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Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato: facciamo il punto.

Si può cancellare dal cuore il dolore di una perdita?
No. Ma ci si può rallegrare con ciò che si ricava da essa
.”
Paulo Coelho

Oddio, rallegrare è una parola grossa, ma è indubbio che poter contare su un sostegno economico possa aiutare ad attutire la caduta ed a tamponare alcune preoccupazioni che potrebbero conseguire dalla perdita di un proprio caro.


Quando muore una persona, un effetto che immediatamente si determina è il venir meno del sostegno economico che il defunto, con il proprio lavoro o con la propria pensione, apportava ai suoi famigliari.
Per tamponare tale assai pregiudizievole conseguenza, la legge ha disposto l’istituzione della pensione di reversibilità, ossia il trasferimentodel diritto di percepire parte della pensione della persona deceduta ad alcune categorie di soggetti specificamente determinate.


In particolare, il R.D. n. 636/1939 art. 13, stabilisce che.
nel caso di morte del pensionato … spetta una pensione al coniuge e ai figli superstiti che, al momento della morte del pensionato .. non abbiano superato l’età di 18 anni e ai figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi.
Le quote di reversibilità, per quanto qui ci possa interessare, sono:
a) il 60 per cento al coniuge;
b) il 20 per cento a ciascun figlio se ha diritto a pensione anche il coniuge, oppure il 40 per cento se hanno diritto a pensione soltanto i figli.

diritto pensione reversibilità


Si noti: la legge non richiede (a differenza che per i figli di età superiore ai diciotto anni, per i genitori superstiti e per i fratelli e sorelle del defunto, etc), quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno, ma unicamente l’esistenza del rapporto coniugale col coniuge defunto pensionato.


Il diritto pensionistico viene meno se il coniuge superstite o i figli contraessero nuove nozze.

Ci siamo? Bene.

Al coniuge separato spetta qualcosa della pensione del consorte defunto?


La Legge non pone alcuna preclusione al riconoscimento della reversibilità al separato superstite.


Vi erano due sole limitazioni – che la separazione non fosse stata pronunciata per colpa del superstite e che le nozze fossero durate almeno due anni se avvenute dopo che il defunto aveva compiuto 70 – ma sono state spazzate via da pronunce della corte Costituzionale che ne ha pronunciato la illegittimità.


In particolare, non è stato considerato ostativo un eventuale addebito posto a carico del coniuge, poi superstite, in quanto ciò che andava tutelata era la necessità di assicurargli la continuità di quei mezzi di sostentamento, che se fossero sopravvenuti stati di bisogno, il defunto consorte avrebbe dovuto fornire. (C. Cost. 286/1987).


Pensione reversibilità coniuge separato senza assegno di mantenimento.


Sulla scorta di tali identiche motivazioni, la pensione di reversibilità andrà riconosciuta anche al coniuge separato superstite che non fosse beneficiario di alcun assegno di mantenimento a carico del consorte, poi deceduto.


Della questione se ne è occupata recentissimamente la Corte di Cassazione , che ha riformato le pronunce dei gradi precedenti con cui era stato disatteso il diritto di una moglie a vedersi riconosciuta la reversibilità del marito, sul presupposto che non godesse di alcun assegno di mantenimento e che, quindi, non avesse diritto al sussidio, perchè già autosufficiente.


Ebbene, gli ermellini hanno rilevato che se non si debba distinguere, al fine del riconoscimento, il titolo della separazione – con o senza addebito – alla stessa stregua si dovrà ragionare per il coniuge che non abbia alcun diritto economico riconosciuto dalla sentenza separativa.


La ratio della tutela previdenziale è rappresentata dall’intento di porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, “senza che tale stato di bisogno divenga concreto presupposto e condizione della tutela medesima”.

reversibilità divorzio


Pensione reversibilità per il coniuge divorziato.


Qui è un altro paio di maniche, in quanto la legge stessa ha posto alcuni paletti.
Ce ne siamo già occupati in un post specifico, ma riassumiamo .

L’art. 9 della L. 898/1970 stabilisce che “In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”

Il diritto, pertanto, matura in capo al superstite divorziato se:

  • gli sia stato riconosciuto il diritto all’assegno divorzile;
  • non sia passato a nuove nozze;
  • il contributo pensionistico da devolvere tragga origine da un rapporto di lavoro anteriore alla sentenza di divorzio.

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato: no se è convolato a nuove nozze

Pensione di reversibilità per il coniuge superstite risposato solo in Chiesa.

Siamo in Italia, e sappiamo che da noi fatta la legge è trovato l’inganno.

Per scampare il pericolo di perdere la reversibilità, è diffusa la consuetudine di risposarsi solamente con rito religioso, senza conseguire gli effetti civili del vincolo e, con essi, le conseguenze inerenti al rapporto matrimoniale riconosciuto dallo Stato.

Si faccia attenzione.

Se si dovesse procedere successivamente alla trascrizione del matrimonio canonico, si rischierebbe di dover restituire gli importi conseguiti nel frattempo a titolo di pensione di reversibilità.

Ai sensi di legge, infatti, “ La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi”.

Bene, da tale disposizione la giurisprudenza ha tratto la retroattività degli effetti civili della trascrizione al momento della celebrazione (religiosa).

Venendo meno, a monte, i presupposti per l’attribuzione della pensione di reversibilità, il coniuge superstite, risposato a tutti gli effetti, dovrà dire un grosso CIAONE agli emolumenti previdenziali nel frattempo conseguiti, con l’obbligo di restituirli nei limiti della prescrizione. (Cass. Civ. n. 9694/2010)

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Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato

Il risarcimento danni per infedeltà coniugale

Risarcimento danni per infedeltà coniugale: si può?

La violenza e il tradimento sono armi a doppio taglio: feriscono più gravemente chi le usa, di chi le soffre.”
EMILY JANE BRONTE

A chi è tradito, tuttavia, non potrebbe bastare questa saggia considerazione. Di qui animate cause di separazione ed annesse richieste di risarcimento danni per infedeltà coniugale.

Sulla possibilità di ottenere l’addebito della separazione in capo al coniuge fedifrago ne avevamo già trattato e, pertanto, rimandiamo a questo link.


Oggi ci soffermiamo a verificare se e quando sia possibile chiedere il risarcimento dei danni.


Partiamo da una considerazione: chi tradisce soffre e la sua sofferenza è difficile da quantificare in termini economici.


Qual è il prezzo del dolore?


Assistiamo – come si dice in termini giuridici – ad un danno che non è patrimoniale, come potrebbe essere, per esempio, un mancato guadagno o una concreta perdita economica.


Il danno subito, in questo caso, attiene alla lesione di interessi inerenti la persona, non connotati di immediata rilevanza economica.


In relazione al danno “non patrimoniale”, la legge (art. 2059 cc ) ne afferma la risarcibilità, ma solo in casi da essa espressamente contemplati, come ad esempio a seguito di un reato ( 185 cp, “Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui“).


Altri casi di risarcimento, anche dei danni non patrimoniali, sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali: ad esempio i danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie (L. n. 117 del 1998, art. 2:), oppure l’ impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali (L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9:); e ancora l’adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi ( D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7:); oppure il mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2:).

risarcimento tradimento coniugale
Risarcimento danni per infedeltà coniugale: non rientra tra le ipotesi espressamente previste dalla legge


Diciamola subito: nei casi determinati dalla legge per il risarcimento di tale danno non rientra l’infedeltà coniugale e, quindi, potremmo troncare subito il discorso, ma…


…ma la giurisprudenza è andata oltre il rigore della legge ed ha affermato che sia consentita la riparazione dei danni non patrimoniali anche in tutti i casi in cui un fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica.


Al di fuori dei casi determinati dalla legge, pertanto, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione: tra di essi, ad esempio, la lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) oppure la violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona, incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (Cass Civ. sent. n. 25157/2008).


Ecco, allora, che potrà entrare in gioco anche l’intercorso tradimento effettuato da un coniuge ai danni dell’altro ai fini del risarcimento danni per infedeltà coniugale, purchè si sia tradotto nella violazione di un diritto di rilevanza costituzionale, come quelli a cui abbiamo appena accennato.


Un caso concreto?


Riportiamo una sentenza recentissima della Corte di Cassazione.


Il marito aveva convenuto in giudizio la moglie, chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale subito a seguito del tradimento che la coniuge aveva perpetrato in costanza di matrimonio e che aveva scoperto solamente dopo la separazione.


Citava, del pari, anche l‘amante e il suo datore di lavoro, che avevano concorso nel danno subito, il primo direttamente, dando luogo alla condotta fedifraga, il secondo reo di non averla impedita, essendosi verificata in occasione e negli ambiti lavorativi.

risarcimento coniuge infedele


La valutazione della Corte Suprema è stata la seguente: la violazione dei doveri discendenti dal matrimonio rileva in primo luogo all’interno del rapporto matrimoniale stesso, tanto che potrebbe legittimare una pronuncia di addebito se fosse stata la causa della crisi.


I doveri che derivano dal matrimonio non costituiscono però in capo a ciascun coniuge e nei confronti dell’altro coniuge automaticamente altrettanti diritti, costituzionalmente protetti, la cui violazione potrebbe aprire le porte al risarcimento del danno, ma la violazione di essi può rilevare qualora ne discenda la violazione di diritti costituzionalmente protetti, che si elevi oltre la soglia della tollerabilità e possa essere in tal modo fonte di danno non patrimoniale.


In buona sostanza: il tradimento, per essere risarcibile, deve ledere diritti costituzionali, le cui relative violazioni andranno accertate e non potranno essere rinvenuti nella sola condotta fedifraga di un coniuge.


Gli ermellini ritengono che “ l’ordinamento non tutela il bene del mantenimento della integrità della vita familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sè possa essere fonte di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi con la sua volontà contraria o comunque con il suo comportamento ponga fine o dia causa alla fine di tale legame. L’ammissione di una tale affermazione incondizionata di responsabilità potrebbe andare a confliggere con altri diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970”, con la legge sul divorzio.


Il dovere di fedeltà non trova il suo corrispondente, quindi, in un diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto, piuttosto la sua violazione è sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio alla salute.


Circostanze, queste, non rinvenute nel caso di specie, in cui è stato sottolineato che il coniuge tradito avesse scoperto l’intrigo solo mesi dopo la separazione, senza, quindi, ne fosse sorto scandalo, o si fosse creato un apprezzabile pregiudizio alla sua dignità personale.


L’amante potrebbe essere chiamato a risarcire il danno per aver dato luogo al tradimento?


Su di esso non incombono obblighi di fedeltà coniugale, che sorgono solo tra gli sposi col matrimonio.


Tuttavia, i giudici hanno affermato non possa escludersi, in astratto, una responsabilità risarcitoria a suo carico se l’amante stesso, con il proprio comportamento e avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la relazione extraconiugale, abbia leso i diritti inviolabili e costituzionalmente garantiti del coniuge tradito, quali ad esempio la salute, la dignità e l’onore.


Fattispecie, queste, non rinvenute nel caso sottoposto al giudizio della Cassazione, tanto più che non erano state addossate nemmeno al coniuge fedifrago.


Sulla responsabilità del datore di lavoro, per non aver contenuto e vigilato sulle condotte dei propri dipendenti, evitando che si intrecciassero relazioni compromettenti, lesive dei diritti alla fedeltà coniugale.

La Corte ha negato vi possa essere alcun obbligo di sorveglianza in capo al datore di lavoro in tale ambito, anzi. La sua “ingerenza nelle scelte di vita personali dei dipendenti integrerebbe di per sé, al contrario, la violazione di altri diritti costituzionalmente protetti, quali il diritto alla privacy nel luogo di lavoro”.

La Sentenza: Cassazione Civile n. 6598/2019

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Determinazione assegno divorzile: torna in auge il tenore di vita goduto in costanza del matrimonio?

Determinazione assegno divorzile: conta il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio? No, sì, forse.

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» 
Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Appassionante.


Il diritto è appassionante. E’ scendere nella concretezza delle situazioni, applicarci il principio giuridico, calarlo in medias res…e saper rivedere e rimodulare antiche interpretazioni, financo abbracciarne talune appena soppiantate.


A cosa mi riferisco?


All’assegno divorzile.


Come è noto, fino al 2017 vigeva l’indiscusso ed inscalfibile orientamento della Suprema Corte, abbracciato già dal lontano 1990, che stabiliva il criterio interpretativo della disposizione di cui all’art. 5 L. 898/1970con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

assegno divorzio
Determinazione assegno divorzile


Il principio statuito dalla Cassazione era volto ad attribuire l’assegno divorzile al coniuge che non avesse mezzi adeguati volti a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza che fosse necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto, ma “rilevando l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle condizioni economiche del medesimo che, in via di massima, devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo equilibrio”. (Cass. civ. Sez. Unite, 29/11/1990, n. 11492)

Tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, quindi.


2017, si diceva, l’anno della svolta.


E’ intervenuta una sentenza degli ermellini che in buona sostanza ha sovvertito l’orientamento precedente, sottolineando il principio dell’ “autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali “persone singole“, non più sposate, senza prendersi a riferimento parametri attinenti ad una dimensione sociale ed affettiva, il matrimonio, che non c’è più e giungendo, pertanto, a riconoscere e calibrare l’assegno divorzile sulla base dell’autosufficienza economica del coniuge, senza riferimenti al tenore di vita precedente.
Cassazione 11504/2017


Cassazione 2017 assegno divorzio

Bomba atomica.


Con sostenitori ed oppositori della nuova tesi propugnata.
Chi rivendicava come fossero finiti i tempi della speculazione economica di un coniuge a carico dell’altro (“il matrimonio non deve far conseguire un vitalizio, diciamola tutta, per la ex moglie a carico del marito bancomat”), chi – a parere (sommesso) di chi scrive a ragione – sottolineava come da una siffatta prospettazione poteva derivare che un coniuge, quello che per una vita si era sacrificato a seguire casa e figli, ne sarebbe uscito con le ossa rotte.

2018. Determinazione assegno divorzile. Altro cambio di rotta.


La Cassazione rivede e rimodula la pronuncia di pochi mesi antecedente e – a Sezioni Unite – statuisce che nella verifica e quantificazione dell’assegno divorzile si debba tener conto del carattere compensativo, perequativo e assistenziale di tale compendio economico.
Assistenziale, in cui bisogna valutare se il coniuge richiedente abbia mezzi adeguati e sia in grado di conseguirli.
Compensativo e perequativo, volto a rimediare ad uno squilibrio nascente dal sacrificio che il coniuge richiedente possa aver sostenuto per le esigenze familiari a discapito della propria capacità reddituale.


Bene, felici? Tutto a posto?


Pare di sì, anzi no.

Perchè debbono ancora essere precisati con dovizia i criteri per quantificare l’assegno divorzile, al di là dell’identificazione dei titoli da cui trae origine.

Cassazione 2018 assegno divorzile


Ci ha pensato una freschissima sentenza della Corte di Cassazione a tentare di calibrare la questione entro termini precisi. Ma il risultato che ne è sortito è stato un ritorno al passato.


La questione: gli ermellini hanno esaminato la legittimità della pronuncia della Corte d’appello di Catania con cui – in sintesi – nella determinazione dell’assegno divorzile si era tenuto conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio dal coniuge a cui era stato attribuito.


Una decisione impeccabile, a parere della Cassazione.


Ecco il motivo.


la Corte etnea, pur non facendo mistero di orientare l’asse del proprio deliberato sul criterio del tenore di vita goduto …in costanza di matrimonio, ha tuttavia proceduto in questa direzione seguendo un percorso argomentativo che guarda con prudenza al criterio del tenore di vita e volutamente ne evita ogni forzatura, … annotando che “esso concorre e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati” dall’art. 5 L 898 /1970. “Ancorchè lo scenario ideale del suo ragionamento non sia più attuale, nondimeno il giudizio che essa declina nel caso concreto anche alla luce della durata non breve del vincolo matrimoniale … – si mostra in singolare sintonia con la “natura composita” che le SS.UU. hanno inteso rivendicare quale prius qualificante al parametro sulla base del quale procedere al riconoscimento del diritto. Ed anzi, laddove opera la diretta saldatura, nell’accertamento del diritto …, del criterio dell’adeguatezza agli altri indicatori enunciati dalla norma, ne ricalca, sia pur se inconsapevolmente, le linee, assecondando una chiave di lettura dell’istituto non incoerente con quella delle SS.UU. e perciò non suscettibile della pretesa cassazione”.


Pare di capire, lasciando spazio a chi voglia contraddirci, che la valutazione per la determinazione dell’assegno divorzile riposi sul criterio assistenziale, compensativo, perequativo dianzi indicato:il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio può essere parametro di riferimento, calibrato ai criteri appena accennati.


Un po’ come avveniva in precedenza?

Si, no, forse.

La sentenza: Cassazione Civile n. 4523/2019.

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Determinazione assegno divorzile

Abbandono del tetto coniugale: non sempre è causa di addebito della separazione.

Quando l’abbandono del tetto coniugale può essere causa di addebito della separazione?

Perduto è sol chi se stesso abandona.

Matteo Maria Boiardo

Ci eravamo già soffermati sul tema dell’abbandono della casa coniugale, analizzando quando fosse legittimo e quando no. (link)

In particolare, avevamo valutato le disposizioni dell’art. 146 cc, a mente del quale la proposizione della domanda di separazione … costituisce giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare.


L’imminenza della procedura separativa legittima, pertanto, l’affrancarsi anticipato della convivenza, con l’evidente scopo di sollevare i coniugi dal sostenere il peso ed i rischi di una convivenza divenuta oramai intollerabile.

addebito separazione abbandono casa familiare


Si è anche sottolineato come tale sorta di congedo anticipato, prima ancora di attendere l’autorizzazione da parte del tribunale a vivere separati, sia possibile in presenza di “giuste cause”, che legittimino la dipartita di un coniuge.


Ad esempio, la presenza di circostanze che possano arrecare grave pregiuzio per i figli,la condotta violenta di un genitore, una spasmodica tensione familiare che comporti una intollerabilità della convivenza.

Bene.


Oggi ci chiediamo se l’abbandono sine titulo, ossia in assenza di chiare e consolidate ragioni che lo legittimino, comporti – di per sé – motivo di addebito della separazione.

L’allontanamento dal domicilio coniugale, ove attuato unilateralmente dal coniuge, cioè senza il consenso dell’altro, costituisce violazione di un obbligo matrimoniale ed è conseguentemente causa di addebitamento della separazione.

Al riguardo è però dovuta una precisazione, anzi due.

In primo luogo, come in ogni pronuncia di addebito, si dovrà verificare che la violazione del predetto obbligo di coabitazione sia stata la causa principale della crisi matrimoniale.


Se infatti il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto, non si potrà scaricare tutta la colpa della fine dell’unione coniugale sull’abbandonante, in quanto la circostanza si inserisce nell’ambito di un rapporto già logoro e sfasciato: la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.

crisi coniugale
abbandono del tetto coniugale: sì all’addebito solo se è stata la causa della crisi matrimoniale


Ai fini dell’addebitabilità della separazione, l’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve essere svolta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un suo raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano rivestito, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale.


Altra nota.

Nel mentre l’abbandonante dovrà dimostrare la giusta causa dell’uscita dall’abitazione, sull’altro coniuge, che chieda la pronuncia di addebito, graverà l’onere di provare il rapporto di causalità tra la violazione e l’intollerabilità della convivenza.
In buona sostanza, egli dovrà allegare che la violazione dell’obbligo di coabitazione sia stata la ragione decisiva della crisi matrimoniale, altrimenti non compromessa.

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abbandono del tetto coniugale e pronuncia di addebito

Revoca assegnazione casa familiare: Aumento dell’assegno divorzile?

La revoca assegnazione casa familiare può comportare l’aumento dell’assegno divorzile?

La casa è un luogo che quando cresci vuoi lasciare, e quando invecchi ci vuoi tornare.
(John Ed Pearce)

…. e quando divorzi, non vorresti abbandonare.


Partiamo dal caso specifico, per scendere in medias res della questione che oggi esaminiamo.


Alla moglie, in sede di separazione, era stata assegnata la casa familiare.


Non si parla di un’abitazione qualunque, né di una separazione ordinaria: i coniugi evidentemente erano molto facoltosi, come lussuosa la villa dove avevano trascorso la vita matrimoniale.


In sede divorzile, veniva revocata alla signora l’assegnazione dell’immobile.


Costei, presone atto, chiedeva che della circostanza fosse tenuto debito conto nella commisurazione dell’assegno divorzile in suo favore.


Il Tribunale si limitava a riconoscerle “solo” € 3.000 mensili, a fronte degli oltre 10.000 richiesti dalla (ex) moglie.


Sentenza appellata da quest’ultima, ma il provvedimento veniva confermato in secondo grado.


Arriviamo alla Cassazione che accoglie le doglianze della signora ed espone quanto segue.

revoca assegnazione casa familiare


L’assegno di divorzio – come statuito di recente dalla Suprema Corte – ha natura assistenziale, compensativa e perequativa.


Assistenziale: il coniuge che non abbia mezzi adeguati o non possa procurarseli deve essere sostenuto economicamente dall’altro.


Compensativa: l’assegno tende a riconoscere il contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi


Perequativa: volta a ridurre il disequilibrio tra le rispettive posizioni venutosi a creare con lo scioglimento del vincolo, tramite il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate.


Conseguentemente, Il giudizio sull’attribuibilità e consistenza dell’assegno divorzile dovrà essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.

assegnazione casa familiare
revoca assegnazione casa familiare: può avere incidenza sull’attribuzione dell’assegno ma nessun automatismo.


Ebbene, a parere della Cassazione, i giudici che avevano statuito la questione oggetto di causa non avevano “valutato la disponibilità e la fruizione nel corso del matrimonio della casa familiare di elevate caratteristiche di pregio, tali da non renderla fungibile con qualsiasi altra abitazione reperibile nel medesimo Comune a costi contenuti; sul punto dunque la decisione risulta viziata e va cassata”.


Appare, pertanto, incidentalmente acquisito che anche l’attribuzione della casa familiare abbia valenza assistenziale, perequativa e compensativa, in quanto tale oggetto di rilevanza in seno al giudizio di statuizione e quantificazione dell’assegno divorzile.


Tale decisione ripercorre altre, di simile tenore, precedenti, ove – tra l’altro – era stato evidenziato che “Il coniuge al quale viene revocata l’assegnazione della casa coniugale, non ha automaticamente diritto ad un incremento dell’assegno divorzile in suo favore ma si deve effettuare una valutazione di congruità diretta a verificare se, quale conseguenza “del venire meno dell’assegnazione della casa coniugale” si sia determinata una modifica “in peius” delle sue condizioni economiche complessive”. Cassazione civile, sezione prima – 12 Marzo 2012 – n° 3922

La sentenza Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 03-12-2018) 08-02-2019, n. 3869

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Cittadinanza: mantenimento del cognome acquisito con il matrimonio.

Cittadinanza: diritto al mantenimento del cognome acquisito con il matrimonio.

Il TAR Lombardia, sezione di Brescia, con la recente Tar Brescia n 64 2019, ha affrontato il caso di una signora di origine ucraina a cui è stata riconosciuta la cittadinanza italiana.

Nella richiesta la signora aveva indicato il cognome del marito, dato che la Legge ucraina consente alla donna che contrae matrimonio di sostituire il cognome di nascita con quello del coniuge.

Il Prefetto ha, tuttavia, ritenuto che i dati anagrafici della signora dovessero essere modificati in conformità a quanto risultava dal certificato di nascita ed ha così “corretto” il cognome.

Di qui il ricorso della signora che ha sostenuto il suo diritto di mantenere le generalità quali risultanti dall’atto di matrimonio.

Il TAR ha dato ragione alla signora rilevando che la normativa italiana deve essere disapplicata perché in contrasto con i principi sanciti dalla Corte Europea.

In particolare, la legge italiana prevede che il cittadino straniero, all’atto della presentazione dell’istanza di riconoscimento della cittadinanza, deve indicare le sue generalità come specificate nell’atto di nascita.

Il giudice ha, invece, evidenziato che il diritto al nome, assoluto e costituzionalmente tutelato, in quanto espressione dell’identità personale, deve, infatti, essere tutelato, garantendo allo straniero che ottenga la cittadinanza italiana il diritto a conservare il prenome e il cognome di origine a prescindere dalla disciplina italiana.

E ciò con riferimento non solo al cittadino comunitario, ma anche a ogni cittadino che si trovi nell’Unione europea e chieda il riconoscimento della cittadinanza in uno Stato appartenente ad essa.

Applicando il principio al caso concreto, osserva il TAR, deve, “ritenersi che fosse pieno diritto della odierna ricorrente indicare, come cognome, quello acquisito a seguito del matrimonio, in quanto il certificato di matrimonio prodotto in atti dà chiaramente atto di come il cognome della stessa sia stato modificato; ne consegue che, essendo stato corretto il dato contenuto nel certificato di nascita, così come precisato nell’atto di matrimonio, rientrasse nella possibilità della richiedente la cittadinanza italiana optare perché questa le fosse riconosciuta con il cognome del marito”.

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Cittadinanza: mantenimento del cognome acquisito con il matrimonio

Prova del tradimento su Facebook: illegittimo accedere all’account del coniuge, nemmeno se è stato lui a fornire le credenziali.

Utilizzare la prova del tradimento su Facebook, accedendo con le credenziali del partner, si puo?

“Se qualcuno ti tradisce una volta, è un suo errore, se qualcuno ti tradisce due volte è un tuo errore.”
ELEANOR ANNA ROOSEVELT

Se del tradimento vuoi dare prova accedendo ai social con le credenziali del coniuge, non solo è un errore ma è anche un reato.
  Cassazione Penale 2905/2019

Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni”. (art. 615 ter cp)


Alla magistratura è deferito il compito di interpretare la legge e sanzionarne la violazione.


Ed è proprio con riferimento all’interpretazione ed all’applicazione di tale reato che la Corte di Cassazione ha pronunciato una Sentenza che attiene al tema odierno.

Spiare facebook coniuge
Prova del tradimento su Facebook: se è stato il partner a fornire le chiavi di accesso?

Tra coniugi veniva instaurato un procedimento di separazione giudiziale, nell’ambito del quale il marito produceva in giudizio “screen shot” riguardanti una chat intrattenuta dalla moglie con un altro uomo tratta dal famoso social network Facebook.


In particolare, il presunto “tradito” aveva avuto accesso al portale utilizzando le credenziali e la password della consorte, informazioni in suo possesso in quanto ella stessa aveva avuto occasione di rivelargliele in precedenza, prima della crisi.

Conseguentemente, appurata la condotta asseritamente fedifraga, il marito pensava bene di estrapolarne i contenuti per produrli in giudizio, cambiando nel contempo anche la password di accesso al social, per impedire alla moglie di ripetere ulteriormente i comportamenti contestati o, semplicemente, di eliminarne le prove.


La moglie evidentemente non doveva aver preso bene siffatta iniziativa, tanto che ne sortiva un procedimento penale che vedeva imputato l’ex coniuge per il reato di accesso abusivo a sistema informatico o telematico, di cui all’art. 615 ter cp, oggi in esame.


Ebbene, la Corte di Cassazione ha considerato inappuntabile la sentenza di condanna che ne è conseguita e prive di fondamento le difese del prevenuto, volte a sottolineare come l’accesso al portale fosse avvenuto in modo tutt’altro che abusivo, essendo conseguito da legittimo possesso di credenziali, attribuitegli dalla moglie stessa “prima del lacerarsi della loro relazione”.
La circostanza che il ricorrente fosse a conoscenza delle chiavi di accesso al sistema informatico …. non escluderebbe comunque il carattere abusivo degli accessi… Mediante questi ultimi, infatti si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios,, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi”.


Come dire, l’utilizzo di credenziali deve avvenire secondo le indicazioni, le modalità e l’impiego consentiti dal titolare e non per scopi ulteriori che non siano coperti dal suo preventivo avvallo.

tradimento su facebook

L’accesso, quindi, è abusivo qualora avvenga mediante superamento e violazione delle chiavi fisiche ed informatiche di accesso o delle altre esplicite disposizioni su accesso e mantenimento date dal titolare del sistema.


Già in precedenza le Sezioni Unite della Cassazione avevano affrontato la questione se integrasse la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema da parte di soggetto abilitato all’accesso, perchè dotato di password, ma attuata per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli era stata attribuita.

Le Sezioni Unite avevano ritenuto che “la questione di diritto controversa non dovesse essere riguardata sotto il profilo delle finalità perseguite da colui che accede o si mantiene nel sistema, in quanto la volontà del titolare del diritto di escluderlo si connette soltanto al dato oggettivo della permanenza dell’agente in esso, dovendosi verificare la contraria volontà del titolare del sistema solo con riferimento al risultato immediato della condotta posta in essere, non già ai fatti successivi. Avevano ritenuto, quindi, che rilevante dovesse considerarsi il profilo oggettivo dell’accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto non autorizzato ad accedervi ed a permanervi, sia quando violasse i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema (con riferimento alla violazione delle prescrizioni contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro), sia quando ponesse in essere operazioni di natura “ontologicamente diversa” da quelle di cui sarebbe stato incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era a lui consentito, con ciò venendo meno il titolo legittimante l’accesso e la permanenza nel sistema. (Cass. Pen. Sez. Unite n 4694/2011)

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Prova del tradimento su Facebook

Il pernotto dei figli in tenera età dopo la separazione

Pernotto dei figli in tenera età dopo la separazione: un percorso da effettuare tra discrezionalità (del giudice) e buon senso (dei genitori).

Tra i temi caldissimi che i coniugi si trovano, loro malgrado, a sperimentare in sede di separazione, ve ne sono due che spesso fanno saltare il banco per un eventuale accordo da consensualizzare: la frequenza dei figli con eventuali nuovi compagni dell’uno o dell’altro genitore e il loro pernotto presso il genitore non collocatario in età neo e post natale.

Sul primo tema avremo modo di soffermarci in seguito, ne varrà la pena.


Verifichiamo, oggi, quale sia la posizione della legge in materia di pernotto dei figli in tenera età dopo la separazione: leggasi, anche, da quando il figlio potrà dormire col papà? Non nascondiamoci dietro un dito e chiamiamo le cose col loro nome.

Il problema risalente è, infatti, il divieto e la preclusione opposte dalla madre rispetto alla prolungata frequenza dei figli col padre, in assenza della sua supervisione ed assistenza.


La legge, sul punto, non dice molto. Anzi.

E’ espressamente sancito che “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi” (art. 337 ter cc)


La bigenitorialità effettiva è, pertanto, prima di tutto un diritto dei figli, più che dei genitori.

E’ nell’ottica del preminente interesse dei figli vanno presi tutti i provvedimenti che li riguardano in sede di procedimento di separazione.

La norma, infatti, stabilisce che “per realizzare la finalità indicata dal primo comma, – ossia mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori – il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”.


La bigenitorialità, in pratica, va perseguita se di effettivo interesse per i figli e secondo modalità che siano ad essi più congeniali.


Il Giudice dovrà valutare “prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori” oppure stabilire a quale di essi i figli siano affidati, determinando “i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”.


Nessuna menzione al pernotto dei figli in tenera età dopo la separazione né è stabilito a priori da quando il figlio potrà dormire col papà.


In mancanza di accordo tra i coniugi, che a sensi di legge, dovrà essere valutato dal giudice ed accolto se non contrario all’interesse dei figli, sarà deferito al Tribunale il compito di statuire tempi e modalità di permanenza presso ciascun genitore.


da quando il figlio potrà dormire col papà ? discrezionalità e buon senso

Qualche pronuncia giurisprudenziale aiuta a farci un’idea di come questo potere discrezionale sia esercitato nelle aule giudiziarie.


Partiamo da un dato di fatto indiscusso: il bimbo che ancora sia in fase di allattamento non può essere a lungo separato dalla mamma.


Non lo dice la legge, ma la natura stessa, per cui risulta impensabile privarlo di tale fondamentale passaggio fino a quando non sarà stato svezzato.


Conseguentemente è in linea di massima precluso il pernotto col padre durante l’importantissima fase di allattamento.


Anche se qui si aprono scenari ulteriori, perchè l’età di svezzamento può variare da bambino a bambino e protrarsi in taluni casi anche ben oltre il termine medio stabilito dalla comunità scientifica internazionale.

Soffermarci sull’eccezione rispetto alla regola ci farebbe perdere il punto della questione: da quando il figlio potrà dormire col padre?


V’è una prassi, abbastanza diffusa e consolidata, che individua nel compimento del terzo anno di età il termine iniziale dal quale il figlio sia sufficientemente affrancato dal legame materno per poter rimanere notte tempo col padre.


E’ stato, infatti, talora rilevato che “Nei primi anni di vita del bambino l’universo conoscitivo si identifica prevalentemente con un referente, in genere costituito dalla figura materna (o comunque dall’adulto di riferimento), con il quale soltanto il figlio è in grado di relazionarsi, gradualmente poi estendendosi il suo percorso conoscitivo ad altri adulti. Questo esclude che le figure genitoriali possano avere nei primi anni di vita del bambino pari rilevanza. A partire dal compimento del 3° anno di vita del minore si potrà introdurre il pernottamento consecutivo specie in relazione ai periodi di vacanza estivi ed alle festività (Natale,Pasqua, etc.), introducendo gradualmente ulteriori pernottamenti”. Tribunale di Roma, 5.05.2017)


Si segnalano, comunque, altre pronunce di tenore più o meno restrittivo.


Ad esempio, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la pronuncia di primo e secondo grado che limitava le possibilità del figlio di pernottare più di una volta a settimana col padre sino all’età di quattro annitenuto conto dell’assenza di una convivenza del padre con il bambino prima della rottura del rapporto con la madre, nonchè della situazione lavorativa” che imponeva frequenti spostamenti paterna (cass. Civ. 19594/2011).

In altro caso, il Tribunale di Milano ha rilevato che “la genitorialità si apprende facendo i genitori e, dunque, solo esercitando il ruolo genitoriale una figura matura e affina le proprie competenze genitoriali; il fatto che, al cospetto di una bimba di due anni, un padre non sarebbe in grado di occuparsene, è una conclusionale fondata su un pregiudizio che confina alla diversità (e alla mancanza di uguaglianza) il rapporto che sussiste tra i genitori”. Conseguentemente è stato disposto l’affidamento della figlia di due anni ad entrambi i genitori, con potestà del padre di tenerla con se anche la notte a week end alternati, nonché per più giorni durante le ferie natalizie ed estive.


Una recente sentenza del Tribunale di Trieste è stata del medesimo avviso di quello meneghino.

La pronuncia appurava un clima di aspra conflittualità tra i coniugi, ma rilevava come entrambi nulla avessero ad obiettare circa le rispettive capacità genitoriali.

Sulla base di tale circostanza, il Tribunale Friulano “tenuto conto dell’età del minore, ormai svezzato, in assenza di elementi concreti nel senso di un’inadeguatezza del padre, il collegio ritene di disporre una regolamentazione del collocamento che preveda l’immediata introduzione dei pernotto, sia pur graduale”. (Tribunale di Trieste, 5 settembre 2018 )


Ciò che accomuna ogni sentenza, anche la più concessiva, è la gradualità con cui debba intervenire il progressivo distacco dall’esclusiva assistenza materna in favore di una permanenza via via più consolidata col padre, al fine di consentire ai figli di ambientarsi senza traumaticità al cambiamento.

Nella decisione del Tribunale di Trieste sopra riportata, ad esempio, veniva stabilito il pernotto per una volta alla settimana fino al compimento di due anni e tre mesi, per due notti sino ai tre anni, per tre notti da tre anni in poi.

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Pernotto dei figli in tenera età dopo la separazione

Il genitore non versa il mantenimento per i figli? è reato anche se vi abbiano provveduto altri

A sfamare i figli ci pensa qualcun altro? Se un genitore non versa il mantenimento per i figli incorre comunque in un reato.

Tanto ci pensano i nonni. O la zia. E comunque il mio ex coniuge ha un buono stipendio, per cui ai figli non mancherà di che vivere.

Sembra una vecchia tiritera, ma viene frequentemente addotta a scusa principale dal genitore che non voglia corrispondere il mantenimento dei figli.

Il malinteso – anzi, il pretesto – risiede nel fatto che la legge quando viene a sanzionare penalmente tale condotta, fa riferimento a chi “abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie , si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale”, e faccia “mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro”.

Pare che incorra nel reato solo chi, sottraendosi ai propri obblighi alimentari, renda sprovvisti di che vivere i propri figli, di tal che– appunto – se così proprio non fosse, perché vi abbia provveduto qualcun altro, non si verterebbe nell’ipotesi criminosa disciplinata dall’art. 570 cp.

genitore non mantiene figli

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 52663/2018) ci dice che così non è.

Il succo della pronuncia è questo: la minore età dei figli costituisce essa stessa, in via presuntiva, una condizione di bisogno.

Appare fin quasi lapalissiano affermarlo, ma da tale circostanza consegue l’obbligo, ex lege, per i genitori di assicurare mezzi di sussistenza ai discendenti.

Nella nozione penalistica di mezzi di sussistenza, (diversa dalla più estesa nozione civilistica di mantenimento) debbono ritenersi compresi non più e non soltanto i mezzi per la sopravvivenza vitale(quali il vitto e l’alloggio), ma altresì gli strumenti che consentano un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana (ad esempio: abbigliamento, libri di istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione).

L’’obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza ai figli di minore età grava sue entrambi i genitori e permane indipendentemente dalle vicissitudini dei rapporti coniugali. L’assolvimento di questo obbligo da parte di uno dei genitori o anche da altri congiunti non esenta in alcun modo l’altro, che sarà sanzionabile se non contribuisca per la propria parte.


Il genitore non versa il mantenimento per i figli? Reato anche se vi abbia provveduto l’altro, perchè l’obbligo grava su tutt’e due.

A mettere la parola fine ad ogni fraintendimento, è accorsa una recente novella legislativa, con cui è stata introdotta una nuova fattispecie di reato, art. 570 bis cp, che sanziona il “coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili odi nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”.

La violazione delle disposizioni economiche statuite nella separazione o divorzio è sanzionata, pertanto, a prescindere dalle conseguenze che possa aver avuto per le persone offese.

Anche con la nuova legge non sono mancati dubbi interpretativi: pare,infatti, fare letteralmente riferimento alle condotte dei “coniugi”,per cui potrebbero risultarne apparentemente esclusi i genitori non coniugati.

La norma poi sanziona la condotta di chi congiuntamente violi le condizioni economiche in materia di separazione e di affidamento dei figli. Cosicchè l’omissione di uno solo dei due richiami non legittimerebbe a considerare integrata la fattispecie criminosa.

Siamo sicuri che le prossime pronunce di legittimità e di merito contribuiranno a dare definitiva chiarezza.

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Il genitore non versa il mantenimento per i figli?

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Prova della relazione extraconiugale? Non dal computer in uso comune a moglie e marito

 

Non è ammissibile la prova della relazione extraconiugale tramite l’esibizione di file, foto, documenti contenuti in un computer personale, senza l’autorizzazione del Garante, nemmeno se l’apparecchio è  utilizzato da entrambi i coniugi.

Amo il tradimento, ma odio il traditore.”
                                                         GIULIO CESARE

 

Tra gli obblighi che nascono dal matrimonio un ruolo fondamentale assume quello della fedeltà (art. 143 c.c.).

Checchessenedica – anche se qualche disegno di legge, più o meno estemporaneo, ha provato a promuovere l’abolizione di questo precetto – è difficile immaginare come un qualsiasi consorzio sociale possa trovare minima disciplina senza poggiare sulla fiducia.

Sta di fatto che la violazione della fedeltà coniugale può comportare la pronuncia di addebito in un eventuale procedimento di separazione giudiziale.

A patto che ne sia data la prova. E qui viene il bello. O il brutto, nel senso che talora potrebbe risultare davvero arduo.

prova tradimento coniuge

In un’epoca segnata dalla evoluzione tecnologica e dalla comunicazione digitale è sempre via via più frequente che i tradimenti siano scoperti su mezzi informatici.

Bene. Oggi ci occupiamo di un caso sottoposto alla pronuncia del Tribunale di Larino, nell’ambito del quale la moglie lamentava di aver scoperto dal computer, in uso ad entrambi i coniugi, che il marito non solo era solito collezionare file e foto di marcato contenuto pornografico, ma anche che tra questi vi fossero una “serie infinita di immagini a colori di natura pornografica, di donne e uomini travestiti/e da streghe, donne con frustini, donne vestite da infermiere, immagini inequivocabili dove compariva tra i protagonisti anche” il marito.

In base all’allegazione di tali prove, la signora chiedeva il conseguente addebito della separazione per infedeltà, oltre alla “condanna del marito al pagamento, in suo favore, di una somma pari ad Euro 300.000,00 a titolo di risarcimento del danno di natura endofamiliare, patito a causa della indecorosa condotta”.

Tale istanza è stata rigettata.

La considerazione del Tribunale, in buona sostanza, si è concentrata nel risolvere preliminarmente il quesito della legittimità – e conseguente ammissibilità – delle prove offerte dalla ricorrente.

Non doveva, infatti, essere sottaciuto che tali documenti – di natura assolutamente sensibile e riservata – fossero stati espunti dal computer utilizzato anche dal marito.

La moglie vi poteva accedere, certo, e prenderne visione, ma l’utilizzo promiscuo non la legittimava alla diffusione a terze persone senza il di lui consenso.

E a poco rilevava che l’utilizzo effettuato dalla ricorrente era unicamente teso a far valere un proprio diritto in sede giudiziale – diritto alla difesa da tutelare alla stregua di quello alla riservatezza del marito – in quanto il codice della privacy subordina espressamente l’eventuale trattamento di dati così personali, tra l’altro idonei a rappresentare la salute e la vita sessuale della persona, all’autorizzazione del Garante della privacy, che dovrà effettuare un bilanciamento tra i rispettivi diritti e valutare se quello alla riservatezza possa cedere il passo al diritto di difesa in giudizio di chi, i dati riservati altrui, voglia utilizzare.

Era, infatti, già stato osservato dalla Corte di Cassazione che “il codice della privacy (d.lgs. 196 del 2003) disciplina in modo diversificato in relazione al tipo di dato il trattamento di dati personali necessario per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, e, ove si tratti di dati sensibili, ossia inerenti la salute e la vita sessuale, richiede, oltre al consenso dell’interessato, la previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali, il quale valuta comparativamente il rango del diritto azionato e di quello protetto dalla disciplina” (Cass. civ. n.18584/2008).

prova tradimento addebito separazione

Nel caso di specie, la moglie tradita non aveva provveduto a richiedere alcuna autorizzazione al Garante al fine di essere abilitata all’effettuata produzione documentale che, pertanto, doveva qualificarsi illegittima e conseguentemente inammissibile.

Non poteva, nemmeno, valere la circostanza che il computer comunque non fosse stato utilizzato solo dal marito ma anche dalla moglie e, pertanto, i documenti ivi contenuti erano messi dal primo nella disponibilità della seconda.

Il giudice ha, infatti, rilevato che un conto è se il diretto interessato intenda autorizzare espressamente l’utilizzo dei propri dati personali, mettendoli coscientemente e volontariamente a disposizione di terzi, altro è la semplice circostanza che quelle informazioni sulla sua persona fossero dissimulate in un un apparecchio in dote anche alla consorte che, pertanto, non potrà essere considerata nemmeno indirettamente destinataria di una implicita o esplicita autorizzazione alla loro divulgazione.

In difetto di prova del tradimento non potevano, conseguentemente, trovare ingresso al favore del giudice nè la pronuncia di addebito nè quella di risarcimento del danno, quest’ultima anche perchè incompatibile col rito della separazione.

Possa trovare favorevoli o perplessi, la recente decisione del Tribunale di Larino  è stata pronunciata allorquando doveva ancora entrare in vigore il Regolamento (UE) 2016/679.

Staremo a vedere se vi saranno differenti interpretazioni alla luce della nuova normativa.

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