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Autore: Studio Legale Berto

E’ possibile pattuire la restituzione del bene donato?

 

E’ possibile pattuire la restituzione del bene donato?

 

 

“Limitare il dono in anticipo dicendo: arriverò fin lì, ma non oltre, significa non dare assolutamente nulla.”
SAN FRANCESCO D’ASSISI

 

 

Apriamo il libro delle fiabe e leggiamo una storiellina triste triste: c’era una volta un padre molto buono, dai capelli bianchi bianchi. Un giorno, suo figlio gli chiese un aiuto perchè voleva sposarsi, ma non aveva un tetto dove andare a vivere con la giovane mogliettina. Il canuto genitore pensò, magnanimamente, di donare una casetta al discendente impiegando ogni denaro che aveva risparmiato. Dopo qualche mese dalle nozze, il figlio morì, la moglie, affranta ma nemmeno tanto, si fece una nuova vita e rimase a vivere nella casa ereditata dal marito col suo nuovo compagno, interrompendo ogni rapporto con l’anziano – ed ormai squattrinato – ex suocero.


Fine della storia. Lacrime. Fazzoletti.


Continuiamo noi avvocati la favoletta e cerchiamo di darle un finale diverso.


… il magnanime vegliardo, prima di compiere un atto così importante come la donazione, ben messo in guardia sui rischi  d’ambito successorio che un simile contratto avrebbe potuto comportare, si era informato se fosse possibile, eventualmente, revocare una donazione.


Aveva trovato un articolo su interessante sito internet  dove si affermava che i casi di revoca sono tassativi e limitati ad ipotesi molto remote (sopravvenienza di figli, ingratitudine).


Naaa, difficile potessero verificarsi simili eventualità.


Non si perse d’animo, si rivolse ad un avvocato, il quale consultò un enorme libro polveroso,il codice civile, girò qualche pagina e …. tac! Art. 791,  “condizione di reversibilità”.

 


Il donante può stipulare la riversibilità delle cose donate, sia per il caso di premorienza del solo donatario, sia per il caso di premorienza del donatario e dei suoi discendenti ”.


Vale a dire, chi dona può pattuire che se il donatario morirà prima di lui, il bene gli verrà restituito.

 

 

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è possibile pattuire la restituzione del bene donato

 


Andiamo con ordine.


Il patto di riversibilità è volto a valorizzare il carattere personale della donazione: il donante vuole beneficiare quello specifico soggetto, ed eventualmente i suoi discendenti, ma non altri.

Cosicchè, se il destinatario della donazione dovesse morire, il bene donato rientrerà nella sfera del donante superstite piuttosto che cadere nel patrimonio ereditario del donatario defunto da spartire tra i suoi eredi.

Innanzitutto vi deve essere un esplicito accordo per la riversibilità, pattuito al momento della stipula della donazione, o in epoca successiva, purchè comunque sia accettato da entrambi i contraenti: donante e donatario.


Tale clausola può avere ad oggetto tanto l’intero bene donato, quanto solo una parte di esso.


Il patto di reversibilità può comportare, a seconda delle previsioni, l’automatico rientro nella disponibilità del donante alla morte del donatario – senza che sia necessaria la cooperazione di alcuno per tale operazione – oppure il semplice obbligo per gli eredi di quest’ultimo a restituire il bene oggetto della liberalità.


La differenza non è di poco conto.


Se, infatti, si verte nella prima ipotesi – si parla di reversibilità reale – l’automatico recupero della titolarità del bene in capo al donante ha effetto verso chiunque, anche contro eventuali soggetti, terzi, che avessero acquistato il bene dal donatario.

 

“Il patto di riversibilità produce l’effetto di risolvere tutte le alienazioni dei beni donati e di farli ritornare al donante liberi da ogni peso o ipoteca”. Art 792 cc 


Il donante, pertanto, sarà perfettamente legittimato ad agire in rivendica per conseguire il possesso di ciò che è già ritornato di sua proprietà con la morte del donatario.

 

 

 

 


Nel caso in cui fosse stato pattuito il semplice impegno in capo agli eredi del beneficiario della liberalità a restituire il bene al donante in caso di morte del donatario, non si avrebbe alcun reintegro automatico della titolarità ma, per l’appunto, un semplice obbligo di restituzione del bene donato.


E gli obblighi, lo sappiamo, possono essere rispettati oppure disattesi.


Conseguentemente, in caso di vendita del bene donato, oggetto di patto di riversibilità “obbligatoria”, il donante sarebbe legittimato ad agire solamente contro gli eredi, affinchè gli procurino l’acquisto del bene, e non contro il terzo acquirente.


Se il reintegro non avvenisse, sarebbe dovuto un semplice risarcimento del danno al donante in capo agli eredi del donatario.


Come si è detto, il patto di riversibilità può contemplare la restituzione in caso di morte del donatario, ma anche procrastinarla alla morte dei suoi discendenti.


Anzi. La legge stabilisce che, nel caso in cui fosse stata convenuta una generica indicazione della riversibilità, questa riguarda la premorienza, non solo del donatario, ma anche dei suoi discendenti.


Nulla sembra vietare che i contraenti possano limitare la pattuizione alla premorienza di solo alcuni dei discendenti del donatario e neppure circoscriverla alla loro quota.


Da ultimo, per dare comunque una tutela al coniuge superstite del beneficiario di una donazione condizionata dal patto di riversibilità, potrà essere convenuto dalle parti – quindi sempre di accordo si discute – che il bene donato possa rientrare nella successione del donatario, per coprire almeno la quota di riserva che la legge contempla per il coniuge superstite.


E vissero tutti felici e contenti.

 

 

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Quali differenze tra ristrutturazione e nuova costruzione?

 

 

Differenze tra ristrutturazione e nuova costruzione: facciamo il punto

 

E’ ormai sottile la distinzione tra l’intervento di ristrutturazione e quello di nuova costruzione.


L’art. 10, comma 1, lettera c) del DPR 380/2001 qualifica, infatti, nell’ambito della ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti.


Il Consiglio di Stato nella recente sentenza 13.1.2021 n. 423 ha, tuttavia, osservato che “occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente” .


Secondo il giudice amministrativo, “quando un manufatto viene stravolto nelle sue caratteristiche essenziali, così come autorizzate, l’intervento è da qualificare non di “ristrutturazione” bensì di “nuova costruzione“.

 

 

Differenze tra ristrutturazione e nuova costruzione

 


Il Consiglio di Stato, nella sentenza in esame precisa che per “nuova costruzione” si intende “qualsiasi intervento che consista in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo (il cui tratto distintivo e qualificante viene, dunque, assunto nell’irreversibilità spazio-temporale dell’intervento) che possono sostanziarsi o nella costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati o nell’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma stabilita


Il Giudice, nella sentenza in commento, giunge ad affermare che “nella nozione di nuova costruzione possono rientrare anche gli interventi di ristrutturazione qualora, in considerazione dell’entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione dell’immobile, possa parlarsi di una modifica radicale dello stesso, con la conseguenza che l’opera realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da quella preesistente”.


Secondo il Consiglio di Stato, “la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione”.

 

 

 

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Abuso edilizio commesso da precedente proprietario: ne risponde anche il nuovo?

 

Abuso edilizio commesso dal precedente proprietario: è responsabile anche quello nuovo, incolpevole?

 

 

Capita di frequente che vengano accertati abusi edilizi dopo molto tempo dalla loro realizzazione e che il proprietario dell’immobile non sia più colui che ha materialmente commesso l’illecito.

In tal caso, può essere sanzionato il proprietario “incolpevole”?


Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa (si veda, ad esempio, la sentenza del Consiglio di Stato, 23.12.2020, n 8283) “il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino è non già l’accertamento di responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza d’una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia, per cui è inciso anche il proprietario non responsabile e colui che v’è succeduto a qualunque titolo”.


Osserva il Consiglio di Stato nella sopra citata sentenza che “la repressione degli abusi edilizi può esser disposta in qualsiasi momento, trattandosi di misure a carattere reale (piuttosto che di vere e proprie sanzioni) che colpiscono illeciti permanenti, ossia di misure oggettive in rapporto alle quali non può neppure esser invocato utilmente il principio d’estraneità dei proprietari all’effettuazione dell’abuso e, al più, l’eventuale estraneità assume rilievo sotto altri profili, non inficianti la legittimità dell’ordine di demolizione/rispristino”;


Gli “altri profili” cui fa riferimento il Consiglio di Stato sono fondamentalmente quelli relativi all’aspetto penale, dove in tal caso, va accertata la responsabilità effettiva.

Abuso edilizio commesso da precedente proprietario


In sostanza, secondo il giudice amministrativo, è legittimo l’ordine di demolizione irrogato all’attuale proprietario dato che “in materia di abusi edilizi la mancata individuazione del responsabile materiale non esclude che l’ordine di demolizione possa essere comunque rivolto al proprietario stesso giacché questi, anche se estraneo all’abuso, rimane comunque il destinatario finale degli effetti del provvedimento, il cui contenuto dispositivo è, per l’appunto, la demolizione di un bene su cui egli vanta il proprio diritto“.


In tal caso, osserva il giudice amministrativo, “la demolizione di un’opera abusiva è ingiunta al proprietario attuale non a titolo di responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell’illecito edilizio, ma in ragione del suo rapporto materiale con la cosa che lo rende, per il legislatore, destinatario passivo dell’ordine demolitorio/ripristinato


Osserva, infine, il Consiglio di Stato che la Pubblica Amministrazione non deve necessariamente notificare “l’ordinanza di demolizione/rispristino al responsabile dell’abuso, essendo nei rapporti esterni con la pubblica amministrazione i proprietari attuali i diretti legittimati passivi delle misure reali di rispristino ed essendo l’amministrazione libera di adottare tali misure direttamente ed esclusivamente nei loro confronti”;

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Abuso edilizio commesso da precedente proprietario

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Licenziamento rifiuto vaccino: è legittimo?

 

 

 

Licenziamento rifiuto vaccino contro Covid 19: in assenza di una legge che imponga l’obbligo vaccinale, è legittimo?

 

 

 

Licenziamento rifiuto vaccino: si ringrazia la Collega, Avv. Cinzia Rizzo, per il prezioso contributo.

 


Dai mass media avrete appreso che l’infezione dal COVID-19 può dare luogo ad un infortunio sul lavoro.

 


Quali azioni devono essere assunte dal datore di lavoro per mettere in sicurezza i luoghi di lavoro, da un lato, e quali obblighi incombono sul lavoratore, dall’altro?

 


Come noto, il datore di lavoro dovrà adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri lavoratori.


Dal campo scientifico sono giunte indicazioni in tema di prevenzione del contagio, confluite nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 24 aprile 2020, e ora finalmente i primi vaccini, non ancora contemplati nel protocollo.

Del resto anche l’obbligo di protezione previsto dalla legge prevede che le misure a tutela della salute siano aggiornate in base alla “esperienza e tecnica”; ora che il progresso scientifico ha reso disponibile il vaccino, è doveroso, per le aziende, prenderlo in considerazione!

 

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licenziamento rifiuto vaccino

 


Dunque, per garantire la sicurezza delle sedi di lavoro, il datore dovrebbe poter pretendere che ciascun dipendente si sottoponga a vaccinazione garantendo così l’incolumità del singolo e dei suoi colleghi?

 

Il vaccino contro il COVID-19 può essere considerato una di quelle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro che il datore è tenuto ad applicare?


Allo stato attuale non si rinvengono precetti normativi per effetto dei quali si possa immediatamente ritenere la possibilità, per il datore di lavoro, di richiedere la vaccinazione quale misura obbligatoria di prevenzione e, quindi, condizione di accesso sui luoghi di lavoro.

 

Certo, non tutti i rapporti di lavoro sono uguali.


Il giudizio sull’inadempimento del lavoratore che rifiuti la vaccinazione deve essere necessariamente condotto sul piano del singolo rapporto; è un giudizio che va individualizzato.


Ne consegue che diversa sarà la valutazione di un ospedale o una casa di cura privata nei confronti dei medici e infermieri che non intendano sottoporsi a vaccinazione, anche perché sarebbero esposti a responsabilità risarcitoria nei confronti di chi, ricoverato per curarsi, abbia contratto il virus in conseguenza di un comportamento negligente di un dipendente, rispetto alla valutazione del datore di lavoro che occupi un solo dipendente, non a contatto con il pubblico.

 


Infine, una volta che, caso per caso e in relazione ai diversi ambienti lavorativi, potrebbe essere considerata esigibile la richiesta di vaccinazione, resta la questione della sanzione applicabile al comportamento deviante del lavoratore.

 

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Non è detto, infatti, che il datore di lavoro possa comminare il licenziamento per rifiuto vaccino.

 

Il datore potrebbe adibire il lavoratore, che abbia scelto di non vaccinarsi, a posizioni compatibili con tale scelta.

Residuerebbe, infine, la possibilità di configurare il comportamento del lavoratore come un oggettivo impedimento alla prestazione di lavoro, in ragione di una impossibilità sopravvenuta.

Il datore di lavoro dovrebbe sospendere il dipendente e procedere al suo licenziamento solo quando siano venute meno le condizioni di un suo proficuo impiego (cioè quando sussistano ragioni organizzative o produttive che lo autorizzino).

 


Il problema potrebbe, in parte, moderarsi a fronte dell’utilizzo massivo dello smart working, o della adibizione del lavoratore a diverse mansioni e dell’utilizzo di specifici d.p.i. e di una diversa distribuzione degli spazi aziendali ed essere, quindi, relegato alle figure che hanno contatti con colleghi, clienti e fornitori.

Tuttavia, una volta ragionevolmente ristretto l’ambito entro il quale l’eventuale obbligo vaccinale sul lavoro sia rilevante, il vaccino, una volta disponibile, dovrà essere considerato una misura di prevenzione dei rischi indispensabile allo svolgimento della prestazione.

 


Probabilmente il Governo a determinate condizioni prevederà l’obbligatorietà della vaccinazione, e questa potrebbe essere oggetto di una specifica previsione per i luoghi di lavoro, innanzitutto per quelli in cui risulti altrimenti più difficoltoso il rispetto delle altre misure anti-contagio.

 

 

 

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Chi eredita la casa eredita anche i mobili che vi sono contenuti?

Chi eredita la casa eredita anche i mobili che vi sono contenuti?

Per vivere vendevo mobili. Il guaio è che erano i miei
(Les Dawson)

Ma lasciane un po’ anche a chi verrà dopo di te, non essere egoista.


Precisa bene, però, a chi spetta cosa, altrimenti….

Partiamo con una battuta, per smorzare l’aria resa incandescente da un quesito che frequentemente anima l’ambito successorio: chi eredita la casa, eredita anche i mobili che contiene?


Piglia tutto il cuccuzzaro?


Andiamo con ordine.


Nel nostro ordinamento la successione ereditaria può essere legittima – la legge stabilisce chi siano gli eredi e quanto a loro spetti – testamentaria – il de cuius istituisce eredi chi vuole, conferendo loro quanto e cosa voglia – o mista, in parte l’una e in parte l’altra.


Soffermiamoci su quest’ultima fattispecie: il testatore, col proprio atto di ultime volontà, oltre ad indicare i propri eredi, può anche dividere tra di essi i propri beni. Può stabilire, cioè, quali beni specifici compongano le singole quote.


Tale divisione può essere totale, ossia comprendere tutti i beni rientranti nel patrimonio del disponente, o parziale, ossia riguardare solo parte di esso.


Ebbene, la legge dispone che se nella divisione fatta dal testatore non reductil sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi sono attribuiti conformemente alla legge, se non risulta una diversa volontà del testatore.


Tradotto: i beni non menzionati nella divisione saranno attribuiti secondo le regole della successione legittima, a meno che il de cuius non abbia disposto che debbano essere ripartiti fra gli eredi secondo le quote fissate dallo stesso testamento.


Facciamo un esempio: nomino miei eredi Tizio e Caia.

Dispongo che la quota di Tizio sia costituita dalla casa al mare, mentre quella di Caia dalla casa in città.

Ora, se le due case attribuite ai suddetti esauriscono il patrimonio del de cuius, tutto a posto, nessun problema. Se vi fossero altri beni, questi saranno attribuiti secondo le regole della successione legittima, ove si dovranno individuare i successibili come stabilito dal codice civile (coniuge, discendenti, ascendenti, parenti prossimi che escludono i remoti, etc…).

A meno che il testatore abbia statuito che a Tizio e a Caia, o anche all’uno piuttosto che l’altra, siano attribuiti eventuali beni rimanenti nel patrimonio.

Ergo… per ritornare al tema che oggi ci occupa: chi eredita la casa non eredita necessariamente i beni mobili che vi siano contenuti, a meno che il testatore così non abbia espressamente statuito.


In difetto, sempre che non siano stati attribuiti ad altri soggetti, tali beni cadranno in successione legittima, oppure saranno devoluti agli eredi che il de cuius abbia nominato ed espressamente indicato con riferimento al residuo patrimonio, non menzionato nel testamento.

chi eredita la casa eredita anche i mobili?


Qualcuno dei lettori si chiederà: ma cosa rientra nel concetto di beni mobili?


Non è una domanda da profani, anzi.


Ci si sono accapigliati anche gli addetti ai lavori, dovendo sottoporre contrapposte argomentazioni alle pronunce dei giudici.

Il busillis più eclatante era nato dall’interpretazione di una disposizione testamentaria nella quale il de cuius lasciava l’immobile x e i beni mobili che vi erano contenuti all’erede Tizio.


La battaglia riguardava la possibilità di far rientrare o meno nel lascito anche i quadri di assoluto pregio che erano collocati nell’abitazione assegnata.

In prima battuta, tale eventualità era stata esclusa, ritenendosi i quadri come “arredi”, come tali non compresi tra i “mobili” oggetto del lascito.

La Suprema Corte ha censurato tale valutazione, facendo riferimento alla parola della legge.


L’art. 812 c.c., infatti, dà una precisa definizione di beni immobili, (il suolo, gli edifici, le costruzioni, a e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo) disponendo che “tutti gli altri beni” siano da considerarsi mobili.


Conseguentemente, l’espressione “mobili”, riferita ai beni che corredano un’abitazione, non autorizza di per sè ad escludere parte di essi, qualunque ne sia il valore, essendo comprensiva, anche nel lessico comune, di quadri, oggetti e arredi in genere.

Dà ultimo, deve essere necessariamente ricordato – ci eravamo soffermati già in precedenza – che in sede successoria al coniuge superstite, abbia o meno accettato la qualifica di erede, è attribuito ex lege un legato: il diritto di abitazione adibita a residenza familiare.


Ebbene, tale beneficio comprende anche l’uso dei beni mobili che ne facciano corredo se di proprietà del defunto o comuni.


Tali diritti spettano al coniuge superstite non solo nei casi di successione necessaria, ma anche ove si apra una successione legittima, in aggiunta alla quota per essi stabilita dalla legge.


Un’eventuale disposizione testamentaria in deroga, che attribuisca tali prerogative a soggetti diversi sarebbe priva di valenza.


Conseguentemente, se il testatore abbia lasciato la casa familiare e i beni mobili in essa contenuti ad un soggetto diverso dal coniuge, tale attribuzione dovrebbe essere intesa come limitata alla proprietà di detti beni, non già all’immediato diritto di poterne disporre, che sarà rimandato a quando il coniuge superstite avrà cessato di usufruirne.

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Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta: basta una scrittura privata

Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta: è sufficiente una scrittura privata

Il 3 dicembre scorso è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge 27 novembre 2020 n. 159 che ha introdotto, in sede di conversione, alcune significative modifiche al Decreto Legge 7 ottobre 2020 n. 125.

Rispetto alla precedente formulazione del Decreto, infatti, sono stati aggiunti all’articolo 1 due nuovi commi che prorogano nuovamente, per la quarta volta, il termine entro il quale è possibile provvedere, per Onlus, Odv, Aps ed Imprese Sociali, agli adeguamenti statutari richiesti dal Codice del Terzo Settore.

E’ stato così posticipato al 31 marzo 2021 il termine per Onlus, Odv, Aps e Imprese sociali per “modificare i propri statuti con le modalità e maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria al fine di adeguarli alle nuove disposizioni inderogabili o di introdurre clausole che escludono l’applicazione di nuove disposizioni derogabili mediante specifica clausola statutaria”, come previsto dall’articolo 101, comma 2, del Codice del Terzo settore.

Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta

Va notato che, in materia di adeguamento degli statuti, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali è recentemente intervenuto con la nota 10980 del 22 ottobre 2020 per chiarire due aspetti:

  • il primo, concernente le modalità da seguire e le maggioranze da raggiungere per l’adozione della delibera da parte dell’organo deliberativo competente.
  • il secondo, relativo alla forma (atto pubblico o scrittura privata) che l’atto modificativo deve rivestire.

In merito al primo profilo, il Ministero ha ricordato come l’articolo 101, comma 2 del Codice del Terzo settore consenta, entro la scadenza individuata dalla stessa norma, che qualora le modifiche siano limitate al recepimento delle disposizioni inderogabili del Codice, le stesse possano essere assunte con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria, che di norma prevede quorum costitutivi e deliberativi non qualificati e minori formalità e/o tempi più veloci per le convocazioni.

Tali “modalità semplificate” potranno però essere utilizzate a condizione che lo statuto o il regolamento effettivamente le prevedano in caso di assemblea ordinaria; qualora le modalità di cui l’ente si è dotato non prevedano differenze tra assemblea ordinaria e assemblea finalizzata alle modifiche statutarie, queste ultime dovranno comunque essere rispettate a pena di invalidità delle sedute.

Qualora si ecceda il limite temporale – che, come si è visto, è stato prorogato al 31 marzo 2021- sarà sempre necessario raggiungere i quorum di norma richiesti per le modifiche statutarie.

modifica statuto
Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta


In merito al secondo profilo, relativo alla forma dell’atto, il Ministero, con la nota sopra citata, si è espresso in merito alla seguente eventualità: se, in linea generale, un’associazione non riconosciuta e quindi priva di personalità giuridica, la quale sia stata costituita con atto pubblico, debba ricorrere alla medesima forma dell’atto pubblico per le modifiche statutarie o se, invece, sia sufficiente il verbale di assemblea registrato all’Agenzia delle Entrate.

In proposito, la nota ministeriale ricorda che il codice civile all’art. 14 prevede che soltanto per le le associazioni riconosciute (e le fondazioni) è richiesta la costituzione per atto pubblico; per le associazioni non riconosciute, invece, nulla si dice, se non che ordinamento interno e amministrazione sono regolati dagli accordi tra gli associati(36, c. 1, c.c.).


Il Ministero non ritiene, quindi, che la presenza in un ente di tipo associativo di un atto costitutivo redatto con atto pubblico in assenza di una specifica prescrizione normativa, possa inficiare la validità di successive delibere modificative risultanti da una semplice scrittura privata in quanto troveranno applicazione i principi civilistici di libertà della forma degli atti (ricavabile dal combinato disposto degli articoli 1325 e 1350 del Codice civile e valevole all’infuori dei casi in cui sia espressamente richiesta dalla legge una particolare forma) e di conservazione degli stessi.

Si noti: ciò vale, a meno che lo statuto dell’ente non abbia disciplinato eventuali modifiche, richiedendo espressamente l’atto pubblico.

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Modifiche atto costitutivo associazione non riconosciuta

terzo settore

TAV: COME SI CALCOLA L’INDENNITA’ DI ESPROPRIO

 

TAV: COME SI CALCOLA L’INDENNITA’ DI ESPROPRIO

 

 

L’art. 32 del Decreto del Presidente della Repubblica n.327 del 2001 (Testo unico in materia di espropri) stabilisce che “… l’indennità di espropriazione è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di cessione o alla data di emanazione del decreto di esproprio” .


Operazione preliminare è quindi quella di accertare “le caratteristiche del bene” soggetto ad esproprio.


Il Testo unico in materia di espropri prevede tre diverse fattispecie:

a) AREE EDIFICABILI
(art.37 comma 1 del D.P.R. 327 /01)

 

b) AREE LEGITTIMAMENTE EDIFICATE
(art.38 del D.P.R. 327/01)

Sia per le aree edificabili che per quelle già edificate l ‘indennità è determinata nella misura pari al valore venale.

Al fine di stabilire se un’area sia o meno da considerare edificabile, l’art. 37, comma 3 del DPR 327/01 prevede che “… si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell’emanazione del decreto di esproprio o dell’accordo di cessione. In ogni caso si esclude il rilievo di costruzioni realizzate abusivamente”.


In base al comma 4, “… non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l’area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa statale o regionale o alle previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del territorio… ovvero in base a un qualsiasi altro piano o provvedimento che abbia escluso il rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata“.

 

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c) AREE NON EDIFICABILI


Il Testo unico in materia di espropri, inizialmente, prevedeva che la determinazione dell’indennità da corrispondere nel caso di aree non edificabili (agricole) fosse basata su rigidi criteri tabellari legati al Valore Agricolo Medio (VAM). Il valore del terreno espropriato dipendeva quindi dalla coltura praticata al momento dell’esproprio e non al valore intrinseco del terreno, corrispondendo il valore del terreno al tipo di coltura in atto, in quel momento, nell’area da espropriare.


Con la sentenza n.181/2011 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali i commi 2 e 3 dell’art. 40 del DPR 327/2001 che appunto prevedevano l’impiego del VAM per la determinazione dell’indennità di esproprio, ed ha quindi riagganciato il valore del terreno espropriato al valore venale del terreno; In particolare, la Corte ha sancito che “occorre fare riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge


Attualmente si applica il VAM solo per determinare l’indennità aggiuntiva prevista dall’art 40 comma 4 del T.U. espropri.

Tale disposizione stabilisce che “al proprietario coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale spetta un’indennità aggiuntiva, determinata in misura pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticata”.

ESPROPRIAZIONE PARZIALE


Le cose si complicano quando bisogna determinare l’indennità nel caso dell’espropriazione parziale di un bene unitario, che si verifica quando il procedimento espropriativo non interessa l’intera proprietà ma soltanto una sua parte.


In tal caso, l’art. 33 del Testo unico stabilisce che “nel caso di esproprio parziale di un bene unitario, il valore della parte espropriata è determinato tenendo conto della relativa diminuzione di valore”.


In sostanza, si applica il criterio differenziale in base al quale l’indennità si ricava dalla differenza tra il giusto prezzo che l’immobile avrebbe avuto prima dell’espropriazione ed il giusto prezzo della parte residua dopo l’espropriazione stessa, in modo da ristorare l’intera diminuzione patrimoniale, ivi compresa la perdita di valore della porzione residua (non espropriata).


Secondo la giurisprudenza, perché si possa applicare questo criterio devono ricorrere le seguenti condizioni:

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– la parte residua del fondo deve essere intimamente collegata con quella espropriata da un vincolo strumentale ed obiettivo, tale da conferire all’intero immobile il carattere di un’unità economica e funzionale;


– il distacco di una parte del fondo deve influire oggettivamente (con esclusione, dunque, di ogni valutazione soggettiva), in modo negativo sulla parte residua.

 

 

 

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TAV: COME SI CALCOLA L’INDENNITA’ DI ESPROPRIO

 


Tali condizioni sono chiaramente esplicitate nella sentenza della Corte di Cassazione n. 9567 del 2018 secondo cui “il meccanismo di calcolo differenziale di cui all’art. 33 presuppone un collegamento tra parte residua e parte espropriata, tale da conferire all’intero immobile il carattere di un’unità economica e funzionale, cosicchè il distacco della porzione espropriata abbia influito, oggettivamente in modo negativo sulla quella residua. L’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo per effetto del provvedimento ablativo, deve, infatti, esser ristorata mediante l’indennità, che, com’è noto, deve coprire ogni pregiudizio, diretto ed indiretto, conseguente all’esproprio, tra i quali vi è certamente quello derivante dalla perdita di accesso in zone rimaste intercluse a seguito della realizzazione dell’opera pubblica”.


In definitiva, la determinazione dell’indennità di esproprio di un bene unitario o di parte di esso, sia esso edificabile o non edificabile, è ormai sempre calcolata in base al valore venale del bene al momento dell’esproprio.

 

 

 

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TAV: COME SI CALCOLA L’INDENNITA’ DI ESPROPRIO

Vendita immobile usucapito: è preliminarmente necessaria una sentenza che accerti l’acquisto della proprietà?


Vendita di immobile usucapito: senza provvedimento che accerti l’usucapione è possibile?

Premessa: tra il niente e il piuttosto, meglio il piuttosto.


Potremmo concludere qui il nostro articolo: se si avesse intenzione di vendere un immobile usucapito, sarebbe meglio essersi preventivamente dotati di un provvedimento che riconosca l’intervenuta usucapione piuttosto che esserne sprovvisti.


Questo per – in termini giuridici – “evitare teghe”, problemi, ottenere tombalmente un giudicato che ponga fine ad ogni questione in merito all’appartenenza dell’oggetto della futura vendita.

E se non avvenisse così?


Voglio dire, sono 50 anni che utilizziamo quel fondo come se ne fossimo i proprietari e nessuno ci ha mai detto nulla o è venuto a reclamare qualcosa. Ora avremmo la possibilità di venderlo ad un acquirente, che non ha tempo di attendere un provvedimento del tribunale che accerti l’usucapione.

Come si fa? Si può vendere ugualmente?

Facciamo un passo indietro, ma solo di un attimo, senza rifare tutta la storia dell’orso e perderci in meandri di discorsi giuridici già battuti, anzi fin troppo conosciuti in merito all’usucapione.


La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni.


Tale possesso deve essere stato continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico.

Stop.
Per ora basta così. Se lo desiderate, informazioni ulteriori potrete trovarle ai seguenti post (1, 2 , 34 ).

vendita senza dichiarazione di usucapione
vendita immobile usucapito: possibile senza sentenza?


Bene.


Poniamo caso che abbiamo tutti i requisiti richiesti dalla legge per l’acquisto a titolo di usucapione: ci vuole dell’altro? Ci vuole una sentenza che lo accerti?


No.


Avete letto bene, no!


Non lo diciamo noi, ma la Cassazione con una sentenza datata, non smentita, interessantissima.

La sentenza è dichiarativa non costitutiva


In buona sostanza, il nocciolo della questione risiede nell’attenta lettura della norma attinente l’usucapione di beni immobili, art. 1158 cc, la quale, lo abbiamo visto poco sopra, richiede il semplice possesso con i requisiti poc’anzi richiamati online patika.


Il possesso, di per sé, è una situazione di fatto, un potere, ma non un diritto, sicchè esso non può essere oggetto di compravendita, che ha ad oggetto il trasferimento della proprietà o di un diritto.


Se è protratto per oltre vent’anni, è pacifico, pubblico, ininterrotto allora determina l’acquisto per usucapione della proprietà: quella sì può essere trasferita con compravendita.


In sintesi, è l’esercizio stesso del possesso valido ad usucapionem che determina l’acquisto della proprietà, non già una sentenza di Tribunale. Questa, infatti, può tutt’al più accertare e dichiarare qualcosa che già è avvenuto  a prescindere, ma non già “costituire” il diritto di proprietà, in quanto quello si è già maturato, a titolo originario, per effetto del possesso stesso.


Argomentando diversamente, “si verificherebbe la strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario, ma non potrebbe disporre validamente del bene fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente”. Circostanza incompatibile con il normale contenuto del diritto di proprietà, che è assoluto.


Conseguentemente, la Suprema Corte ha espresso il seguente principio di diritto “Non è nullo il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell’usucapione, ancorchè l’acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario”.

vincolo espropriativo non rinnovato

Ma non ci vuole la trascrizione?


Potrebbe essere obiettato dai più eruditi che la legge impone la trascrizione delle sentenze dichiarative di usucapione, ai fini di segnare la continuità dei passaggi di proprietà che seguono un bene, quasi a volerne richiamare la necessità.

Tuttavia, tale incombente è qualificabile come “pubblicità notizia”, necessaria cioè a rendere noto a terzi una circostanza, l’avvenuto acquisto della proprietà, non già come requisito indispensabile per l’acquisto stesso.

Non tutti le ciambelle riescono col buco


Attenzione, e torniamo alla premessa  effettuata all’inizio di questo contributo, tra il niente e il piuttosto…meglio una sentenza che abbia messo le cose in chiaro e sia inattaccabile.


In difetto, un’eventuale trasferimento della proprietà potrebbe essere senz’altro oggetto di contestazioni da parte di chi si proclami reale proprietario del bene, negando l’usucapione e rivendicando il proprio diritto.


Chi abbia venduto, conseguentemente, dovrà farsi carico della responsabilità di quanto dichiari davanti al notaio: sia perchè potrà essere oggetto di contestazione da parte di terzi interessati, esponendo il bene ad una eventuale retrocessione al legittimo proprietario, con conseguenti danni che potranno essere richiesti dal (mancato) acquirente, sia per le conseguenze che la legge penale impone a chi rilasci dinanzi al pubblico ufficiale dichiarazioni false.

Il notaio, comunque, ha un obbligo di informazione e di chiarimento nei confronti delle parti: dovrà accertarsi che il compratore abbia ben chiaro il rischio che assume con l’acquisto.

L’acquirente, adeguatamente informato, per una maggior sicurezza del suo acquisto, in assenza delle visure ipocatastali ventennali, potrà, allora, richiedere specifiche garanzie, oltre quelle già previste dalla legge per l’evizione (art. 1483  e 1484 cc.) oppure preventivare un congruo risarcimento nel caso di esito infelice della vendita.  


Tra il niente e il piuttosto….

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Vendita immobile usucapito

Impegno al pagamento della retta della casa di riposo: si può ritirare?

 

 

 

Impegno al pagamento della retta della casa di riposo: una volta dato è per sempre?

 

 

Grazie alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo

 

 

Ce ne eravamo già occupati in un post ad hoc. 

Oggi troviamo conferma da una recentissima pronuncia della Corte d’appello di Venezia: è possibile revocare l’impegno al pagamento della retta della casa di riposo da parte dei familiari.

 

La Corte lagunare, con sentenza dello scorso 22 Settembre 2020, ha confermato il provvedimento di primo grado con cui il Tribunale di Padova aveva revocato il decreto ingiuntivo che era stato notificato al figlio di un’anziana ricoverata in una casa di riposo e notificatogli in quanto aveva interrotto di integrare la retta di ricovero, integrazione resa necessaria dall’insufficienza della pensione della madre.

 

 

 

Come noto, per accedere alle strutture residenziali l’anziano che si trova in condizione di bisogno deve presentare apposita domanda presso il distretto socio-sanitario di residenza al fine di richiedere la convocazione dell’Unità valutativa multidimensionale distrettuale (Uvmd).

 

Tale UVMD ha il compito di valutare la situazione dell’anziano sotto il profilo sanitario, assistenziale e sociale attraverso la compilazione della cd. scheda Svama.

La scheda Svama è, infatti, una scheda di valutazione che riassume tutte le informazioni utili a descrivere, sotto il profilo sanitario e socio-assistenziale nonché delle abilità residue, le condizioni dell’anziano.

 

Se l’équipe valuta l’inserimento in residenza per anziani come il progetto di assistenza che meglio risponde alle esigenze della persona, questa, sulla base di un punteggio di gravità determinato dalla condizione sanitaria, sociale e dall’assenza di alternative all’istituzionalizzazione, viene inserita in una “graduatoria” unica per tutta l’Ulss (Registro unico della residenzialità).

Nel momento in cui, presso una delle strutture indicate dall’utente tra quelle presenti nell’elenco sottoposto al momento della UVMD, dovesse rendersi disponibile un posto convenzionato, sarà cura della struttura contattare l’utente al fine di valutare l’inserimento.

 

È doveroso evidenziare che, anche una volta ottenuto l’inserimento nel Registro Unico di Residenzialità, non è affatto detto che il beneficiario riesca ad accedere immediatamente ad un posto letto in regime convenzionato. A fronte di tante richieste, solo alcune vengono evase, e non per assenza di posti letto ma per disponibilità di “quote” regionali sanitarie.

In altre parole, l’anziano verrà ad essere contattato dalle varie strutture prescelte solo nel momento in cui la sua posizione rientrerà nei limiti della programmazione di bilancio già stimata.

 

In ogni caso, nell’ipotesi in cui l’ingresso in struttura avvenga in regime convenzionato ossia in virtù dell’impegnativa di residenzialità , la casa di riposo, operando come una Pubblica Amministrazione, non potrà vantare somme in base ad accordi privati con l’utente e con i parenti di quest’ultimo, invocando di essere un soggetto privato.

Né tantomeno potrà subordinare l’ingresso in struttura alla prestazione di garanzia, come effettuato dalla RSA di cui al giudizio che ci occupa.

 

Questo principio, affermato in I grado dal Tribunale di Padova è stato confermato anche dalla Corte di Appello che, però, è andata oltre dichiarando la legittimità di un eventuale recesso da parte dei familiari relativamente al contratto sottoscritto ed avente ad oggetto l’integrazione della retta di ricovero.

 

termine impugnazione testamento per incapacità

 

 

La Corte, infatti, uniformandosi all’orientamento giurisprudenziale che ha avuto inizio con la sentenza n. 26863/2008 della Corte di Cassazione, III Sezione Civile, ha stabilito che nulla sia dovuto da parte del parente che si era obbligato qualora questi abbia esercitato il diritto di recesso.

 

E questo in primo luogo perchè l’impegno assunto dai familiari con la sottoscrizione del contratto è qualificato come assunzione di un’obbligazione di garanzia per futuri possibili debiti dell’obbligato, garanzia in relazione alla quale la facoltà di recesso è riconosciuta dalla giurisprudenza.

 

In secondo luogo perchè il parente che si è precedentemente obbligato avrà la “facoltà del recesso unilaterale, prevista dall’art.1373 c.c. per i contratti ad esecuzione continuata o periodica e che rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, in sintonia con i principi di buona fede nell’esecuzione del contratto” (cfr. Sentenza n.26863/2008 Corte di Cassazione, III Sezione Civile).

 

 

Gli impegni assunti dai parenti dei ricoverati in una Rsa o altra struttura a titolo di integrazione della retta di degenza sarebbero, quindi, sempre revocabili tramite l’invio alla struttura di una lettera a mezzo raccomandata con la quale si comunica la propria volontà di risolvere/recedere/revocare l’impegno economico.

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Impegno al pagamento della retta della casa di riposo

Revoca assegno mantenimento in caso di nuova relazione: non è indispensabile la coabitazione.

 

 

Alcune recenti pronunce ci aiutano a fare il punto sulla richiesta di revoca assegno mantenimento in caso di nuova relazione del coniuge beneficiario.

 

Mia moglie si è presa la casa, la macchina, il conto in banca, e se mi sposerò di nuovo e avrò dei figli si prenderà anche loro.
(Woody Allen)

 

Fino a quando?


Dico, fino a quando…sarò tenuto a corrispondere il mantenimento alla mia ex moglie?


Domanda tipo che viene sciorinata all’avvocato divorzista dopo qualche anno dallo scioglimento del matrimonio.


Noi ce ne siamo già occupati in passato, per cui siamo molto preparati (ah no? ecco i link 1, 2, 3, )

In buona sostanza, dobbiamo fare riferimento a “giustificati motivi sopravvenuti”: fatti, cioè, non considerati al momento della pronuncia separativa o divorzile, il cui sopraggiungere stravolge o modifica sensibilmente l’attualità e la congruità dei provvedimenti che sono stati assunti e la cui sussistenza giustifica un cambiamento delle statuizioni o di parte di esse.


Per citare alcuni esempi, casi frequenti sono la perdita o la contrazione del lavoro del coniuge onerato dell’assegno, il reperimento di occupazione da parte di quello che ne è beneficiario, la nascita di un figlio.

 

 

Revoca assegno mantenimento in caso di nuova relazione
Revoca assegno mantenimento in caso di nuova relazione

 

 


E una nuova relazione intrapresa dall’ex coniuge, può giustificare la modifica delle condizioni di separazione o divorzio e la revoca assegno di mantenimento?


Attenzione, già la legge sul divorzio statuisce che l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessi se il coniuge a cui debba essere corrisposto passi a nuove nozze.


Tale previsione poggia sul fatto secondo cui – con l’instaurarsi di una nuova famiglia – venga meno qualsivoglia solidarietà post coniugale derivante dal precedente matrimonio. Adesso ci sarà un nuovo coniuge obbligato all’assistenza materiale di quello, già precedentemente divorziato.


La giurisprudenza, oramai assestata, riconosce equivalente trattamento anche all’ipotesi di stabile convivenza more uxorio intrattenuta dal coniuge separato o divorziato.


L’instaurazione di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, facendo venir meno i presupposti per l’erogazione dell’assegno contributivo.


Il fondamento della cessazione dell’obbligo di contribuzione deve essere individuato nel principio di autoresponsabilità, ossia nel compimento di una scelta consapevole e chiara, manifestata con il compimento di fatti inequivoci, per aver dato luogo ad una unione personale stabile e continuativa, che si è sovrapposta al matrimonio.


La ricerca, la scelta e il concreto perseguimento di un diverso assetto di vita familiare, da parte del coniuge che pur abbia conseguito il riconoscimento del diritto all’assegno di mantenimento o di divorzio, fa venir meno il diritto alla contribuzione periodica, essendo la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole.


Si noti, deve trattarsi di una relazione caratterizzata dalla stabilità: non è necessario che si traduca in nuovo sposalizio, o che debba durare per anni annorum, ma che si riveli come legame connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti.
Non basta tuttavia la prova di una relazione amorosa, ancorché stabile, dell’ex coniuge ma, come detto, l’instaurazione di una famiglia di fatto basata su di una scelta esistenziale implicante una reale progettualità di vita, qual è quella propria della convivenza con altra persona, che fa sorgere obblighi di “reciproca assistenza morale e materiale”.

 

 

assegno divorzile nuova convivenza

 

Convivenza non significa coabitazione.


Un’interessante, quanto recentissima, sentenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare come – ai fini di rinvenire una stabile convivenza, sufficiente a far venir meno l’obbligo di versare l’assegno da parte dell’ex coniuge, non sia necessaria una permanente coabitazione, potendosi la relazione concretizzare anche in una comunione di vita, con spontanea e volontaria assunzione di reciproci impegni di assistenza morale e materiale, a prescindere dal fatto che la coppia viva sotto lo stesso tetto.
Anzi.


Ai giorni d’oggi occorre prendere atto del cambiamento sociale che stiamo vivendo, ove si instaurano e si mantengono rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in passato (anche nelle famiglie fondate sul matrimonio) ed è indice sintomatico del fatto che l’elemento della coabitazione è destinato ad assumere un rilievo sempre più recessivo rispetto ai tempi precedenti.


Appiattire il concetto di convivenza con quello della coabitazione significherebbe svilire una fetta considerevole dei rapporti di fatto intrattenuti dalle odierne coppie e trascurare che una famiglia può sussistere anche in luoghi diversi rispetto a quelli in cui uno dei due conviventi lavori, o debba trascorrere gran parte della settimana o del mese, vuoi per motivi personali o patrimoniali, vuoi per impegni di cura o assistenza, senza che per ciò venga meno la famiglia.


La Cassazione nota, altresì, che sussistono anche realtà in cui le famiglie si formano senza avere neppure, per un periodo di tempo più o meno lungo, una casa comune, intesa come casa dove si svolge la vita della famiglia ,in quanto ognuno dei due partners è tenuto per i propri impegni professionali o per particolari esigenze personali, a vivere o a trascorrere gran parte del proprio tempo in un luogo diverso dall’altro.


Non può essere sottaciuto come la recente legge sulle unioni civili n. 76/2016 abbia considerato la nozione di convivenza di fatto come relazione tra due persone maggiorenni unite da stabili legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, senza che sia richiesta una perdurante coabitazione.


Quest’ultima, semmai, potrà essere sintomatico indice dell’esistenza di una convivenza di fatto, senza per ciò assurgere a requisito imprescindibile.

 

 

Risarcimento danni per mancato pagamento assegno di mantenimento

 

E se, anche a seguito della nuova relazione, l’ex coniuge non abbia adeguati mezzi economici? E se poi anche la nuova convivenza terminasse? Può essere disposta la revoca della revoca assegno di mantenimento’ 

 

Au – to – re – spon – sa – bi – li- tà


Lo abbiamo detto.

La formazione di una nuova famiglia di fatto è espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole, che si caratterizza anche per l’assunzione del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua responsabilità post matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo. (cass. Civ. 6855/2015).

Con la nuova relazione, si è rescissa ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, poichè la nuova comunità familiare ha fatto venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, cosicchè il relativo diritto ne resta definitivamente escluso (cass. Civ. 32871/2018).

 

 

 

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Revoca assegno mantenimento in caso di nuova relazione

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