebbe accorto.


Sui possibili rimedi in caso di testamento alterato, ci siamo soffermati in questo articolo.


Oggi concentriamo la nostra attenzione su un’ulteriore conseguenza relativa alla scoperta dell’intervento di un terzo nella redazione del testamento.

Nascondere o falsificare un testamento

https://requestartikel.com/it/


Se, infatti, la sanzione di nullità dell’atto di ultime volontà fosse il solo risvolto causato dall’apocrifia, talora l’autore del falso potrebbe essere comunque beneficiato dalla successione.


Mettiamo caso, per esempio, all’ipotesi in cui il responsabile dell’adulterazione fosse il figlio, o il coniuge del de cuius.
Questi sarebbero comunque eredi legittimi in caso di annullamento del testamento, riconosciuto in tutto o in parte contaminato dal loro intervento.


A questo risultato perverso mette una pezza la legge, contemplando l’ipotesi di indegnità a succedere.


E’ escluso dalla successione chi ha indotto con dolo o violenza la persona, della cui successione si tratta, a fare, revocare o mutare il testamento, o ne l’ha impedita; chi ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata ; chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso .


Esclusione dalla successione.

Una forma di incapacità successoria, che priva il soggetto chiamato all’eredità della possibilità di acquisire o mantenere la qualifica di erede.


Parte degli studiosi ritiene che l’esclusione operi ipso facto, senza che debba essere pronunciata da una sentenza, la quale – tutt’al più – potrà avere effetto dichiarativo, ossia di accertare qualcosa che si è già consolidato di per sé.

Larga parte degli interpreti, tuttavia, e così anche la giurisprudenza, attribuisce all’intervento del giudice il potere di precludere la conservazione dei diritti successori acquistati dall’indegno a seguito dell’accettazione.


Conseguentemente, la possibilità di privare l’indegno della propria qualifica di erede sarebbe sottoposta ad apposita iniziativa giudiziaria, esercitabile da chiunque vi abbia interesse (anche non di natura patrimoniale), e azionabile nel termine di prescrizione ordinario di dieci anni, decorrente dall’apertura della successione.


La causa può essere intrapresa anche nei confronti degli eredi dell’indegno.


Il provvedimento potrà disporre anche la restituzione dei beni conseguiti dall’indegno in forza del fenomeno successorio, nonché dei frutti nel frattempo percepiti.


I casi di indegnità – tassativi – sono contemplati dall’art. 463 cc

Tra questi, come abbiamo visto, vi è anche la fattispecie del sopprimere, nascondere o falsificare un testamento.


Ipotesi, tutte, nelle quali l’autore abbia inteso impedire l’attuazione della volontà espressa dal de cuius in ordine alla successione, oppure confezionarne una ex novo.


Si noti, deve essere un atto volontario – altrimenti la sanzione non avrebbe ragione d’essere – ma gli interpreti non ritengono sufficiente il semplice tentativo (ad esempio, l’ occultamento provvisorio del testamento, oppure l’inerzia momentanea dal presentarlo al notaio da parte del possessore), bensì la concreta attuazione di un proposito volto a regolare la successione in modo diverso da quello altrimenti predisposto dal de cuius.


Diversamente, non potrà essere statuita l’indegnità.


Ad esempio, la suprema corte ha avuto modo – più volte – di affermare che “la formazione o l’uso consapevole di un testamento falso è causa di indegnità a succedere se colui che viene a trovarsi nella posizione di indegno non provi di non aver inteso offendere la volontà del “de cuius”, perché il contenuto della disposizione corrisponde a tale volontà e il “de cuius” aveva acconsentito alla compilazione della scheda da parte dello stesso nell’eventualità che non fosse riuscito a farlo di persona ovvero che il “de cuius” aveva la ferma intenzione di provvedervi per evitare la successione “ab intestato”. (cass. 1905/2020)

riabilitazione testamento


Va precisato che la legge contempli la possibilità – per il testatore – di riabilitare l’indegno. Ciò potrà avvenire ovviamente qualora il disponente abbia avuto conoscenza della condotta reproba e del suo autore e abbia nonostante questo inteso espressamente affrancarlo dalle conseguenze altrimenti gravanti su di esso.


La legge, al riguardo, contempla due ipotesi.

Una di riabilitazione espressa, nel testamento o in atto pubblico ad hoc, con cui il testatore esplicitamente menziona la propria volontà di reintegrare il soggetto altrimenti indegno.


Un’altra si ha quando il disponente non faccia cenno di riabilitazione, ma – pur conoscendo la realtà dei fatti incriminati – abbia, ciò nonostante, incluso nelle proprie ultime volontà l’indegno.


In tal caso, tuttavia, potrà essere ammesso a succedere nei limiti della disposizione testamentaria: non potrà reclamare nulla di più quando, ad esempio, dovesse essere leso nei propri diritti di legittimario e intendesse agire in riduzione. Oppure, se dovesse venir meno l’accettazione di qualche altro coerede, non potrà beneficiare dell’accrescimento di tale quota.

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in merito alle conseguenze di

Nascondere o falsificare un testamento

impugnazione testamento, testamento

Pagamento retta casa di riposo da parte del comune: sì se l’anziano ha reddito limitato

Pagamento retta casa di riposo da parte del Comune: la semplice esistenza di familiari tenuti agli obblighi alimentari o che abbiano firmato un impegno contrattuale con la casa di riposo in presenza di condizioni di reddito limitato non esclude, di per sè, l’obbligo per il Comune.

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

Con sentenza num. 1625 del 27.06.2018 il Tribunale di Vicenza ha condannato un Comune al pagamento in favore dell’IPAB della somma di Euro 8.876,89 a titolo di integrazione economica delle rette di ricovero presso l’rsa di un anziana.

L’IPAB aveva ospitato un’anziana, affetta da morbo di Alzheimer e che al momento del ricovero risultava residente, appunto, presso il Comune in causa.

Nonostante il figlio avesse sottoscritto con la casa di riposo un impegno personale a pagamento della retta, non vi era stata alcuna possibilità di ottenere dallo stesso qualsivoglia forma di pagamento.

L’IPAB, quindi, procedeva alla notifica di decreto ingiuntivo nei confronti dell’ente comunale, decreto ingiuntivo al quale il Comune si opponeva prontamente con atto di citazione.

Tesi del Comune era, tra l’altro, che nella fattispecie non fossero sussistenti i presupposti di legge per l’insorgere dell’obbligo assistenziale in capo allo stesso “posto che gli unici soggetti tenuti al pagamento delle rette sarebbero la stessa ospite nonché il figlio sia a norma di legge (Art. 433 c.c.), che di Regolamento comunale sia in forza dell’impegno assunto dal familiare con l’IPAB”.

Secondo la RSA opposta, invece, l’obbligo del Comune di pagare l’insoluto maturato discendeva dalle previsioni degli artt. 6, IV comma, del della Legge 08.11.2000, n. 328, secondo il quale “Per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica”.

Il Tribunale di Vicenza, dopo un’attenta istruttoria, ha ritenuto di dover accogliere le tesi dell’IPAB, vicentina confermando il decreto ingiuntivo.

In particolare, secondo il Tribunale l’anziana aveva diritto alla prestazione socio assistenziale da parte del Comune essendo persona in stato di bisogno:

-in quanto soggetto in condizioni di reddito limitato che non consentivano di far fronte al pagamento della retta di ricovero;

-in quanto soggetto per il quale si era necessario il ricovero stabile preso RSA perché soggetto ultrasessantacinquenne non autosufficiente e , quindi, rientrante nella fattispecie di cui all’art. 3, comma II ter, del D.Lgs. n. 109/1998.

pagamento retta casa di riposo da parte del comune

Si ritiene doveroso evidenziare che la fattispecie oggetto del giudizio è antecedente alla riforma dell’ISEE avvenuta con D.P.C.M. n. 159/2013.


Come noto, in conseguenza di tale riforma, ai fini dell’integrazione della retta di ricovero di un anziano non autosufficiente da parte del Comune, è necessaria la presentazione dell’ISEE socio sanitario uso residenziale che risponde a criteri diversi rispetto a quelli evidenziati nella sentenza oggetto del presente articolo.


Più precisamente, il calcolo dell’ISEE terrà conto anche della condizione economica dei figli del beneficiario non inclusi nel nucleo familiare, integrando l’indicatore con una componente aggiuntiva per ciascun figlio.

Al di là di questa doverosa precisazione, resta ferma, a parere di chi scrive, la legittimazione della casa di riposo ad agire nei confronti del Comune in caso di rette non pagate, e questo data la natura del Comune di soggetto “previamente informato” del ricovero ex art. 6, IV comma, della Legge n. 328/2000.


Sarà poi il Comune a valutare se vi siano gli estremi per agire in regresso verso l’eventuale firmatario dell’impegno di pagamento o altri componenti del nucleo familiare.

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Pagamento retta casa di riposo da parte del comune

+

retta casa di riposo

Preliminare di acquisto di un immobile durante la comunione dei beni

Preliminare di acquisto di un immobile durante la comunione dei beni: che ne sarà se i coniugi si separano?

La differenza tra il divorzio e la separazione legale è che la separazione legale dà al marito il tempo di nascondere il proprio denaro.
(Johnny Carson)

C’eravamo tanto amati.


Avevamo anche progettato di comprare una casa nuova, e poi…

Con la separazione i sogni si infrangono, ma i problemi restano.


Che ne sarà del preliminare di acquisto di un immobile stipulato durante la comunione dei beni se poi la comunione si scioglie a seguito della separazione?


Tralasciamo l’ipotesi più semplice: quella in cui entrambi i coniugi abbiano sottoscritto il compromesso. Pare fin troppo ovvio affermare che tutt’e due saranno tenuti ad onorare l’impegno che si erano assunti durante il matrimonio, partecipando al definitivo e versando il prezzo convenuto. Poi, eventualmente, si spartiranno il bene acquistato, oppure lo venderanno, o se lo terrà solo uno di essi, che comprerà la quota dell’altro.
.. oppure se lo terranno così com’è: sai mai che non intervenga una benedetta riconciliazione.


E se il preliminare lo avesse sottoscritto solo uno dei coniugi?


Qui le cose si complicano, ma le risolviamo subito andando ad esaminare la parola della legge ed alcune nozioni base in ambito contrattuale.


Cosa rientra in comunione dei beni?
Art. 177 cc:

-gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;

-i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
– i proventi dell’attivita’ separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;


Bene.

Rientrano gli acquisti, siano effettuati insieme o separatamente, purchè vigente il regime patrimoniale.

Preliminare un solo coniuge
Preliminare di acquisto di un immobile durante la comunione dei beni


Il contratto preliminare comporta l’acquisto del bene che ne è oggetto?

No. Con tale negozio le parti si impegnano a stipulare, in futuro, un altro contratto che, questo sì, comporterà il trasferimento della proprietà.
Il contratto preliminare ha efficacia obbligatoria, non reale.


Ergo?

Solamente il coniuge che abbia stipulato il preliminare sarà obbligato ad addivenire al rogito per il definitivo: se sarà ancora in comunione dei beni, l’acquisto rientrerà nella titolarità di entrambi i consorti, altrimenti solamente in quella dell’obbligato.


Facciamo un passo avanti.

Mettiamo che solo un consorte abbia stipulato il preliminare, versando anche quota parte del prezzo. Dopo la separazione addiviene al rogito, corrispondendo il saldo.

L’altro coniuge potrà avanzare qualche pretesa in relazione all’acquisto?


Abbiamo visto prima: non potrà essere reclamata la proprietà del bene, che è stata trasferita dopo lo scioglimento della comunione.

Ma per le somme versate prima della separazione?


Se siano importi appartenenti ad entrambi i coniugi non ci piove: ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni gravanti sulla comunione stessa. (art. 192 cc)


Ma se il versamento dell’acconto fosse stato fatto con i risparmi derivanti dall’attività lavorativa del coniuge promissario acquirente?


Leggiamo attentamente l’art. 177 cc che abbiamo sopra richiamato: rientrano nella comunione i proventi dell’attivita’ separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati.


Ne avevamo già parlato in altro post, si tratta di comunione de residuo: i soldi dello stipendio appartengono solo a chi li guadagna.

Se li impiegherà in acquisti, questi ricadranno nella comunione. Se residueranno allo scioglimento della stessa, rientreranno nel patrimonio comune.


Ebbene, il versamento effettuato con i propri denari da un coniuge in sede di preliminare di vendita non rientreranno nella comunione de residuo.


Sono stati spesi. Non sussistono più.

Non potranno, pertanto, essere oggetto di recriminazioni da parte dell’altro coniuge, dopo la separazione.


Lo ha avuto modo di affermare anche una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione (3767/2021), che ha disciplinato un caso identico a quello appena esaminato, affermando che “la comunione de residuo si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettivamente sussista nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi”, conseguentemente “sono esclusi dalla comunione legale “i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione”.
Se, pertanto, dovesse essere “ incontestato che in vigenza del regime di comunione legale” un coniuge “ebbe a disporre di risorse proprie e se, come detto, la comunione de residuo è ravvisabile solo in relazione ai proventi non consumati sussistenti al momento dello scioglimento della comunione, l’uno e l’altro elemento escludono che possa applicarsi l’art. 177, lett. c), c.c. Da un lato, infatti, i proventi realizzati da ciascuno dei coniugi in vigenza del predetto regime non confluiscono immediatamente in comunione ed il percettore, assolti i doveri di contribuzione, è perciò libero di disporne, dall’altro, essendone avvenuta la consumazione, essi non sono più sussistenti al momento dello scioglimento della comunione e dunque nessun diritto de residuo può accampare su di essi l’altro coniuge

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Preliminare di acquisto di un immobile durante la comunione dei beni

Scarica gratuitamente la guida degli avvocati Berto

Comunione dei beni

Abuso edilizio: sanzione pecuniaria al posto della demolizione?

Abuso edilizio: quando è possibile pagare una sanzione pecuniaria al posto della demolizione?

Una delle domande più frequenti che si pone chi riceve un ordine di demolizione per un abuso edilizio è se sia possibile pagare una sanzione pecuniaria al posto di eseguire l’ordine demolitorio.

Diciamo subito che la demolizione costituisce la regola e la sanzione pecuniaria l’eccezione: di norma, come vedremo, non è possibile sostituire la demolizione con una sanzione pecuniaria.

In merito di abusi edilizi, si richiama una recente sentenza del Consiglio di Stato (17 febbraio 2021, n. 14) che ha ricordato come il Testo unico in materia di edilizia (DPR 380 del 2001) distingua “ai fini sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, dagli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la cui disciplina sanzionatoria è recata dall’art. 34, che contempla anche la possibilità di applicazione della sanzione pecuniaria, nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”.

L’art. 31 del Testo unico sanziona gli abusi più gravi, cioè quelli realizzati in assenza di permesso, in totale difformità o con variazioni essenziali.

L’assenza di permesso consiste nella sua mancanza oggettiva che si ha non solo quando il permesso non sia mai stato rilasciato ma anche quando, pur rilasciato, sia privo (o sia divenuto privo) di effetti giuridici.

Ai sensi del comma 1 sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.

L’intervento è realizzato con variazioni essenziali rispetto al progetto approvato quando ricorrano uno o più delle seguenti condizioni stabilite dall’art. 32:

a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards urbanistici;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;

c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;

d) mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito;

e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.

Orbene, nei casi di intervento edilizio realizzato in assenza, totale difformità o con variazioni essenziali la sanzione è quella della demolizione che non è possibile sostituire con una sanzione pecuniaria.

Quest’ultima sanzione è prevista dall’art. 34 Testo unico che disciplina l’ipotesi residuale di intervento edilizio realizzato in parziale difformità.

sanzione pecuniaria al posto della demolizione?
sanzione pecuniaria al posto della demolizione: quando è possibile?

A dire il vero, anche per gli interventi eseguiti in parziale difformità la regola generale è quella della demolizione. Nell’art. 34 viene, tuttavia, previsto che qualora la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il responsabile dell’ufficio tecnico comunale applichi una sanzione pecuniaria al posto della demolizione stessa.

Va notato come, per costante giurisprudenza richiamata anche dalla sentenza del Consiglio di Stato che abbiamo più sopra citato, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria “deve essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione; fase esecutiva, nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione”.

In sostanza, anche nel caso di intervento realizzato in parziale difformità, l’autorità amministrativa ordinerà sempre la demolizione dell’abuso; spetterà al destinatario dell’ordine, dimostrare (attraverso un’idonea perizia) che l’esecuzione dell’ordine demolitorio comporta il pregiudizio della parte conforme al titolo edilizio

La citata sentenza del Consiglio di Stato ricorda, infatti, chenon compete all’Amministrazione procedente di dover valutare, prima dell’emissione dell’ordine di demolizione dell’abuso, se essa possa essere applicata, piuttosto incombendo sul privato interessato la dimostrazione, in modo rigoroso e nella fase esecutiva, della obiettiva impossibilità di ottemperare all’ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme

Solo quando il destinatario dell’ordine demolitorio riesca a dimostrare “in modo rigoroso” che l’esecuzione della demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte conforme, sarà pertanto possibile sostituire l’ordine di demolizione con una sanzione pecuniaria.

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

sanzione pecuniaria al posto della demolizione

abuso edilizio

E’ possibile ottenere il superbonus 110% in caso di piccole difformità? le tolleranze costruttive

E’ possibile ottenere il superbonus 110% in caso di piccole difformità?

Uno dei temi più dibattuti in materia di super bonus 110% è quello relativo alla conformità urbanistica dell’immobile oggetto di intervento.

In proposito, l’art. 49 del Testo unico in materia di edilizia stabilisce che “fatte salve le sanzioni di cui al presente titolo, gli interventi abusivi realizzati in assenza di titolo o in contrasto con lo stesso, ovvero sulla base di un titolo successivamente annullato, non beneficiano delle agevolazioni fiscali previste dalle norme vigenti, né di contributi o altre provvidenze dello Stato o di enti pubblici”.

Non è dunque possibile chiedere il beneficio fiscale di cui al superbonus qualora l’immobile sia stato realizzato in assenza di titolo edilizio o in contrasto con lo stesso (in difformità rispetto al titolo) e qualora si sia comunque goduto delle agevolazioni fiscali, le stesse possono essere revocate o dichiarate decadute.

Non tutte le difformità edilizie sono però rilevanti.

L’art-. 49 prosegue, infatti, affermando che “il contrasto deve riguardare violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che eccedano per singola unità immobiliare il due per cento delle misure prescritte, ovvero il mancato rispetto delle destinazioni e degli allineamenti indicati nel programma di fabbricazione, nel piano regolatore generale e nei piani particolareggiati di esecuzione”.

Se, dunque, vi sono difformità (come, ad esempio delle opere interne) che non consistono in violazioni di altezza, distacchi (distanze tra edifici), cubatura o superficie coperta , è possibile usufruire dei benefici fiscali.

Sempre l’articolo 49, come abbiamo sopra visto, stabilisce che il contrasto deve comunque eccedere “il due per cento delle misure prescritte”: così come prevede l’art. 34 bis del Testo unico dedicato alle “tolleranze costruttive”.

Quest’ultimo articolo è stato recentemente introdotto dalla legge 120 del 2020 proprio per facilitare l’accesso al super bonus e stabilisce che “il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo”

Il secondo comma dell’art. 34 bis stabilisce poi che sono “tolleranze esecutive le irregolarità geometriche e le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità, nonché la diversa collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a condizione che non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile”.

Tali difformità riguardano, ad esempio, gli angoli non perfettamente in squadra o le murature non perfettamente allineate, le aperture interne non corrispondenti al progetto depositato .

Da sottolineare che le tolleranze (sia quelle relative ai parametri che quelle relative alle irregolarità esecutive), se realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi, ai sensi del terzo comma dell’art. 34, “non costituendo violazioni edilizie, sono dichiarate dal tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero, con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali”.

E’ possibile ottenere il superbonus 110% in caso di piccole difformità

Lo stato legittimo dell’immobile

Dalla lettura delle disposizioni che sono state sopra richiamate, emerge che un immobile per godere delle agevolazioni fiscali deve, salve le tolleranze costruttive, essere conforme al titolo edilizio che ne ha consentito la realizzazione. Si parla di conformità allo “stato legittimo dell’immobile”.

Il DL semplificazioni ha aggiunto all’art. 9Bis del Testo unico edilizia il comma 1 bis che contiene la definizione di “stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare”.

Lo stato legittimo secondo tale disposizione è “quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali”.

L’art. 9 bis si occupa anche degli immobili che sono stati realizzati in “un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio” (si parla di immobili realizzati prima del 1967 dato che l’obbligo generalizzato di ottenere preventivamente la concessione edilizia è stato introdotto dalla Legge 6 agosto 1967 n. 365.

In tal caso, “lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto ovvero da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia”.

Sulla base di tali documentazioni, il tecnico può ora rilasciare l’attestazione di stato legittimo (previsto dall’art. 34 bis che abbiamo più sopra visto).

Per quel che concerne il superbonus va precisato che non è obbligatorio allegare il suddetto certificato, il quale può comunque essere utile in diverse circostanze.

Infatti, il certificato anche se non sostituisce il titolo abilitativo, può comunque attestare che nella costruzione del fabbricato sono state osservate le prescrizioni previste dai titoli abilitativi (o, in assenza di titolo, in conformità alla normativa urbanistica) e che sono presenti eventualmente delle “tolleranze esecutive” che non costituiscono violazioni urbanistiche.

non è pregiudicato il superbonus 110% in caso di piccole difformità

La conformità urbanistica nei condomini

Una delle questioni più dibattute che sono sorte a seguito dell’entrata in vigore delle agevolazioni fiscali prevista dalla normativa sul superbonus era quella relativa alla conformità urbanistica dei condomini.

In particolare, si discuteva se fosse sufficiente la conformità urbanistica delle sole parti comuni di un condominio o se fosse necessario che vi fosse conformità urbanistica anche delle singole unità immobiliari.

Il problema era di non poco conto dato che, se si riteneva necessaria anche la conformità delle singole unità, la presenza di una difformità rilevante avrebbe potuto compromettere i benefici di tutto il condominio.

La questione è stata recentemente chiarita e risolta dal cosiddetto Decreto Agosto 10 n. 104/2020 che ha introdotto un’importante disposizione: il comma 13-ter dell’art. 119 D.L. n. 34/2020 .

Tale disposizione stabilisce che Al fine di semplificare la presentazione dei titoli abitativi relativi agli interventi sulle parti comuni che beneficiano degli incentivi disciplinati dal presente articolo, le asseverazioni dei tecnici abilitati in merito allo stato legittimo degli immobili plurifamiliari, di cui all’articolo 9 -bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e i relativi accertamenti dello sportello unico per l’edilizia sono riferiti esclusivamente alle parti comuni degli edifici interessati dai medesimi interventi».

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

ottenere il superbonus 110% in caso di piccole difformità

Se i genitori litigano possono perdere l’affidamento dei figli?

Se i genitori litigano possono perdere l’affidamento dei figli?

“Se il padre e la madre si litigano un uovo, il bambino non avrà mai una gallina.”
PROVERBIO AFRICANO

Ci siamo passati tutti e tutti ricordiamo le sensazioni spiacevoli provate nell’assistere a qualche litigio tra mamma e papà.

Le discussioni, tuttavia, fanno parte del matrimonio e di qualsiasi forma di convivenza.

San Girolamo affermava: chi vive senza discussioni è uno scapolo.

Oggi ci soffermiamo al caso in cui le discussioni, i litigi, vadano oltre la soglia delle normali dinamiche di vita familiare, ma sfocino in situazioni di aperto conflitto, con manifestazioni violente, tanto verbali financo fisiche.

Come si è avuto modo di accennare in un precedente articolo litigare davanti ai figli può costituire reato. In particolare, in casi di cd “violenza assistita”, nei quali i figli appunto assistono ad episodi ripetuti di aggressività fisica e psicologica, con condotte vessatorie e continui litigi, minacce e danneggiamenti tra genitori, la Corte di Cassazione ha statuito si ricorra nella fattispecie di maltrattamenti, severamente punita dall’art. 572 del codice penale, essendo pacifico che i maltrattamenti possano essere effettuati anche tramite un coinvolgimento indiretto, passivo, della prole alla conflittualità esacerbata dei genitori.

litigi genitori figli

Se i genitori litigano possono perdere l’affidamento dei figli?

L’asprezza dei rapporti tra genitori può, anche, avere significativi riflessi nell’ambito dell’affidamento dei figli.

Di regola, la giurisprudenza ritiene che la conflittualità esistente tra due coniugi non precluda il ricorso al regime preferenziale dell’affidamento condiviso, che risulta il più idoneo a riequilibrare il rispettivo ruolo genitoriale nell’interesse della prole.

Ciò, purchè si rimanga nei limiti di una dialettica che non intacchi la serenità e la possibilità di sviluppo psicofisico equilibrato del figlio minore.

In tal caso, a fronte dell’estrema difficoltà ad intraprendere di comune accordo scelte significative per i figli, potrà essere disposto l’affidamento esclusivo in capo ad un solo genitore, quello che appaia più adeguato nel caso concreto con riferimento ai bisogni affettivo-educativi della prole.

Ma c’è di più.

Nelle situazioni più complesse – vedasi ad esempio i casi di totale conflittualità esistente tra i genitori, di tentativi per ciascuno di essi di delegittimare la figura dell’altro, di rifiuto persistente di sottoporsi ad un percorso di mediazione, di sofferenza ingenerata nel minore – ove entrambi i genitori si rivelino palesemente immaturi ed incapaci di elaborare il fallimento del proprio progetto di coppia e dunque di rapportarsi responsabilmente alla genitorialità, il giudice potrà disporre l’affidamento dei figli ai servizi sociali.

Questi ultimi prenderanno le decisioni più importanti per i minori e vigileranno sulla frequenza dei figli con i genitori, segnalando eventuali rigurgiti di asperità al Tribunale, affinchè eventualmente restringa i regime di visita o disponga le misure che si renderanno di volta in volta necessarie.

perdita affidamento figli
Se i genitori litigano possono perdere l’affidamento dei figli

Recentissime pronunce, tuttavia, vedasi ad es. tribunale di Milano 27 gennaio 2021, sono andate ben oltre, statuendo addirittura la perdita (decadenza) o l’affievolimento della responsabilità genitoriale.

Tale drastica misura, contemplata dall’art. 330 cc, può essere adottata nel caso in cui il genitore violi o trascuri i doveri ad essa inerenti o abusi dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.

In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratti o abusi del minore.

L’effetto della pronuncia è dirompente, giacchè determina la privazione di qualsivoglia potere decisionale del genitore verso la prole, a cui, gioco forza, dovrà essere nominato un tutore che ne curi gli interessi, avendo cura della persona, prendendo le determinazioni del caso (vedasi ad esempio scelte sanitarie, scolastiche ..) e amministri i beni: art 357 cc  

Nel caso posto all’esame della recente pronuncia del Tribunale meneghino, era in atto tra i coniugi una conflittualità asperrima, che sfociava nell’impossibilità di preservare le figlie dal conflitto, ormai troppo esacerbato, con un rischio di grave pregiudizio per le minori.

Il Tribunale disponeva, dapprima, l’affidamento ai servizi sociali e la collocazione dei minori presso la madre, statuendo anche il regime di visite col padre.

Le relazioni dei servizi, tuttavia, evidenziavano l’ulteriore acuirsi del disagio familiare, con costante attività di svilimento della figura dell’un genitore verso l’altro e determinava, nell’esasperazione, l’impossibilità di elementari decisioni nell’interesse della prole.

I percorsi di mediazione familiare e di supporto genitoriale intrapresi, si erano rivelati “terreno di recriminazioni reciproche” e di ingravescenza della conflittualità in atto, tanto da dover essere sospesi.

Inevitabile, conseguentemente, la decisione di affievolimento della responsabilità genitori per i coniugi in lotta, con limitazione attinente alle decisioni di maggior interesse per la prole e relative all’istruzione, all’educazione e alla salute e alla residenza delle minori.

Tali scelte, sentiti i genitori, sarebbero spettate all’ente affidatario delle figlie, in questo caso il comune, e gli eventuali relativi oneri economici sarebbero gravati a carico di entrambi i genitori nella misura del 50% ciascuno.

Significativo l’auspico conclusivo del Tribunale: che, una volta terminato il procedimento giudiziale, i genitori ripongano finalmente da parte il conflitto coniugale e si mettano seriamente in discussione come genitori, facendosi aiutare e supportare, proseguendo/avviando seriamente un percorso di supporto alla genitorialità e interventi di supporto psicologico in una concreta e reale consapevolezza circa la nocività delle loro dinamiche disfunzionali, partendo dalle proprie criticità e fragilità e non già da quelle dell’altro genitore, assumendo finalmente un ruolo genitoriale più maturo e responsabile nei confronti delle figlie, venendo incontro alle loro istanze e comprendendo le loro richieste e i bisogni effettivi”.

Pena “ulteriori limitazioni della responsabilità genitoriale e/o necessità di dover disporre un collocamento anche eterofamiliare”.

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Se i genitori litigano possono perdere l’affidamento dei figli

Scarica gratuitamente la guida degli avvocati Berto

affidamento figli

Richiesta di rinnovo permesso di soggiorno presentata in ritardo: cosa succede?

Richiesta di rinnovo permesso di soggiorno presentata in ritardo: cosa succede?

Può capitare che ci si dimentichi di rinnovare il permesso di soggiorno e ci si presenti poi in Questura oltre il termine stabilito dalla legge.

In proposito, ricordiamo che la domanda di rinnovo va presentata in linea generale almeno 60 giorni prima della data di scadenza (così l’art. 5 del Decreto Legislativo n. 286 del 1998).

Ma cosa accade se la domanda viene presentata in ritardo?

Alcune Questure considerano tassativo il termine e rigettano la domanda di rinnovo.

Il giudice, però, in molte sentenze ha chiarito che il termine di 60 giorni non è un termine obbligatorio (perentorio) ma solo “sollecitatorio” dato che ha la finalità di consentire il tempestivo disbrigo della relativa procedura ed evitare che lo straniero si possa trovare in situazione di irregolarità.

In sostanza, poiché ci vuole un po’ di tempo perché la Questura rilasci il rinnovo, la Legge ha previsto il termine di 60 giorni per fare in modo che, alla scadenza del permesso, si sia già provveduto sul suo rinnovo.

Richiesta di rinnovo permesso di soggiorno presentata in ritardo

Se, dunque, il permesso di soggiorno scade, senza che si sia richiesto il rinnovo, ci si troverà in una situazione di irregolarità (permesso scaduto), ma si potrà sempre presentare la richiesta di rinnovazione, anche oltre il termine previsto dalla legge.

Da sottolineare, però, che qualora venisse accertata la mancanza del permesso di soggiorno perché scaduto e non rinnovato, potrebbe scattare l’espulsione automatica.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, il provvedimento di espulsione dello straniero è obbligatorio e a carattere vincolato, sicché il giudice ordinario è tenuto unicamente a controllare, al momento dell’espulsione, l’assenza del permesso di soggiorno perché non richiesto (in assenza di cause di giustificazione), revocato, annullato ovvero negato.

Va, infine, sottolineato che, in caso di rigetto della richiesta di nuovo permesso di soggiorno o di un suo rinnovo, il giudice competente a pronunciarsi è il Tribunale amministrativo Regionale.

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Richiesta di rinnovo permesso di soggiorno presentata in ritardo

permesso di soggiorno

Consenso al vaccino ospite casa di riposo: chi lo presta se non vi è capacità del diretto interessato?

Consenso al vaccino ospite casa di riposo: a fronte dell’attuale emergenza pandemica vi è un decreto ad hoc.

Si ringrazia la collega, Stefania Cerasoli, per il prezioso contributo.

Come noto, nel nostro ordinamento il diritto di decidere a quali trattamenti sanitari sottoporsi è tutelato a livello costituzionale (cfr. artt. 13 e 32) e internazionale (cfr. Convenzione di Oviedo del 1997) e con apposita legge (n 219/2017).

Non solo.

Il paziente ha il diritto di ricevere una specifica informazione sul trattamento medico a cui deve sottoporsi in modo da poter esprimere un consenso, o un dissenso, consapevole.

Come si pongono questi principi nell’ambito delle case di riposo dove, troppo, spesso, sono ricoverate persone non in grado di esprimere una volontà consapevole?

 

 

licenziamento-lavoro-senza-vaccino.

 

Si tratta di un problema di estrema attualità.

Mi riferisco, infatti, alla somministrazione dei vaccini, trattamenti sanitari a tutti gli effetti, relativamente agli ospiti delle case di riposo spesso soggetti incapaci di esprimere una volontà libera e consapevole.

In tale scenario si colloca il Decreto Legge n. 1 del 05.01.2021 che, per l’attuazione del piano di somministrazione del vaccino contro il contagio da COVID-19, individua specifiche procedure per l’espressione del consenso alla somministrazione del trattamento, proprio per gli ospiti di residenze sanitarie assistite (o altre strutture analoghe).

L’Art. 5 del Decreto Legge n. 1 del 05.01.2021, ponendosi in continuità con la disciplina sul testamento biologico , viene ad assegnare un ruolo pressoché chiave ai direttori sanitari e ai responsabili medici delle Rsa.

Più precisamente, il citato articolo prevede che le persone incapaci ricoverate presso strutture sanitarie assistite esprimano il consenso al trattamento sanitario per le vaccinazioni anti Covid tramite il loro rappresentante legale (tutore, curatore, amministratore di sostegno o fiduciario di cui all’articolo 4 Legge n. 219/2017).

Nel caso in cui il soggetto si trovi in una situazione d’incapacità naturale e sia privo di un rappresentante legale , il direttore sanitario o, in difetto, il responsabile medico della residenza, “ne assume la funzione di amministratore di sostegno, al solo fine della prestazione del consenso”.

Analoga procedura è prevista nel caso in cui il rappresentante legale esista ma risulti irreperibile per almeno 48 ore.

 

licenziamento rifiuto vaccino
consenso al vaccino ospite casa di riposo

Si precisa, inoltre, che i soggetti incaricati di esprimere il consenso alla vaccinazione debbano, in ogni caso, sentire il parere del “coniuge, della persona parte di unione civile o convivente o, in mancanza, del parente più prossimo entro il terzo grado dell’incapace”.

Qualora questi soggetti acconsentano, il medico provvederà ad inviare una comunicazione al dipartimento di prevenzione sanitaria competente per territorio.

In ogni caso, il consenso non potrà essere espresso in difformità dalla volontà dell’interessato o, se lui non è in grado, dei parenti indicati. In quest’ultimo caso, il medico potrà richiedere, con ricorso al giudice tutelare, l’autorizzazione a fare comunque la vaccinazione.

Qualora non sia possibile procedere per mancanza di disposizioni di volontà dell’interessato, anticipate o attuali, o per irreperibilità o indisponibilità dei parenti, il consenso dato dal medico-amministratore di sostegno deve essere comunicato immediatamente al giudice tutelare che, nelle 48 ore successive, dovrò procedere alla sua convalida.

Si precisa che, qualora la convalida venga negata, il consenso sarà privo di effetti.

Nel caso in cui, invece, non pervenga alcuna comunicazione, il silenzio del giudice tutelare nelle successive 48 ore sarà da considerare un assenso alla vaccinazione.

È evidente a tutti la necessità di regole snelle dato l’alto numero di ospiti presenti nelle RSA e dall’estrema comorbilità che caratterizza gli ospiti stessi (si veda a tale proposito l’interessante studio posto in essere dall’Istituto Superiore di Sanità in merito ).

A parere di chi scrive, però, il decreto in esame non ha raggiunto l’obiettivo sperato venendo, invece, a creare appesantimenti e complicazioni.

Che senso ha, ad esempio, imporre all’amministratore di sostegno di sentire i famigliari quando, normalmente lo stesso amministratore di sostegno può prestare il consenso informato senza necessità di confrontarsi con i familiari del beneficiario?

Prima di concludere si segnala il documento redatto dall’VIII Sezione del Tribunale di Milano che, sempre nell’ottica di semplificare, per quanto possibile, il lavoro degli operatori sanitari, dei rappresentanti legali delle persone incapaci impegnati nell’applicazione delle nuove disposizioni, individua dieci situazioni tipo e la relativa disciplina.

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Consenso al vaccino ospite casa di riposo

casa di riposo, vaccino