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Diritti ereditari del coniuge separato, parliamo della casa.

I diritti eredirari del coniuge separato sulla casa adibita a residenza familiare.

diritti ereditari del coniuge separato
Diritti ereditari del coniuge separato

Quando finisce un amore…non cessano i diritti ereditari del coniuge separato.
Ce lo dice l’art. 548 cc: il coniuge al quale non sia stata addebitata la separazione ha gli stessi diritti successori del coniuge separato.

Sono tali e quali i diritti ereditari del coniuge separato ?

Parrebbe di sì, ma con una precisazione eseguita da una recente pronuncia della Cassazione.
Infatti, vi è una disposizione di legge – l’art. 540 cc – che riconosce al coniuge, in caso di decesso del consorte, oltre ad una quota del patrimonio, variabile a seconda di quanti e quali concorrenti coeredi vi siano, anche i “diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano“.
La ragione di tale disposizione, come ricorda la Suprema Corte, è da rinvenire nella tutela “non tanto nell’interesse economico del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto nell’interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare“.
Non è, tanto, il bisogno dell’alloggio da parte del coniuge che diviene erede a essere tutelato, quanto altri interessi di natura non patrimoniale, che scaturiscono proprio dal rapporto matrimoniale intercorso, quali “la conservazione della memoria del coniuge scomparso, il mantenimento del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio”.

i diriritti ereditari del coniuge divorziato
Il coniuge separato ha gli stessi diritti di un coniuge non separato?

Ma approfondiamo ulteriormente il caso dei diritti ereditari del coniuge separato

Ebbene, i giudici ermellini si sono trovati a risolvere il seguente quesito: se al coniuge separato (a cui pure non è stata addebitata la separazione) spettano i medesimi diritti ereditari del coniuge non separato, gli competono anche i medesimi diritti d’abitazione della (ex) casa coniugale?
La risposta è stata: se il coniuge superstite nel frattempo ha stabilito la propria residenza altrove, e da un periodo di tempo apprezzabile, non può vantare tale diritto.

E’ una soluzione logica, oltre che di buon senso, e riposa sulla considerazione che se il coniuge a seguito della separazione è andato ad abitare altrove, non è più rinvenibile una “casa adibita a residenza familiare”. E ciò basti.
Specificamente, la Suprema Corte ha evidenziato che “Se il diritto di abitazione (e il correlato diritto d’uso sui mobili) in favore del coniuge superstite può avere ad oggetto esclusivamente l’immobile concretamente utilizzato prima della morte del “de cuius” come residenza familiare, è evidente che l’applicabilità della norma in esame è condizionata all’effettiva esistenza, al momento dell’apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare; evenienza che non ricorre allorchè, a seguito della separazione personale, sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi“.

La sentenza: Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-06-2014, n. 13407

 

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Separazione e figli

Separazione e figli: non si può imporre alla figlia adolescente la visita del padre se non lo vuole.

La pronuncia non è di ieri, risale all’anno scorso.
Ma fa riflettere.
E molto.

Un padre, separato, ricorreva al tribunale di Torino lamentando che la figlia quindicenne – collocata

 

separazione e figli
Separazioni e figli: le conseguenze

prevalentemente presso la madre –  non volesse saperne di frequentarlo, malgrado il provvedimento di separazione prevedesse specificamente il suo diritto di visita. Chiedeva, pertanto,  “di disporre  ogni necessario provvedimento volto a consentire al padre di esercitare la responsabilità genitoriale nei confronti della propria figlia” nonché di “accertare se l’impossibilità del ricorrente ad esercitare la responsabilità discenda da atti e/o condotte poste in essere dalla madre e, in caso positivo, condannarla alle sanzioni ed ai risarcimenti di legge“.
Costituitasi la moglie, che negava le deduzioni del marito, nel corso del procedimento veniva ascoltata la figlia minore, che ribadiva la ferma opposizione a frequentare il genitore, riferendo “di non avere mai avuto col padre un rapporto stretto, di non sentirsi a suo agio con lui, lamentandone la prepotenza e l’aggressività, e di provare ansia all’idea di vederlo, pur non escludendo la possibilità di rivederlo in futuro“.
La conclusione del Tribunale è la seguente.
Come è diritto di ogni figlio avere/mantenere rapporti significativi con ciascun genitore, è altrettanto legittimo, tanto per la mamma, quanto per il papà, mantenere rapporti affettivi con i figli.
Bene.
Il Giudice ha, tuttavia, specificato in ambito di separazione e figli che l ‘individuazione delle concrete modalità di esercizio e attuazione del predetto diritto del genitore a mantenere il legame con i figli deve avvenire avendo sempre come parametro principale di riferimento l’interesse superiore del minore e non può prescindere dalla considerazione delle specifiche circostanze del caso concreto.
separazione e figli le conseguenzeNel caso di specie, la figlia non era in fasce, ma tardo adolescente, ed il suo parere e stato d’animo dovevano avere assoluto conto nella vicenda.
Ebbene, non essendo stata provata l’asserita ingerenza della madre nelle convinzioni della minore, è sembrato inopportuno al Giudice imporre alla ragazza qualcosa che fermamente la turbava.
Anzi.
Eventuali rapporti, visite e incontri “coattivi” non sarebbero stati corrispondenti all’interesse superiore della figlia  “ad una effettiva e proficua bigenitorialità e ad una crescita serena ed equilibrata né … concretamente funzionali all’attuazione di quel diritto del genitore al mantenimento del legame con i figli, risultando anzi, in quanto imposti e non frutto di una spontanea rielaborazione relazionale, controproducenti e pregiudizievoli al recupero di una serena relazione padre-figlia nonché al benessere stesso della minore, cui il Tribunale sempre tende nell’adozione delle proprie decisioni“.
La decisione deve essere stata sofferta, infatti non è mai facile come materia la separazione e figli,  tanto che il Giudice ha invitato “le parti ad intraprendere un percorso di rafforzamento delle proprie capacità genitoriali e/o un percorso di mediazione familiare, nell’interesse esclusivo della minore” e incaricato “i Servizi competenti di prendere in carico la minore e di facilitare il recupero e il mantenimento del legame familiare“.
All’esito di questo percorso, sarà rimesso al “gradimento” della figlia e alla spontanea  evoluzione relazionale delle parti e della minore il recupero, senza costrizioni e nei tempi e nei modi ritenuti congrui dagli interessati, di un sereno e continuativo rapporto” tra papà e – ahimè, non più bambina – figlia minore.

La pronuncia: Tribunale di Torino, Decreto 04/04/2016

 

 

 

 

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Rimborso degli arretrati per il mantenimento del figlio

Se al mantenimento di un figlio ha provveduto solo un genitore, egli ha diritto ad un rimborso degli arretrati per il mantenimento del figlio? Vediamo un pò insieme in cosa consiste il rimborso equitativo.

Rimborso degli arretrati per il mantenimento del figlio

Il nostro codice civile ha abolito qualsiasi distinzione tra figli  “legittimi”, ossia nati nell’ambito del rapporto matrimoniale, e figli “naturali”, concepiti da coppia non sposata.
La novella legislativa ha comportato che non possano sorgere differenze tra figli, siano o no nati da genitori tra loro coniugati.
Ciò non toglie che è assai frequente, specie nell’epoca attuale dove alle nozze sono preferite le convivenze di fatto, la nascita di un figlio “extra matrimonio“.
Parimenti, capita – purtroppo – non di rado che anche le coppie non sposate si separino e che a provvedere al figlio ci pensi un solo genitore.
Addirittura, talvolta, il padre non riconosce il figlio avuto da una relazione extraconiugale e si vuole sottrarre dai conseguenti obblighi che derivano dal riconoscimento della prole.
Orbene l’obbligazione di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, essendo collegata allo status genitoriale, sorge con la nascita per il solo fatto di averli generati e persiste fino al mantenimento della loro indipendenza economica, con la conseguenza che nell’ipotesi in cui, al momento della nascita, il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, il quale abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento anche per parte dell’altro genitore, egli ha diritto di regresso nei confronti dell’altro per la corrispondente quota.

Approfondiamo la questione del rimborso degli arretrati per il mantenimento del figlio

mantenimento figlioUna recente sentenza della Corte d’appello di Lecce ha puntualizzato che al genitore che abbia provveduto a far fronte in via esclusiva al mantenimento del figlio spetti non solo il rimborso integrale delle spese “vive” corrisposte nell’interesse della prole, ma anche quello relativo alla quota parte dell’altro genitore relativa al complessivo mantenimento del figlio.
Tale rimborso ha contenuto “riparatorio” e vale ad indennizzare, per l’appunto, il genitore, che ha riconosciuto il figlio, per gli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole.
Poichè nel nostro ordinamento le obbligazioni avente natura indennitaria possono essere liquidate “equitativamente“, ossia secondo una valutazione che prescinde dalla specifica documentazione dell’ammontare del danno subito, la cui dimostrazione può risultare assai gravosa se non impossibile, la loro liquidazione potrà appunto appoggiare su un criterio equitativo e dovrà, comunque, tener conto dei redditi e delle sostanze con cui entrambi i genitori avrebbero potuto far fronte al mantenimento del figlio.

Nella fattispecie, sulla valutazione che fosse ” impossibile pervenire ad una esatta determinazione del dovuto atteso che non è pensabile che la madre conservi scontrini o ricevute di tutte le spese sostenute nell’interesse della figlia, anche in considerazione del lungo tempo trascorso tra la nascita di quest’ultima e l’introduzione del giudizio di primo grado (anni 32)” si è ritenuto legittimo “fare riferimento al criterio equitativo”.
La sentenza: App. Lecce, Sent., 07-07-2016

 

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Restituzione somme tra coniugi: cosa succede quando l’appartamento è solo dell’altro?

Restituzione somme tra coniugi. Il coniuge non può chiedere il rimborso delle spese di ristrutturazione dell’appartamento di proprietà esclusiva dell’altro.

Un progetto, il matrimonio, che impone diritti e obblighi.

restituzione somme tra coniugi per ristrutturazione
Restituzione somme tra coniugi per ristrutturazione

Dal giorno delle nozze i coniugi concordano l’indirizzo della vita matrimoniale e si assumono importanti oneri.
Tra essi quello all’assistenza materiale ed alla contribuzione ai bisogni della famiglia, ognuno in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 143 cc)

Capita sovente il caso in cui un consorte sia già proprietario di un immobile prima del matrimonio ma che, per renderlo adattabile alle esigenze della famiglia costituita, siano necessari interventi di ristrutturazione.
Che ne è se il coniuge, non proprietario, impieghi denaro personale per le opere di riattamento dell’appartamento dell’altro? E’ possibile in questo caso la restituzione somme tra coniugi?
Una recente sentenza della corte d’Appello di Lecce ci dice di no.

restituzione somme tra coniugiIl diniego trae origine proprio in considerazione dell’obbligo contributivo che abbiamo richiamato all’inizio del post.
Poichè è obbligo dei coniugi – di entrambi – partecipare ai bisogni della famiglia, allorquando si impieghino somme a tal fine esse non sono rimborsabili ma frutto, per l’appunto, di un preciso dovere coniugale.
A poco vale l’obiezione che si sia incrementato il valore di un bene che rimarrà nell’esclusiva proprietà di un solo consorte, ne’ che le spese di ristrutturazione possano travalicare i limiti strettamente necessari per l’adempimento dell’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia.

La pronuncia della corte pugliese è perentoria: ” i bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti in virtù della disposizione citata, non si esauriscono in quelli minimi, al di sotto dei quali verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi; situazioni che, quindi, indipendentemente dal valore economico, sono comunque riconducibili alla logica della solidarietà coniugale“.
La sentenza: App. Lecce Sez. II, Sent., 04-07-2016

 

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Abbandono del tetto coniugale

Abbandono del tetto coniugale: quando è possibile?

Con il matrimonio nascono diritti e doveri per i coniugi.
Oltre alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia vi è quello della coabitazione.
Tale obbligo viene ovviamente meno con la separazione, quando i coniugi saranno  autorizzati a vivere in abitazioni diverse.

abbandono del tetto coniugale
Abbandono del tetto coniugale, solo in caso di separazione?

Ma bisogna aspettare un provvedimento del Tribunale per uscire di casa? Quando è possibile l’abbandono del tetto coniugale?
La risposta ce la dà indirettamente la legge stessa, nonchè numerose pronunce giurisprudenziali.
L’art. 146 cc innanzitutto stabilisce che la “proposizione della domanda di separazione o di annullamento o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio costituisce giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare“.
Ne consegue che il portare le carte in tribunale, chiedendo la separazione, è sufficiente per potersi allontanare dalla casa coniugale, senza dover attendere la pronuncia giudiziale.
Non è tutto.

Il sottolineare che la predetta attività giudiziale costituisca giusta causa di allontanamento, ha portato gli interpreti del diritto ed i giudici a domandarsi quali altre cause possano legittimare la dipartita di un coniuge.
La risposta non è univoca in quanto plurimi e circostanziati possono essere i casi della vita.

Senz’ombra di dubbio è idonea a legittimare l’uscita dalla casa coniugale la presenza di circostanze che possano arrecare grave pregiuzio per i figli: la condotta violenta di un genitore, una spasmodica tensione familiare che comporti una intollerabilità della convivenza. Circostanze che, ovviamente, e proprio per la presenza di figli minori, dovranno essere poi oggetto di rigorosa valutazione da parte del giudice.

Quando è consentito l'abbandono del tetto coniugaleTroviamo poi numerosi provvedimenti che hanno determinato pronunce su svariati e differenti ipotesi di abbandono del tetto coniugale.
Un filo comune è senza dubbio costituito da ragioni di carattere interpersonale che non consentano la prosecuzione della vita in comune,  vale a dire dalla presenza di situazioni di fatto di per sé incompatibili con la protrazione della convivenza, ossia tali da non rendere esigibile la pretesa di coabitare.
La Cassazione ha, per esempio, ritenuto legittimo l’allontanamento della moglie a causa dei frequenti litigi domestici con la suocera convivente e conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra gli stessi coniugi  (Cass. civ. Sez. I Ordinanza, 24/02/2011, n. 4540).
Oppure, la mancanza di intesa sessuale potrebbe costituire una “giusta causa” per l’abbandono della casa familiare da parte di uno dei coniugi, “mancando un rapporto sereno e appagante” (Cass. civ. Sez. I, 31/05/2012, n. 8773).
La decisione di andarsene di casa deve essere frutto di una severa valutazione, pena conseguenze che possono essere non di poco conto.
Al coniuge che lasci l’abitazione familiare, senza valido motivo e comunque senza il consenso dell’altro, verrà sospeso il diritto all’assistenza morale e materiale, pur avendovi necessità.
Non potrà, pertanto, chiedere un contributo al mantenimento da parte dell’altro coniuge nelle more di una illegittima dipartita da casa.
L’arbitrario abbandono del tetto domestico potrebbe essere causa di una pronuncia di addebito, costituendo violazione di un obbligo matrimoniale.
Conseguentemente il coniuge che pone in essere tale condotta potrebbe perdere anche i propri diritti ereditari nei confronti dell’altro, oltre che il diritto al mantenimento a seguito della separazione.

 

 

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Comunione dei beni: i soldi dello stipendio appartengono solo a chi li guadagna.

I soldi dello stipendio appartengono solo a chi li guadagna anche in comunione dei beni.

comunione dei beni
Comunione dei beni: io guadagno, sono anche tuoi i soldi?

Avete letto bene.
Lo prevede la legge nella comunione dei beni.
L’art. 177 cc stabilisce infatti che “i proventi oggetto dell’attività separata di ciascuno dei coniugi” costituiscano oggetto di comunione solo se “non consumati allo scioglimento della comunione”.

Ne discende che, vigente la comunione dei beni, i redditi individuali dei coniugi, tanto che si tratti di redditi di capitali, quanto che si tratti di proventi della loro attività separata,  rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a diventare comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di scioglimento della comunione.

Si parla in tal caso di comunione de residuo, ossia vi rientra solo ciò che resta.

Servono delle precisazioni.
Quello che un coniuge guadagna col proprio personale lavoro, gli appartiene esclusivamente fino allo scioglimento della comunione, allorquando sarà di spettanza anche dell’altro. Ciò non significa che egli possa segregare il suo patrimonio e fare letteralmente ciò che vuole.

  •  In primis, dovrà contribuire ai bisogni della famiglia “in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo” (art 143 cc ).
  • Non solo: egli dovrà provvedere all’assistenza materiale dell’altro coniuge, nonchè al mantenimento dei figli (art 147 cc).

E non è poco.
Supponiamo che dal soddisfacimento di detti obblighi avanzino ancora dei denari, il coniuge titolare di tali importi potrà impiegarli come crede.
Se dovessero, tuttavia, essere acquistati dei beni, anche separatamente, essi entrerebbero a far parte automaticamente della comunione, giusta la previsione secondo cui  vi rientrano “gli acquisti compiuti dai due coniugi, insieme o separatamente, durante il matrimonio” (art. 177 cc).

Sulle modalità ed i fini dell’impiego delle somme personali, la giurisprudenza è stata a lungo oscillante.
Dapprima, si richiedeva che il coniuge titolare dei proventi di attività separata dovesse dimostrare che i medesimi erano stati impiegati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione, cosicchè – pur personali – il fine del loro utilizzo doveva ricadere sempre nell’ambito familiare.

comunione dei beni 2
Comunione dei beni solo dopo la separazione?

Un più recente, ed ormai assodato, filone giurisprudenziale è di segno avverso: una volta soddisfatti i bisogni della famiglia, il coniuge titolare di reddito personale può impiegarlo come crede, anche per fini esclusivamente a lui propri, senza che sia ammesso alcun sindacato da parte del coniuge non precettore sul relativo utilizzo.

Capita di frequente che, in odor di separazione, vi sia la corsa da parte dei coniugi a prelevare somme dal proprio conto corrente personale, su cui siano confluiti gli introiti del proprio lavoro, onde sottrarre tali importi dalla conseguente comunione che si verrebbe a creare “de residuo” al momento della separazione.

Si ritiene, in tal caso, che sia opportuno operare un’attenta valutazione della ratio normativa della comunione.
Il codice, infatti, esclude dalla contitolarità comune i “proventi non consumati” e non già quelli “sottratti” ante separazione.
Il titolare di importi, magicamente usciti dal conto corrente pochi giorni prima la prima udienza in Tribunale, dovrà dimostrare che i medesimi sono stati impiegati e pertanto non esistono più, altrimenti dovrà corrisponderne la metà all’altro consorte.

 

 

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Fino a quando bisogna mantenere i figli?

Fino a quando bisogna mantenere i figli? Eh eh eh vediamo un pò…

fino a quando bisogna mantenere i figli?
Fino a quando bisogna mantenere i figli?

“Nella vita bisogna fare tre cose“, recita un noto proverbio Zen: “fare un figlio, scrivere un libro, piantare un albero“.
Le ultime due attività, possono essere intraprese con leggerezza, in quanto possono anche non lasciare il segno.
Per la prima, mettere al mondo un figlio, bisogna pensarci bene, in quanto si intraprende un cammino destinato a comportare oneri e onori per molto, molto tempo.

Lasciando da parte le innumerevoli – e più importanti –  sfaccettature che colorano la nascita di un bimbo dal punto di vista affettivo/umano, è quesito assai ricorrente per i genitori il “fino a quando dovrò mantenere mio figlio?“.
Domanda assai più frequante in un’epoca, come quella attuale, dove si assiste assai diffusamente al fenomeno – poco elegantemente – denominato da un recente ministro dell’economia dei “figli bamboccioni“, che sembrano prendere sempre più tardi il volo dal nido familiare.

bamboccioni
Obbligo di mantenere i figli fino a quando non abbiano acquisito una stabile indipendenza economica

C’è, al riguardo, la falsa convinzione di dover provvedere alla propria prole fino al compimento dei 18 anni: ma la maggiore età non basta, di per se’ sola, a campare.
Ed allora: fino a quando bisogna mantenere i figli?
Partiamo dal dato normativo: l’art. 147 cc. impone ai coniugi  “l’obbligo di mantenere, istruire, educare  e assistere moralmente i figli“.
Come vi debbono provvedere i genitori?
nel rispetto delle loro – dei figli –  capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni.
Bisogna, pertanto, aver cura dei discendenti non con lo stampo – nella identica maniera per tutti – ma in ragione dei particolari connotati che caratterizzano il singolo figliolo.
E qui è il bello.
Sì, perchè si dovrà mantener fede a tali obblighi fino a quando il figlio, sia pur divenuto maggiorenne, non abbia acquisito una stabile indipendenza economica  (da intendersi quale reperimento di uno stabile lavoro che gli consenta un tenore di vita adeguato e dignitoso) ovvero sia stato posto nelle concrete condizioni per essere autosufficiente e, ciò nondimeno, pur potendo, non si sia attivato almeno per la ricerca seria e concreta di un lavoro.
Attenzione, però.
Non un lavoro qualunque, ma un’attività possibilmente adeguata alle sue aspirazioni e al percorso formativo di studi svolto.
Pertanto, mentre verrà meno l’obbligo di mantenimento del figlio che abusando della disponibilità dei genitori, tenga un comportamento di inerzia o di rifiuto ingiustificato di occasioni di lavoro (ovvero di colpevole negligenza nel compimento del corso di studi intrapreso) e, quindi, di disinteresse nella ricerca dell’indipendenza economica, va marcatamente sottolineato come l’obbligo degli ascendenti sia improntato all’assistenza materiale “nel rispetto delle inclinazioni naturali e aspirazioni” della prole, per cui se un figlio sia disoccupato, bisognerà porre attenzione al motivo di tale inattività e valutare se la mancanza di impiego sia  legata all’assenza di possibilità lavorative ancorate alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e postuniversitario del figliolo ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione.
In tal caso è doveroso per i genitori contribuire al suo sostentamento, fino a quando non avrà trovato la sua strada.

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Affidamento figli. Se un genitore separato va a lavorare altrove, che ne sarà dei figli?

Affidamento figli: Il nostro ordinamento è improntato alla massima tutela della prole, sia nell’ambito della vita matrimoniale, sia dopo la separazione.

affidamento figli
Affidamento figli. A chi spetta se vado a lavorare lontano?

Da un lato, infatti, all’art. 315 bis, il codice civile stabilisce che “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni..” e che “ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti“.
Dall’altro, il legislatore ha sancito che – a seguito di separazione o divorzio, “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.” Per realizzare tale finalità “il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa” (art 337 ter cc).

E’ da chiedersi come la massima tutela dei figli possa essere “combinata” con le prerogative di vita dei genitori, anche lavorative.

In particolare, capita – ed in tempo di crisi sempre più di frequente – che uno degli (ex) coniugi debba trasferirsi in altra città, magari molto lontana rispetto a quella dove risiedono i figli – per esigenze lavorative.
Che ne sarà dei figli? A chi spetterà l’affidamento dei figli? Il genitore deve rinunciare alle proprie ambizioni?  Che ne sarà del paritario diritto dell’altro genitore ad avere un rapporto continuativo con la prole?
La questione non è da poco conto.
Se ne sono occupati parecchio i Tribunali e si rinvengono parecchie pronuncie al riguardo.
Da ultima, una recente sentenza della Cassazione ha ribadito un solco già consolidato.
In buona sostanza, i figli erano affidati in via condivisa ad entrambi i genitori.
La loro – bruttissimo termine – “collocazione” era “paritaria”, ossia con eguale permanenza presso la residenza del papà e della mamma.
Il padre era spesso fuori città per motivi di lavoro.
La mamma, di recente, aveva vinto un concorso che avrebbe imposto il trasferimento in un altra città.
Che ne sarebbe stato dei figli? Entrambi i genitori avevano manifestato la volontà di tenerli presso la propria città e residenza.
La Corte, dapprima, ha valutato  quale dei due coniugi fosse il più indicato ad essere collocatario prevalente della prole: e qui è stata ritenuta maggiormente idonea la mamma, proprio perchè assicurava maggior presenza giornaliera, rispetto al marito, spesso fuori casa e, comunque, dando per consolidato come la madre, in genere, fosse il soggetto più portato a meglio seguire i figli in età prescolare.
Quindi, passando ad esaminare la circostanza della necessità di trasferimento della mamma, ha statuito che tale eventualità fosse una legittima prerogativa della stessa, avendo diritto ogni cittadino alla propria massima realizzazione.
affidamento congiuntoEd infatti la Corte ha evidenziato che ”  trasferimento della propria residenza e sede lavorativa sono oggetto di libera e non conculcabile opzione dell’individuo, espressione di diritti fondamentali di rango costituzionale
Vi è di più: si precisa che “il coniuge separato che intenda trasferire la sua residenza lontano da quella dell’altro coniuge non perde per ciò l’idoneità ad avere in affidamento i figli minori o ad esserne collocatario“.
Atteso quanto sopra, e dato quindi per acclarata come legittima e tutelabile l’ambizione di uno dei genitori a realizzarsi lavorativamente, trasferendosi in altra città, al giudice non rimarrà che decidere chi tra padre e madre sia più indicato per essere il collocatario prevalente dei figli, improntando la sua valutazione all’esclusivo e preminente interesse di questi ultimi.
E nel caso di specie…. ha prevalso la mamma, “per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario“.

La sentenza: Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-09-2016, n. 18087

 

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Addebito della separazione: il cambio di credo religioso non ne è di per sè motivo

Addebito della separazione per motivi di cambio credo religioso.

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Addebito della separazione per motivi di cambio credo religioso.

Lo dice la legge: “I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare… A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”.

Una volta “salpata” la barca della vita matrimoniale, marito e moglie debbono concordare dove e come dirigerla e su entrambi – o meglio, su ognuno di essi – spetta il compito di adoperarsi per il conseguimento degli obiettivi fissati.

Orbene: “panta rei”, tutto scorre. Anche le persone possono cambiare.

Cosa ne è se uno dei coniugi dovesse modificare il proprio credo religioso, nel corso del rapporto matrimoniale?
Senz’altro talora potrebbero nascere sconvolgimenti, modifiche di abitudini, financo il modo di vivere.
Che ne sarà dell’indirizzo di vita concordato al momento delle nozze?

Per i giudici della Cassazione, le differenti scelte religiose intraprese da un consorte costituiscono l’attuazione di diritti inviolabili della persona, tra i quali vi è quello, costituzionalmente garantito, “di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume” (art. 19 Cost.).

Ecco allora che “nonostante l’incidenza sull’armonia della coppia, il mutamento di fede religiosa da parte di uno dei coniugi e la conseguente partecipazione dello stesso alle pratiche collettive del nuovo culto, non possono rappresentare, in quanto tali, ragioni sufficienti a giustificare la pronuncia di addebito della separazione“.
Ciò ovviamente purchè la nuova fede non imponga e si traduca in comportamenti incompatibili con la vita coniugale e con i conseguenti obblighi genitoriali, tali da determinare l’ improseguibilita’ della convivenza o grave pregiudizio per l’interesse della prole.
La sentenza: Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 19-07-2016, n. 14728

 

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Disturbo della quiete pubblica : Il figlio fa “fiesta”, mamma e papà rispondono per i rumori molesti.

Disturbo della quiete pubblica: chi risponde se il figlio è minorenne?

disturbo della quiete pubblica
Disturbo della quiete pubblica. Chi ne risponde se chi ne è causa è minorenne?

Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
Si può cioè commettere un reato tramite una condotta inerte a fronte di un evento lesivo.
Per intenderci, si può commettere un omicidio sparando o lasciando morire di fame la vittima.
Si può anche far rumore, provocando disturbo della quiete pubblica, personalmente o lasciando che i figli minorenni facciano “fiesta”.
In ogni caso ne rispondono i genitori, che hanno obblighi educativi nei confronti della prole e pertanto debbono vigilare ed impedire che questi commettano scelleratezze o rechino danni ad altri.
Ciò tanto in sede civile, quanto in ambito penale.

La sentenza, recentissima, della Corte di Cassazione ribadisce il concetto ed il monito ad educare adeguatamente i figli anche nell’ambito del prevenire il disturbo della quiete pubblica naturalmente.
In buona sostanza: il “piccolo di casa”, aveva organizzato un party a casa dei genitori, assenti.
Ne è scaturito un pandemonio, con notevole disturbo del sonno dei vicini.
I genitori vengono tratti a processo davanti al Giudice penale, con l’accusa del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone (art. 659 cp).
Ne è conseguita la condanna, confermata in appello e poi davanti alla Corte Suprema, sul presupposto in base al quale i genitori sono tenuti a mantenere, istruire, educare i figli (art. 147 cc)
Fino a quando essi siano minorenni, dei fatti illeciti ne rispondono madre e padre, a sensi dell’art. 2048 cc, a meno che non provino di non aver impedito l’evento.

Penalmente, a fronte della richiamata disposizione che equipara il non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire al causarlo, i genitori sono stati ritenuti responsabili di aver permesso i disturbanti schiamazzi e rumori da parte del figlio che hanno generato la vicenda.
Ciò non esclude, ovviamente, la concorrente responsabilità del minore, se ultraquattordicenne e capace di intendere e di volere.

Tant’è: culpa in educando et in vigilando.
Bisogna adeguatamente educare i propri figli e vigilare sulle loro azioni.

La sentenza: Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 22-09-2016) 15-12-2016, n. 53102

 

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