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Cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale: la rendita vitalizia ed i diritti degli eredi

 

 

Il punto, e qualche virgola, sul cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale.

 


“Rancurare”.


In dialetto veneto dicesi così dell’atto di prendersi cura, di accudire, di assistere una persona, specie se sia malata.

Una circostanza nobile per chi la esegue, preziosissima per chi la riceve.

Frequentemente il destinatario delle cure si ricorda del suo benefattore, privilegiandolo in sede testamentaria.

Altre volte, per ottenere più garanzie e disciplinare la questione, ci si mette a tavolino e si imbastisce un contratto che, in termini giuridici, viene denominato rendita vitalizia impropria o assistenziale.


In che cosa consiste.


Il nostro codice civile non contempla specificamente questo tipo di contratto, bensì la rendita vitalizia, che è l’accordo con cui una parte trasferisce ad un’altra la proprietà di un bene immobile o di un capitale in cambio della corresponsione di un vantaggio periodico e protratto anche per tutta la durata della sua vita.

Quando il “vantaggio” conferito come controprestazione, consiste nel fornire vitto, alloggio o assistenza, per tutta la durata della vita ed in correlazione ai suoi bisogni alla persona che ha trasferito la proprietà dell’immobile, parliamo di vitalizio assistenziale, così definito dalla giurisprudenza.

 

 

La circostanza da precisare chiaramente, per capire il tipo di affare di cui stiamo parlando, è che si tratta di un contratto “aleatorio”.

Alea iacta est”, pronunciò Giulio Cesare,varcando il Rubicone. Il dado è tratto.

Noi sappiamo che quando si tirano i dadi non si sa come vada a finire e che numero possa uscire.


Ecco, il contratto aleatorio è quello dove non è possibile, anzi non si deve predeterminare l’equilibrio tra prestazione e contraprestazione, non si deve sapere chi ci perde e chi ci guadagna, essendo l’elemento incertezza essenziale per la validità stessa del contratto.


Come in ambito assicurativo non è dato prefissare se, pagando la cifra di tot euro l’anno, per il premio ci possa guadagnare la compagnia – nel caso in cui non si verifichi nessun sinistro, incamerando la rata senza fornire alcuna prestazione – oppure l’assicurato, vedendosi garantito di somme molto superiori a quanto corrisposto per la polizza nell’ipotesi di incidente, così pure deve essere per il vitalizio: deve essere incerto se l’affare possa volgere a vantaggio di chi acquisisce il bene immobile o di chi invece sia beneficiato dalla prestazione pattuita in cambio per l’affare.


Anzi, è proprio nell’ipotesi in cui una delle parti ci possa rimettere che la natura particolare di questo tipo di contratto diviene evidente: la legge, infatti,stabilisce espressamente che si sia tenuti a pagare la rendita, il servizio, per tutto il tempo pattuito “per quanto gravosa sia divenuta la prestazione” (art. 1879 cc), senza che vi sia la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, nemmeno offrendo di restituire il bene ricevuto per farla finita.


Se questa incertezza, questo rischio, viene a mancare il contratto è nullo.


La circostanza non è di poco conto.


Facciamo un esempio.

La giurisprudenza ha rilevato la nullità del contratto di vitalizio assistenziale laddove sia stato stipulato tra due parti, una delle quali di età avanzatissima.

Proprio tale circostanza ha fatto ritenere ai giudici che non ci fosse incertezza, proprio perchè l’evento morte della persona anziana era pronosticabile a breve termine, per cui sarebbe stato agile quantificare il rapporto tra prestazione e controprestazione, senza correre rischi (Cass. civ. Sez. II Ord., 27/10/2017, n. 25624).

 

 


Vi deve essere, pertanto, incertezza obiettiva iniziale in ordine alla durata di vita del beneficiario e correlativa eguale incertezza circa il rapporto tra il valore complessivo delle prestazioni dovute dall’obbligato ed il valore del cespite patrimoniale ceduto in corrispettivo del vitalizio.


Alcune volte, questo tipo di contratto è utilizzato per perseguire scopi ulteriori, estranei alla ratio legis: ad esempio per nascondere una donazione che, in quanto tale, potrebbe sconvolgere gli equilibri successori alla morte del vitaliziato, pregiudicando i diritti degli eredi legittimari.

Facciamo riferimento ad ipotesi in cui o chi voglia cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale non abbia alcun concreto interesse o bisogno a tale cura, oppure a quelle, più frequenti, in cui vi sia un notevolissimo squilibrio tra il valore dell’immobile (o degli immobili) e quello della controprestazione cui sia tenuto il vitaliziante (Cass. sentenza n. 15904/2016

Altre volte la sproporzione non è così ciclopica, ma sussiste comunque una apprezzabile differenza tra il vantaggio presumibile per colui che cede il bene e quello che, in cambio delle proprie prestazioni assistenziali, lo riceve.

Il vitaliziato cede il proprio bene, ma l’operazione, se commisurata al beneficio ricevuto in cambio, denota un sensibile sbilanciamento, probabilmente dettato da spirito di liberalità del conferente.

In tali ipotesi si parla di contratto “oneroso misto a donazione”, nel quale le parti intendono realizzare, accanto allo scambio di attribuzioni patrimoniali, anche un vantaggio a favore di una di esse.

Col negozio mixtum cum donatione le parti addivengono ad una donazione indiretta valendosi del negozio che esse dichiarano di porre in essere, e che effettivamente stipulano, per ottenere uno scopo che diverge dalla causa o funzione tipica del negozio medesimo.

L’ipotesi implica, sul piano della volontà delle parti, un trasferimento operato a prezzo inferiore a quello effettivo, caratterizzato da animus donandi, cioè fatto con l’intenzione di attribuire gratuitamente tale maggior valore.

In tali ipotesi, sia di donazione simulata che di donazione indiretta o mista, spetterà agli eredi del vitaliziato l’onere di agire dimostrando la differente natura del negozio posto in essere ed il loro correlativo diritto di essere integrati della quota di spettanza.

 

cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza
cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale

 

Si segnala una interessante e recentissima ordinanza della Corte di Cassazione che ci aiuta a fissare il momento temporale a cui fare riferimento per valutare se vi sia manifesta sproporzione tra le prestazioni pattuite tra le parti con il vitalizio assistenziale.

In tale ambito gli ermellini si sono trovati a pronunciarsi circa la doglianza promossa dai ricorrenti in ordine alla bontà della Sentenza di primo e secondo grado che aveva parametrato il valore dei cespiti immobiliari ceduti al momento della morte del vitaliziato e, quindi, all’apertura della successione, senza tener conto che, nel frattempo, erano stati eseguiti ingenti lavori sui beni trasferiti, tali da aumentarne sensibilmente il loro valore.

La Suprema Corte ha stabilito che si debba fare riferimento al momento della stipula del contratto di vitalizio: è lì che si deve verificare tanto l’esistenza del requisito dell’aleatorietà del negozio, quanto una sensibile ed immediatamente appurabile divergenza tra le prestazioni oggetto di scambio.

 

L’ordinanza: Cass. Civ. n. 14270/2019 del 24 maggio 2019

 

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale

Cancellazione o distruzione del testamento operata dal testatore.

Revoca per cancellazione o distruzione del testamento dalla A alla R (ossia la revoca della revoca).

Cambia tre abitudini all’anno e otterrai risultati fenomenali.
(Anonimo)

Cambia tre testamenti ed otterrai un risultato matematico: la lite tra gli eredi.


Quale varrà? Il primo, no il secondo, ma certo il terzo.


Ne avevamo già parlato in questo post: libertà è la parola magica che contraddistingue la condizione del testatore allorquando confeziona l’atto delle sue ultime volontà.


Libero di scegliere come disporre, libero anche di cambiare idea, revocando il primo testamento.


Ci eravamo anche soffermati (post) su come l’ultimo testamento possa – esplicitamente (“revoco ogni mio precedente testamentoart. 680 cc) o implicitamente (tramite disposizioni del tutto incompatibili con quello pregresso) togliere efficacia ad altri d’epoca più risalente.

revoca del testamento


La revoca del testamento può avvenire anche con la distruzione o cancellazione di quanto redatto.


L’art. 684 del codice civile ci dice che “Il testamento olografo distrutto, lacerato o cancellato, in tutto o in parte, si considera in tutto o in parte revocato”.


Tale contegno è stato ritenuto dal nostro legislatore come compatibile con la volontà da parte del de cuius di togliere valore ed efficacia al proprio atto di disposizione.


Questa è la norma, a meno che..


…a meno che a distruggere o a cancellare il documento siano stati terzi soggetti, contro la volontà del disponente.

In tal caso non si potrà rinvenire alcuna revoca, posto che tale determinazione può provenire solo dall’unico soggetto legittimato a disporla ed il contenuto del testamento, se sarà possibile farlo, potrà essere ricostruito tramite eventuale prova testimoniale o producendo un’eventuale fotocopia.

testamento distrutto


Attenzione, sarà il soggetto che vorrà dedurre che vi sia stata una distruzione di un testamento non più esistente a dover dare dimostrazione dapprima dell’ incolpevole perdita del documento, quindi che tale eliminazione non sia stata dovuta alla volontà del testatore, circostanza che si presume sino a prova contraria.


La produzione di una copia del testamento” infatti “giustifica la presunzione che il de cuius lo abbia revocato distruggendo deliberatamente l’originale, con la conseguenza che la parte che voglia avvalersene deve fornire la prova dell’esistenza del documento al momento dell’apertura della successione”.(Cass. civ. Sez. II, 18/05/2015, n. 10171)


Bene.


E se dopo un cambio di rotta operato una prima volta, ossia dopo il confezionamento di un testamento, revocato tramite altro e successivo testamento, ne venisse redatto un altro, un terzo, e questo venisse poi cancellato, con una bella croce, dal testatore stesso, che sorte si avrebbe?

Varrebbero quelli precedenti? Il primo? Il secondo? Oppure si dovrebbe procedere come se mai testamento fosse stato scritto, in quanto alcuno ve ne rimarrebbe che non fosse stato revocato dal testatore?


Si tratta, in buona sostanza, di una “revoca della revoca”.


Ebbene, il nostro legislatore tocca tale frangente con una norma specifica, anche se di limitata portata.


E’ disposto, infatti, che “la revocazione fatta con un testamento posteriore conserva la sua efficacia anche quando questo rimane senza effetto perché l’erede istituito o il legatario è premorto al testatore, o è incapace o indegno, ovvero ha rinunziato all’eredità o al legato” (art 683 cc)


In realtà, l’ipotesi espressamente contemplata dalla legge è dissimile dal caso che ci siamo posti, perchè la norma attiene ad ipotesi per le quali il testamento abbia perso efficacia non già a seguito della mutata volontà del disponente, bensì in conseguenza di circostanze ad egli estranee (es la morte dell’erede designato etc…).


Nel nostro caso il testamento “revocante” è stato cancellato dallo stesso disponente.

testamento cancellato
cancellazione o distruzione del testamento operata dal testatore


E’ possibile applicare analogicamente tale fattispecie a quella di cui ci occupiamo?


No. Nein. Niet.


La nozione di “inefficacia” del testamento successivo contemplata nella rubrica dell’art. 683, sebbene non sia tassativa e possa essere, in genere, estesa anche a ipotesi non previste dalla norma, può però ricorrere solo quando la nuova disposizione attributiva non abbia effetto per ragioni (esterne) attinenti ai soggetti beneficiari della disposizione, e non in situazioni diverse, per le quali è l’artefice stesso delle proprie ultime volontà a privarle d’efficacia.


Sarà utile, allora, concentrarci su un altro articoletto di legge molto interessante, il 681 cc, il quale stabilisce che “la revocazione totale o parziale di un testamento può essere a sua volta revocata sempre con le forme stabilite dall’articolo precedente. In tal caso rivivono le disposizioni revocate”.


E’ possibile revocare la revoca, con resipiscenza di quanto in precedenza reso inefficace, purchè si proceda nelle forme di legge.


Quali sono?


In realtà “l’articolo precedente” a cui fa riferimento la norma appena citata stabilisce che la revoca possa essere operata con un nuovo testamento, o con atto ricevuto da notaio in presenza di due testimoni.


Nel nostro caso nulla di tutto ciò è avvenuto, avendo il testatore semplicemente barrato il testamento che revocava quello precedente.


Siamo lontani dalla soluzione?


Anche no.


Ci viene in soccorso la Corte di Cassazione, che con una recentissima sentenza – regolante, guarda caso, proprio la questione che oggi ci tormenta – ha osservato acutamente che “la distruzione dell’olografo, se operata dal testatore intenzionalmente, elide la riconducibilità dell’atto distrutto al suo autore (ciò che non è se la distruzione non sia stata intenzionale o sia stata posta in essere da terzi). Immaginare la revoca di una “distruzione” con un successivo testamento o con atto ricevuto da notaio in presenza di testimoni, per poi doversi ricostruire aliunde l’atto distrutto, senza direttamente – invece – dettarsi nuove disposizioni, appare una ipotesi di scuola non ragionevolmente avuta presente dal legislatore codicistico; analogamente, immaginare che la distruzione di un testamento revocante lasci in essere la revoca effettuata”.


Parimenti, appare fuori logicaimmaginare che la distruzione di un testamento revocante lasci in essere la revoca effettuata, in quanto la… distruzione, … è priva di forma espressa”.


Più logico è allora ritenere, “che l’art. 681 c.c. imponga la forma espressa per le sole revoche di revoca diverse dalla soppressione o alterazione del documento-olografo”.


In buona sostanza, via libera alla revoca tacita di una revoca effettuata con l’ultimo testamento, con l’effetto di far rivivere l’ultimo testamento non revocato.


Che mal di testa.


Leggetevi tutta la Sentenza (Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 27-04-2018) 21-03-2019, n. 8031) e ne riparliamo.


Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

distruzione del testamento operata dal testatore

Perchè è rischioso comprare un immobile donato?

Alcune cose da sapere se si ha intenzione di comprare un immobile donato (e che il mediatore dovrebbe comunicare).

“La generosità significa dare più di quello che puoi, e l’orgoglio sta nel prendere meno di ciò di cui hai bisogno.”
KHALIL GIBRAN

Caro Khalil, il discorso non fa una piega, ma dare di più di quello che si può potrebbe creare delle difficoltà a chi riceve, specie se vi fossero potenziali coeredi.

Andiamo con ordine e partiamo da ciò che già abbiamo discusso più e più volte (link 1, link 2 link 3): la donazione è una sorta di anticipo di eredità.


Chi abbia ricevuto in vita deve poi mettere quanto conseguito nel calderone del patrimonio successorio da considerarsi al fine di valutare se vi siano state lesioni delle quote spettanti ad alcuni eredi, definiti necessari o legittimari.


Se, infatti, a questi ultimi rimarrà meno di quanto la legge abbia stabilito nei loro confronti, essi potranno agire in riduzione, ossia chiedere che i lasciti e le donazioni effettuate in vita dal defunto siano ridotti nella misura tale da reintegrare la quota lesa.

Comprare un immobile donato: le ragioni del cuore debbono considerare quelle della legge


Quando oggetto di donazione sia stato un bene immobile, la riduzione si opererà separando dall’immobile medesimo la parte occorrente per integrare la quota riservata, se ciò potrà avvenire comodamente (art. 560 cc), altrimenti dovrà essere messe interamente a disposizione dei coeredi che abbiano agito in riduzione, i quali potranno soddisfarsi sulla porzione di loro competenza, lasciando il residuo al beneficiario del lascito.


Si afferma al riguardo che l’azione di riduzione abbia effetti reali: non sarà aggredibile tanto il valore dell’immobile donato, ma il bene stesso, che fisicamente entrerà nel computo ereditario e potrà essere spartito (o venduto, con suddivisione del ricavato).

E se il bene oggetto di donazione fosse stato nel frattempo venduto ?


Se, cioè, il beneficiario dell’immobile donato avesse trasferito la proprietà del bene prima dell’esercizio dell’azione di riduzione operata dai coeredi lesi?

L’azione di riduzione ha effetti retroattivi e, seppure con alcune limitazioni, si esplica anche nei confronti dei terzi, siano essi acquirenti della proprietà o acquirenti di diritti reali di godimento o di garanzia.

Stabilisce, infatti, la legge che se i donatari contro i quali è stata pronunziata la riduzione hanno alienato a terzi gli immobili donati … il legittimario, premessa l’escussione dei beni del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti … la restituzione degli immobili. (art. 563 cc)

azione di riduzione
L’azione di riduzione da parte dei legittimari potrebbe mettere a rischio la stabilità dell’affare di chi volesse comprare un immobile donato.


Così l’acquisto del donatario e quello dei suoi aventi causa sono posti in condizione di instabilità per l’intero spazio di tempo che va dal momento della donazione a quello in cui il titolo di acquisto può essere impugnato dall’attore in riduzione.


Il donatario, tuttavia, trascorsi almeno vent’anni dal conseguimento della donazione potrà disporre del proprio diritto senza che i suoi aventi causa abbiano a temere di subire le conseguenze di un eventuale vittorioso esercizio dell’azione di riduzione da parte dei legittimari del donante. In tal caso è per legge preclusa la possibilità di restituzione dell’immobile da parte dei nuovi acquirenti, essendo assogettato alla riduzione il solo donatario, senza il coinvolgimento di terzi soggetti.

Orbene. Tiriamo le fila.


Se chi riceve in donazione un bene immobile potrebbe essere destinatario, in futuro, di un’azione di riduzione da parte di eventuali eredi lesi nella loro quota di legittima e se tale azione potrebbe comportare la retrocessione dell’immobile nell’ambito ereditario, per soddisfare i diritti dei soggetti che abbiano chiesto la riduzione, intaccando anche l’acquisto avvenuto ad opera di terzi medio tempore, allora potrebbero nascere delle grane e, quanto meno, la disponibilità del bene donato potrebbe essere limitata dalle eventualità sopra accennate.


Va aggiunto, circostanza non trascurabile, che il sistema bancario non concede agilmente credito garantito da ipoteca, se l’immobile offerto in garanzia è stato acquistato a titolo gratuito.

Vale a dire che potrebbero emergere gravi problemi di reperibilità di fondi per chi, interessato all’acquisto di un immobile donato, volesse conseguire un mutuo per pagarlo, in quanto la banca, se anche vi iscrivesse ipoteca, sarebbe considerata soccombente rispetto ai diritti di chi agisca in riduzione e vedrebbe volatilizzarsi il bene oggetto della ipoteca a garanzia delle somme erogate.


L’art. 561 cc infatti, stabilisce che gli immobili restituiti in conseguenza della riduzione sono liberi da ogni peso o ipoteca cui il donatario possa averli gravati.


Bisognerà, conseguentemente, essere alquanto fortunati a reperire un istituto di credito che si assuma questo rischio.


Certo, talvolta il possibile quadro ereditario è facilmente ricostruibile al momento della donazione, tanto da lasciare pochi margini di possibilità ad eventuali azioni di riduzione. Pensiamo al donatario figlio unico.


Anche in tali casi, tuttavia, l’insidia astrattamente potrebbe essere possibile e limitare comunque l’appetibilità commerciale del bene.


L’instabilità si verifica anche se il donante al momento dell’atto di disposizione non abbia coniuge, discendenti o ascendenti perchè i legittimari potrebbero sopravvenire in un secondo tempo.

Va ricordato, infatti, che ai fini della riducibilità non è consentita distinzione tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario (Cass. n. 1373/2009): il figlio nato nel matrimonio legittimo ha diritto di calcolare la legittima anche sui beni donati prima della sua nascita, il figlio nato fuori dal matrimonio sui beni donati prima del riconoscimento, il figlio adottivo sui beni donati prima del provvedimento che pronunzia l’adozione, il coniuge sui beni donati prima del matrimonio.
Senza contare l’ipotesi in cui il donante che abbia attribuito il bene al proprio unico figlio, potrebbe ledere i diritti del coniuge, legittimando l’azione di riduzione da parte di costui.


Donazione, pertanto, è una determinazione da valutare attentamente e da considerare alla luce di tutte le possibili insidie che ne potrebbero conseguire.

Il mediatore diligente è tenuto a rendere edotte le parti dei rischi che potrebbero emergere dall’acquisto di un bene donato?


Al quesito ha dato risposta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 965/2019)


Nel caso concreto i promissari acquirenti di un immobile si erano rifiutati di stipulare il contratto definitivo a fronte della scoperta, successiva al preliminare, che il bene fosse stato oggetto di donazione in capo alla parte venditrice.


La banca che avrebbe dovuto erogare il mutuo aveva ritrattato la propria disponibilità, non volendo incorrere in potenziali rischi di riduzione.
Conseguentemente gli attori erano a chiedere il rimborso dell’assegno versato al mediatore a titolo di provvigione per l’affare concluso.


La Corte Suprema ha preso le mosse per la propria decisione da una disposizione di legge, art. 1759 cc., a mente della quale il mediatore deve comunicare alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso.


Ebbene, “In considerazione degli inconvenienti cui dà normalmente luogo la provenienza da donazione deve pertanto affermarsi il principio che la provenienza da donazione costituisce circostanza relativa alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, rientrante nel novero delle circostanze influenti sulla conclusione di esso, che il mediatore deve riferire ex art. 1759 c.c. alle parti”

L’obbligo del mediatore di comunicare, ai sensi dell’art. 1759 c.c., comma 1, alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso, non è limitato alle circostanze conoscendo le quali le parti o taluna di essa non avrebbero dato il consenso a quel contratto, ma si estende anche alle circostanze che avrebbero indotto le parti a concludere quel contratto con diverse condizioni e clausole. Il dovere di imparzialità che incombe sul mediatore è, infatti, violato e da ciò deriva la sua responsabilità – tanto nel caso di omessa comunicazione di circostanze che avrebbero indotto la parte a non concludere l’affare, quanto nel caso in cui la conoscenza di determinate circostanze avrebbero indotto la parte a concludere l’affare a condizioni diverse” (Cass. n. 2277/1984).”.

Conclusione? Siate generosi, ma siatelo con avvedutezza, cercando di considerare le conseguenze della vostra liberalità, mettendo in condizioni chi ne beneficerà di non rischiare, in futuro, di perdere quanto conseguito o di non poterne disporre.

Per una consulenza sul rischio di comprare un immobile donato

da parte degli Avvocati Berto

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato: facciamo il punto.

Si può cancellare dal cuore il dolore di una perdita?
No. Ma ci si può rallegrare con ciò che si ricava da essa
.”
Paulo Coelho

Oddio, rallegrare è una parola grossa, ma è indubbio che poter contare su un sostegno economico possa aiutare ad attutire la caduta ed a tamponare alcune preoccupazioni che potrebbero conseguire dalla perdita di un proprio caro.


Quando muore una persona, un effetto che immediatamente si determina è il venir meno del sostegno economico che il defunto, con il proprio lavoro o con la propria pensione, apportava ai suoi famigliari.
Per tamponare tale assai pregiudizievole conseguenza, la legge ha disposto l’istituzione della pensione di reversibilità, ossia il trasferimentodel diritto di percepire parte della pensione della persona deceduta ad alcune categorie di soggetti specificamente determinate.


In particolare, il R.D. n. 636/1939 art. 13, stabilisce che.
nel caso di morte del pensionato … spetta una pensione al coniuge e ai figli superstiti che, al momento della morte del pensionato .. non abbiano superato l’età di 18 anni e ai figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi.
Le quote di reversibilità, per quanto qui ci possa interessare, sono:
a) il 60 per cento al coniuge;
b) il 20 per cento a ciascun figlio se ha diritto a pensione anche il coniuge, oppure il 40 per cento se hanno diritto a pensione soltanto i figli.

diritto pensione reversibilità


Si noti: la legge non richiede (a differenza che per i figli di età superiore ai diciotto anni, per i genitori superstiti e per i fratelli e sorelle del defunto, etc), quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno, ma unicamente l’esistenza del rapporto coniugale col coniuge defunto pensionato.


Il diritto pensionistico viene meno se il coniuge superstite o i figli contraessero nuove nozze.

Ci siamo? Bene.

Al coniuge separato spetta qualcosa della pensione del consorte defunto?


La Legge non pone alcuna preclusione al riconoscimento della reversibilità al separato superstite.


Vi erano due sole limitazioni – che la separazione non fosse stata pronunciata per colpa del superstite e che le nozze fossero durate almeno due anni se avvenute dopo che il defunto aveva compiuto 70 – ma sono state spazzate via da pronunce della corte Costituzionale che ne ha pronunciato la illegittimità.


In particolare, non è stato considerato ostativo un eventuale addebito posto a carico del coniuge, poi superstite, in quanto ciò che andava tutelata era la necessità di assicurargli la continuità di quei mezzi di sostentamento, che se fossero sopravvenuti stati di bisogno, il defunto consorte avrebbe dovuto fornire. (C. Cost. 286/1987).


Pensione reversibilità coniuge separato senza assegno di mantenimento.


Sulla scorta di tali identiche motivazioni, la pensione di reversibilità andrà riconosciuta anche al coniuge separato superstite che non fosse beneficiario di alcun assegno di mantenimento a carico del consorte, poi deceduto.


Della questione se ne è occupata recentissimamente la Corte di Cassazione , che ha riformato le pronunce dei gradi precedenti con cui era stato disatteso il diritto di una moglie a vedersi riconosciuta la reversibilità del marito, sul presupposto che non godesse di alcun assegno di mantenimento e che, quindi, non avesse diritto al sussidio, perchè già autosufficiente.


Ebbene, gli ermellini hanno rilevato che se non si debba distinguere, al fine del riconoscimento, il titolo della separazione – con o senza addebito – alla stessa stregua si dovrà ragionare per il coniuge che non abbia alcun diritto economico riconosciuto dalla sentenza separativa.


La ratio della tutela previdenziale è rappresentata dall’intento di porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, “senza che tale stato di bisogno divenga concreto presupposto e condizione della tutela medesima”.

reversibilità divorzio


Pensione reversibilità per il coniuge divorziato.


Qui è un altro paio di maniche, in quanto la legge stessa ha posto alcuni paletti.
Ce ne siamo già occupati in un post specifico, ma riassumiamo .

L’art. 9 della L. 898/1970 stabilisce che “In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”

Il diritto, pertanto, matura in capo al superstite divorziato se:

  • gli sia stato riconosciuto il diritto all’assegno divorzile;
  • non sia passato a nuove nozze;
  • il contributo pensionistico da devolvere tragga origine da un rapporto di lavoro anteriore alla sentenza di divorzio.

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato: no se è convolato a nuove nozze

Pensione di reversibilità per il coniuge superstite risposato solo in Chiesa.

Siamo in Italia, e sappiamo che da noi fatta la legge è trovato l’inganno.

Per scampare il pericolo di perdere la reversibilità, è diffusa la consuetudine di risposarsi solamente con rito religioso, senza conseguire gli effetti civili del vincolo e, con essi, le conseguenze inerenti al rapporto matrimoniale riconosciuto dallo Stato.

Si faccia attenzione.

Se si dovesse procedere successivamente alla trascrizione del matrimonio canonico, si rischierebbe di dover restituire gli importi conseguiti nel frattempo a titolo di pensione di reversibilità.

Ai sensi di legge, infatti, “ La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi”.

Bene, da tale disposizione la giurisprudenza ha tratto la retroattività degli effetti civili della trascrizione al momento della celebrazione (religiosa).

Venendo meno, a monte, i presupposti per l’attribuzione della pensione di reversibilità, il coniuge superstite, risposato a tutti gli effetti, dovrà dire un grosso CIAONE agli emolumenti previdenziali nel frattempo conseguiti, con l’obbligo di restituirli nei limiti della prescrizione. (Cass. Civ. n. 9694/2010)

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Erede legittimo escluso dal testamento: la lezione della Corte di Cassazione

Quali sono i rimedi accordati dalla legge all’erede legittimo escluso dal testamento?

Orationis summa virtus est perspicuitas – La più grande virtù del discorso è la chiarezza
(Quintiliano)

Chiarezza!


Virtù meravigliosa in ogni ambito, da perseguire, purtroppo molte volte dispersa nel nostro mondo giuridico, dove ad essa talora fa da contraltare la supercazzola, leggasi un coacervo di argomentazioni più o meno sensate e tra di loro confliggenti, volte a creare disorientamento con la falsa apparenza di dare risposte precise a questioni in realtà semplicissime.


Detto questo, possiamo dirlo? Ecco una sentenza che fa bene, perchè è chiara, papale, quasi scolastica nel prendere per mano il lettore, istruirlo ed accompagnarlo, consapevole, alla statuizione contenuta nel dispositivo.


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 22-10-2015) 04-12-2015, n. 24755 : ecco il provvedimento.


Una decisione molto utile per soffermarci sul caso che oggi ci riguarda, quello dell’erede legittimo escluso dal testamento.


Ci sarà sufficiente prendere gli incisi più significativi della Sentenza, paragrafarli, leggerli attentamente e ….taaccc saremo tutti esperti in materia.

Il caso.


Un padre aveva disposto con testamento delle sue sostanze, attribuendo tutti i suoi beni ai discendenti maschi, lasciando le figlie a bocca asciutta, senza alcuna attribuzione patrimoniale.


Quest’ultime impugnavano la disposizione testamentaria, agendo in riduzione, chiedendo cioè l’accertamento della loro qualifica di eredi necessarie e conseguentemente la liquidazione della loro quota di spettanza, riservata loro dalla legge, riducendo quelle dei fratelli .


Il Tribunale prima, la Corte d’Appello poi, accoglievano la loro istanza, ma anziché attribuire loro una quota dei beni caduti in successione, disponeva in loro favore solamente l’equivalente corrispettivo pecuniario.

calcolo quota di legittima


La Corte di Cassazione, con la pronuncia indicata, riforma parzialmente le sentenze dei gradi precedenti, procedendo con un excursus giuridico tutto da gustare.

  • A tutela dell’interesse generale alla solidarietà familiare, l’ordinamento giuridico prevede – con disposizioni che hanno carattere inderogabile – che i più stretti congiunti del de cuius hanno il diritto di ottenere, anche contro la volontà del defunto e in contrasto con gli atti di disposizioni dallo stesso posti in essere, una quota di valore del patrimonio ereditario e dei beni donati in vita dal defunto stesso (c.d. diritto di legittima o di riserva). La legge configura così una “successione necessaria“, in forza della quale le disposizione del defunto lesive della “quota di legittima”, pur non essendo invalide (nulle o annullabili), sono tuttavia soggette a riduzione, sono cioè suscettibili – su domanda del legittimario leso (c.d. azione di riduzione) – di essere private della loro efficacia giuridica nella misura necessaria e sufficiente a reintegrare il diritto del legittimario.
  • Con l’azione di riduzione (art. 557 cod. civ.) … il legittimario, leso nel suo diritto di legittima dalle disposizioni testamentarie o dagli atti di donazione posti in essere dal de cuius, può ottenere la pronuncia di inefficacia, nei suoi confronti, delle disposizioni del defunto lesive della sua quota di riserva.
  • Il legittimario,… a seguito dell’esercizio dell’azione di riduzione, acquista la qualità di erede, conseguendo perciò una quota dell’eredità, la cui misura muta – secondo le previsioni di legge – a seconda del numero dei legittimari e della vicinanza del loro legame familiare col defunto.
  •  l’azione di riduzione è irrinunciabile finchè la successione non è ancora aperta, – altrimenti si incorrerebbe in ipotesi di patti successori, nulli per legge – l’azione di riduzione è invece rinunciabile dal legittimario dopo l’apertura della successione
  • La legge non riserva ai legittimari tutta l’eredità, ma riserva loro solo una quota o frazione di essa (c.d. quota non disponibile o di riserva), consentendo che la restante parte (c.d. quota disponibile) possa mantenere la destinazione voluta dal de cuius.
  • la quota disponibile da parte del de cuius e, specularmente, la quota di riserva spettante al legittimario vanno calcolate (art. 556 cod. civ.) procedendo, anzitutto, alla formazione della massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della sua morte (c.d.relictum) e alla determinazione del loro valore con riferimento al momento dell’apertura della successione; indi detraendo dal relictum i debiti del defunto, da valutare con riferimento alla stessa data, in modo da ottenere il c.d. attivo netto; provvedendo successivamente alla c.d. riunione fittizia, ad una riunione cioè meramente contabile, tra attivo netto e i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione (c.d. donatum), dovendosi a tal fine stimare i beni immobili e mobili donati secondo il valore che avevano al tempo dell’apertura della successione (artt. 747 e 750 cod. civ.) e il denaro donato secondo il suo valore nominale (art. 751 cod. civ.);calcolando poi la quota disponibile e la quota indisponibile sulla massa risultante dalla somma tra il valore del relictum al netto ed il valore del donatum; imputando, infine, le liberalità fatte al legittimario , con conseguente diminuzione, in concreto, della quota ad esso spettante .
  •  la reintegrazione della quota di legittima, conseguente l’esercizio dell’azione di riduzione, deve essere effettuata con beni in natura … senza che si possa procedere alla imputazione del valore dei beni, ossia liquidando il corrispettivo pecuniario.
  • In buona sostanza, il legittimario, ha diritto di ricevere la sua quota di eredità in natura e non può essere obbligato a ricevere la reintegrazione della sua quota in denaro.

divisione ereditaria
Erede legittimo escluso dal testamento: diritto ad una porzione dei beni caduti in successione

E’ chiaro? Le sorelle non dovevano essere liquidate con i soldi corrispondenti al valore della loro quota, ma in quanto eredi di una quota, con una porzione dei beni – mobili o immobili – caduti in successione, a meno che non fosse concordata con gli altri coeredi una differente modalità di liquidazione.

Alzi la mano chi non ha capito?

Beh, in tal caso, chiamate al numero dello studio Berto ed un chiarimento vi verrà senz’altro offerto.

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Erede legittimo escluso dal testamento

Esclusione capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno

E’ legittimo un provvedimento di esclusione della capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno?

Ringraziamo per il contributo la Collega Stefania Cerasoli.

Il giudice tutelare del Tribunale di Ravenna aveva disposto, nel decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno in favore di B.E., le limitazioni e i divieti previsti dal codice civile nei confronti degli interdetti con riguardo alla capacità di donare e di testare.

Il beneficiario proponeva reclamo che veniva respinto e del caso veniva, quindi, investita la Corte di Cassazione.


In particolare, secondo il ricorrente tale limitazione costituiva violazione degli artt. 407 e 411 c.c., secondo i quali sarebbe esclusa la possibilità di estendere d’ufficio al beneficiario dell’amministrazione di sostegno le misure dettate per l’interdetto e per l’inabilitato.


Una siffatta estensione, difatti, avrebbe comportato – secondo il ricorrente – lo snaturamento della funzione protettiva dell’istituto, tendenzialmente volto alla conservazione della capacità di agire.


La censura è stata tuttavia respinta dalla Suprema Corte, secondo cui la ratio dell’amministrazione di sostegno deve essere individuata nell’esigenza di offrire, a chi si trovi nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità d’agire.

divieto testamento amministratore di sostegno
Esclusione capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno: sì se è a protezione degli interessi del soggetto tutelato


Del resto, è noto come la misura dell’amministrazione di sostegno sia caratterizzata da una maggiore flessibilità rispetto agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, in quanto maggiormente idonea ad adeguarsi alle specifiche esigenze del soggetto protetto e rispetto alle quali se ne determina l’ambito di applicazione.
Per cui nell’escludere la possibilità di estendere in via analogica al beneficiario dell’amministrazione di sostegno l’incapacità prevista dall’art. 591 comma 2 c.c. per l’interdetto, occorre tuttavia ammettere che il giudice tutelare possa imporre al beneficiario, mediante il provvedimento di nomina dell’amministratore o successivamente, una limitazione della capacità di testare o di fare donazioni laddove “le condizioni psicofisiche dell’interessato appaiano compromesse in misura tale da indurre a ritenere che egli non sia in grado di esprimere una libera e consapevole volontà testamentaria.


E’ difatti vero che, “in presenza di situazioni di eccezionale gravità, tali da indurre a ritenere che il processo di formazione e manifestazione della volontà possa andare incontro a turbamenti per l’incidenza di fattori endogeni o esterni, l’esclusione a priori della capacità di testare o donare può rivelarsi uno strumento di tutela efficace non solo nell’interesse di coloro che aspirano alla successione, ma anche dello stesso beneficiario, potenzialmente esposto a pressioni e condizionamenti.”

donazione amministratore di sostegno

Ad opinione dello scrivente, va sottolineata l’eccezionalità della limitazione: non è possibile parlare, infatti, di tutela di interessi successori in capo ai potenziali eredi.
Il soggetto da tutelare con la misura in esame è sempre e solo il beneficiario di amministratore di sostegno.

Gli eredi che dovessero essere lesi da disposizioni testamentarie viziate da incapacità mentale potranno sempre far ricorso alle ordinarie e specifiche azioni loro riconosciute dalla legge in materia (art 591 cc).

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 12460 del 21.05.2018

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esclusione capacità testamentaria del beneficiario di amministratore di sostegno

Godimento esclusivo di immobile da parte del coerede

Quando è dovuto un risarcimento per il godimento esclusivo di immobile da parte del coerede?

Il caso è frequente: più eredi si contendono un immobile caduto in successione.

Uno di essi ne ha la disponibilità fin dalla morte del de cuius, se non da epoca addirittura antecedente.

Dopo qualche anno i coeredi vengono a batter cassa, esigendo la divisione del compendio immobiliare ed il risarcimento per il mancato godimento del bene, rimasto nell’esclusiva disponibilità di uno solo di essi.


Un’interessante quanto recentissima sentenza della Corte di Cassazione fa il punto circa la legittimità di tale ultima istanza, operando una netta distinzione.


casa utilizzata soltanto da un erede
Godimento esclusivo di immobile da parte del coerede: quando scatta il risarcimento?

In primo luogo, andrà verificato se i frutti – ossia i beni che la cosa ha prodotto – siano stati effettivamente percepiti mediante l’utilizzo (diretto) dell’immobile come bene economicamente produttivo (ad esempio a titolo di corrispettivo per la locazione o per la cessione del relativo godimento a terzi, estranei alla comunione ereditaria), oppure vi sia stato un utilizzo (indiretto) in esclusiva da parte del singolo partecipante all’eredità (avendolo abitato personalmente).

Nel primo caso i frutti – rappresentati dalla somma di denaro incassata dal locatore – si saranno già materialmente prodotti ed in quanto tali andranno spartiti fra tutti i comunisti.

La legge, infatti, stabilisce che con la divisione l’erede diventi titolare con effetto retroattivo al momento dell’apertura della successione della quota specifica a lui assegnata. (art. 757 cc). Ciò vale anche per i frutti che fino al momento della divisione non siano stati separati. Differentemente, quelli già maturati e separati andranno spartiti tra tutti i partecipanti.

risarcimento danni utizzo esclusivo casa da parte di un erede soltanto


Nel caso, invece, in cui il bene non sia stato ceduto al godimento di terzi, ma sia stato utilizzato direttamente ed esclusivamente da un solo coerede, occorrerà operare un’ulteriore distinzione.

Se gli altri coeredi abbiano chiesto a quest’ultimo la disponibilità di utilizzare l’immobile, in virtù del diritto di proprietà anch’essi spettante, il coerede che lo abbia in via esclusiva goduto dovrà risarcire gli altri comunisti, indennizzandoli per la mancata disponibilità del bene.

Viceversa, se non sia intervenuta alcuna richiesta di condivisione del godimento del bene da parte degli altri comunisti, questi non potranno pretendere alcunchè.

La Corte di Cassazione, infatti, ha specificato che in tal caso il bene comune nulla ha prodotto: è semplicemente stato utilizzato da uno dei comproprietari secondo la sua naturale destinazione, quale propria dimora abituale, comportandogli semplicemente il beneficio (in astratto) di risparmiare sulla locazione di altro bene immobile.

Tale semplice godimento in via esclusiva non genera in capo agli altri comunisti alcun pregiudizio se non abbiano rappresentato di volerlo parimenti utilizzare e ne siano stati impediti.

La sentenza: Cass.Civ. 30451/2018

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La dichiarazione del testatore di aver fatto donazioni ad erede legittimario: priva di valore senza le prove

Che valore ha la dichiarazione del testatore di aver fatto donazioni ad erede legittimario, in modo da giustificare la sua estromissione dal testamento o comunque la diminuzione della sua quota spettantegli per legge?

“Quando un testatore non vi ha lasciato niente, probabilmente vi voleva risparmiare le imposte di successione.”
PETER ALEXANDER USTINOV (attore/regista)

Vallo spiegare al diseredato: probabilmente non sarà lieto della gentile premura.

L’ipotesi è frequente, e la motivazione di fondo del tutto legittima: in vita una persona può aver inteso di beneficiare qualcuno tra i suoi familiari con donazioni.
D’altro canto risulta coerente alla logica intervenire con aiuti ed elargizioni proprio quando ce ne sia bisogno, senza attendere il passaggio a miglior vita: potrebbe essere troppo tardi.

il testatore dichiara di aver effettuato donazioni
Aiutare un figlio a ripianare alcuni debiti, a sostenere le spese delle nozze, oppure ad acquistare la casa familiare sono sostegni che hanno senso immediatamente e non in sede successoria, quando i piatti saranno già stati lavati od i buoi sfuggiti.

Premessa: in linea di massima le donazioni costituiscono un anticipo di eredità. Di esse, infatti, si terrà conto nel determinare il patrimonio complessivo del de cuius su cui calcolare il valore della quota di legittima spettante agli eredi necessari.

Bene.
Se di tali donazioni ci sarà la prova, nemo problema, se ne terrà conto e nessuno potrà contestare che siano state effettuate.

Ma se non ce ne sia traccia?

O meglio, se fossero state effettuate non con crismi formali, dal Notaio alla presenza di due testimoni, ma con donazioni indirette, ad esempio tramite l’intestazione della casa al figlio, pagata con i soldi di papà, o con l’elargizione di somme sotto banco?

Capita sovente che il testatore di tali circostanze ne dia atto nel redigere le sue ultime volontà e, nell’estromettere il benefattore di tali liberalità dall’eredità, inserisca postille del tipo “nulla lascio a mio figlio, poiché gli ho già donato 50.000 mila euro con cui si è comprato casa”.

Tali allegazioni possono essere utilizzate come prova contro colui il quale – ritenendosi danneggiato (ad esempio il figlio di cui sopra) per essere stato leso o lasciato fuori dalla successione – impugni il testamento?

Abbiamo due pronunce della Corte di Cassazione, tutte e due dall’identico tenore, che ci aiutano a fare il punto.

Normalmente una dichiarazione confessoria da parte di chi la rilasci è destinata a costituire massima prova per colui al quale sia diretta.

Si noti: è confessione l’attestazione di circostanze sfavorevoli a chi le dichiari, in quanto si presume che se un soggetto dia atto della verità di qualcosa a lui svantaggioso allora ciò debba per forza corrispondere alla realtà.

Per esempio la quietanza di pagamento costituisce piena attestazione di avvenuta ricezione di somme da parte di chi l’abbia rilasciata.

prova della donazione
la dichiarazione del testatore di aver fatto donazioni deve essere corroborata da elementi di prova: da sola non basta

La dichiarazione del testatore di aver fatto donazioni ad erede legittimario, poi leso o estromesso, non può tuttavia rivestire valore confessorio.

Tale attestazione, infatti, non contiene nulla di sfavorevole al testatore che l’abbia effettuata, essendo semmai svantaggiosa per il (mancato) erede a cui è riferita la donazione indicata.

La confessione, poi, per rivestire la rilevanza menzionata, deve essere rivolta al soggetto che ne deve beneficiare, ma il legittimario – estromesso o leso – che abbia inteso impugnare il testamento, è un soggetto terzo, non destinatario della dichiarazione confessoria.

Rileva, infatti, la Corte Suprema “Siccome nell’azione di riduzione promossa dal legittimario preterito, questi deve considerarsi terzo(Cass. 20868/04; n. 6632/06; n. 7834/08) anche rispetto al testatore, la sua dichiarazione non gli è opponibile”.

In buona sostanza, le dichiarazioni del testatore di aver già soddisfatto con donazioni le pretese ereditarie del soggetto che abbia ricevuto le liberalità potranno avere valore solo se supportate dalla prova della loro effettiva elargizione.

La massima: “In tema di successione ereditaria, la dichiarazione del testatore di avere già soddisfatto il legittimario con antecedenti donazioni non è idonea a sottrarre allo stesso la quota di riserva, garantita dalla legge anche contro la volontà del “de cuius”; né tale dichiarazione può essere assimilata ad una confessione stragiudiziale opponibile al legittimario, essendo egli, nell’azione di riduzione, terzo rispetto al testatore

Le sentenze: Cassazione Civile n. 28785/2018; Cassazione Civile n 11737 / 2013

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Pensione di reversibilità dopo il divorzio: sì all’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile, purché non sia una tantum

Pensione di reversibilità dopo il divorzio: quali requisiti e quali impedimenti.

Ogni volta che vuoi sposare qualcuno, esci a pranzo con la sua ex moglie.”

SHELLEY WINTERS (attrice)

L’autrice di questo aforisma era una giurista?

Non crediamo, ma la sua “battuta” assembla un possibile scenario che si potrebbe creare a seguito di un divorzio e di nuove nozze: due mogli e un marito. Ma se questo morisse chi beneficerà della pensione di reversibilità?

Procediamo con ordine.

pensione reversibilità

Inutile soffermarsi su cosa sia e quando sia dovuto l’assegno divorzile.

Basta in questa sede riportare la previsione di cui all’art. 5 della Legge sul divorzio (898/1970) che così stabilisce “ Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Un assegno periodico al coniuge che non abbia mezzi adeguati, tenuto conto di diverse circostanze.

Ovviamente, ne abbiamo già parlato (link 1 2, 3 4) le circostanze che hanno determinato la contribuzione di tale beneficio ed il suo ammontare possono variare col tempo.

In questo caso “qualora sopravvengono giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale,… può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti …la misura e alle modalità dei contributi da corrispondere…” (art. 9 L 898/1970).

La norma di legge indicata consente,altresì, che “su accordo delle parti la corresponsione” – dell’assegno divorzile – possa “avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”.

Quindi, in luogo della contribuzione periodica gli ex coniugi possono convenire per la somministrazione una volta per tutte – una tantum – dell’assegno.

In tal caso la legge mette fin da subito in chiaro che alcuna modifica, neanche se fondata su giustificati motivi – possa essere richiesta in seguito, proprio perché le parti hanno inteso, con tale scelta, assumersi il carico anche del rischio di eventuali squilibri successivi.

Effettuate queste premesse, che riteniamo utili per inquadrare sufficientemente il tema di oggi, veniamo ad analizzare cosa succede se l’ex coniuge, tenuto a somministrare periodicamente l’assegno divorzile, venga a mancare.

Ovviamente si verrebbe a creare una drammatica rivoluzione nella vita del soggetto percipiente, che potrebbe perdere se non l’unica fonte del proprio sostentamento, un importante sussidio per conseguire mezzi adeguati alla quotidiana sussistenza.

Ecco, allora, che la legge viene ad ovviare a tale problematica prevedendo che In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”, (art. 9).

L’ex coniuge potrà beneficiare della pensione di reversibilità del passato consorte se:

– sia già titolare di assegno divorzile;

– egli non sia passato a nuove nozze;

– il rapporto lavorativo da cui trae origine la pensione, sia cominciato prima della sentenza di divorzio.

Bene, tutto chiaro?

Manca un tassello, anzi due.

Abbiamo cominciato l’articolo riportando l’immagine del pranzo di due donne, mogli della medesima persona.

Una la ex, l’altra l’attuale consorte.

due coniugi, una reversibilità

Mettiamo caso che la ex percepisca assegno divorzile.

E a tale caso aggiungiamo che venga a mancare il comune marito.

La donna che al momento del decesso era l’attuale consorte del defunto avrà senz’altro diritto alla sua pensione di reversibilità per diritto ereditario.

Ma l’altra, che beneficiava – in presenza dei presupposti di legge- dell’assegno divorzile, rimarrebbe a piedi senza tale sussidio.

In questa ipotesi, la legge stabilisce che “Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il Tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze”.

Conseguentemente, le due mogli (attenzione, la ex doveva già percepire l’assegno divorzile) si spartiranno la reversibilità del defunto.

Quanto spetterà a testa?

La legge dispone debba tenersi conto della (rispettiva) durata del rapporto matrimoniale.

La giurisprudenza include ulteriori criteri, quali l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali (ex multis Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 05/07/2017, n. 16602).

Nel caso in cui, a sua volta, dopo il marito decedesse una delle due mogli, l’altra avrebbe diritto di percepire l’intera reversibilità.

Soffermiamoci su un’ultima ipotesi.

Se l’assegno divorzile, anziché periodicamente, fosse stato corrisposto in un’unica soluzione, l’ex coniuge superstite che ne abbia beneficiato potrebbe vantare la pensione di reversibilità o una sua quota?

La risposta è negativa, ma c’è voluta una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite per mettere la parola definitiva.

Manca l’attualità della titolarità dell’assegno: questa in buona sostanza la considerazione preclusiva della Suprema Corte.

Se infatti la finalità del legislatore è quella di sovvenire a una situazione di deficit economico derivante dalla morte dell’avente diritto alla pensione, l’indice per riconoscere l’operatività in concreto di tale finalità è quello della attualità della contribuzione economica venuta a mancare; attualità che si presume per il coniuge superstite e che non può essere attestata che dalla titolarità dell’assegno, intesa come fruzione attuale di una somma periodicamente versata all’ex coniuge come contributo al suo mantenimento. Del resto l’espressione titolarità nell’ambito giuridico presuppone sempre la concreta e attuale fruibilità ed esercitabilità del diritto di cui si è titolari; viceversa, un diritto che è già stato completamente soddisfatto non è più attuale e concretamente fruibile o esercitabile, perchè di esso si è esaurita la titolarità”. (Cass. civ. Sez. Unite, Sent., n. 22434/2018)

pensione reversibilità
pensione di reversibilità dopo il divorzio: no se l’assegno è stato corrisposto una tantum

Faccia, pertanto, buona attenzione il coniuge che intenda acquisire in unica tranche l’assegno divorzile, perché in seguito non potrà recriminare alcunchè: né se dovessero volgere al peggio le circostanze tenute in considerazione al momento del divorzio ai fini della determinazione dell’importo da corrispondere, né a seguito della morte dell’ex consorte per far valere inesistenti diritti previdenziali.

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Avvocato separazione Vicenza

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Pagamento tributi locali da parte degli eredi: come si suddivide?

Imu, tari : come va suddiviso il pagamento dei tributi locali da parte degli eredi?

Spesso ci indebitiamo con il futuro per pagare i debiti con il passato.
KAHLIL GIBRAN

 

Non sappiamo se il grande poeta facesse riferimento anche ai debiti lasciati dal defunto, ma l’aforisma calza a pennello.

Capita di frequente che, nella massa ereditaria, debba tenersi conto di debiti contratti dal defunto prima della dipartita terrena.
E’ inutile in questa sede soffermarci in ordine all’opportunità da parte degli eredi di accettare l’eredità oppure no e, nel caso affermativo, se accettare con beneficio di inventario, per limitare la responsabilità debitoria nell’ambito di quanto si sia ricevuto (intra vires).

Qui partiamo dal presupposto che un’eredità sia stata accettata e plurimi siano gli eredi.

pagamento tributi locali eredi

La regola generale: i debiti ereditari si ripartiscono tra i successori in base alle rispettive quote.

L’art. 752 cc, infatti, stabilisce che “I coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto“.

Bene.

Ora c’è da chiedersi se tale ripartizione dei pesi valga solo tra coeredi e se, quindi, un creditore possa rivolgersi ad uno di essi pretendendo il pagamento dell’intero.

Non è così.

Non si viene a creare quella che in termini giuridici è denominata “solidarietà”- uno risponde per tutti e poi si rivale sugli altri – ma si tratta di un’obbligazione parziaria, proporzionale appunto alla partecipazione successoria, che andrà rispettata anche dai creditori.

E’ stato precisato al riguardo che “il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l’onere di indicare, al creditore, questa sua condizione di coobbligato passivo entro i limiti della propria quota, con la conseguenza che, integrando tale dichiarazione gli estremi dell’istituto processuale della eccezione propria, la sua mancata proposizione consente al creditore di chiedere legittimamente il pagamento per l’intero” (C. 7216/1997).

pagamento debiti ereditari pro quota
pagamento dei tributi locali da parte degli eredi: va suddiviso pro quota

Eccoci qua, siamo arrivati ai debiti in capo al defunto attinenti alla mancata corresponsione dei tributi locali.

Dovrebbe essere pacifico, alla luce di quanto ci siamo detti sopra, che tale compendio debitorio vada ripartito pro quota tra gli eredi.
E’ così?
Sì è così, ma il percorso per arrivare a tale conclusione è un attimo più accidentato di quanto potesse pensarsi.

In altri ambiti, il legislatore, ha inteso imporre un vincolo solidale tra gli eredi per il pagamento dei debiti fiscali.
Ad esempio, in materia di imposta sui redditi, l’ art. 65 del D.P.R. 29 settembre 1973 stabilisce che “gli eredi rispondono in solido delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa”.
Anche l’art. 36 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, statuisce la solidarietà (ognuno risponde per l’intero, poi si rivale sugli altri) in ambito di pagamento imposta di successione.

Una recente sentenza della Commissione Tributaria di Salerno, ha avuto modo di precisare che tali norme sono a carattere speciale, ossia sono una deroga, in quanto tale specifica e non estensibile per analogia, a quanto in generale stabilito dal legislatore.

Quindi il vincolo solidale andrà limitato ad ipotesi espressamente previste dalla legge, tra le quali non rientrano i tributi locali.

La Sentenza: Commissione Tributaria Provinciale di Salerno n. 2504 del 25 giugno 2018.

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