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Risarcimento danni per mancato pagamento assegno di mantenimento: è legittimo

 

E’ possibile richiedere il risarcimento danni per mancato pagamento dell’assegno di mantenimento? Il Tribunale di Roma risponde di sì.

Partiamo da un rilievo: in base al nostro ordinamento, la commissione di un reato giustifica il risarcimento del danno in favore della persona offesa.

Quale danno?

Quello patrimoniale – ad esempio la restituzione di quanto sottratto, l’erogazione di quanto dovuto, la corresponsione del valore di un determinato bene – e quello non patrimoniale, come il danno morale, ossia la sofferenza, il patimento psico-fisico conseguente al reato stesso (art. 185 cp)

risarcimento danno morale
Veniamo, ora, al quesito odierno: il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, oltre ad ovviamente giustificare la pronuncia di condanna al versamento di quanto dovuto, ossia delle mensilità arretrate, può legittimare il riconoscimento di un risarcimento del dannomorale”?

Su tale istanza si è trovato a decidere, recentissimamente, (n 17144 del 12.09.2018) il Tribunale di Roma, al quale si era rivolta una signora che lamentava la mancata corresponsione da parte del marito degli importi dovuti a titolo di mantenimento proprio e dei figli in base alla pronuncia di divorzio.

La circostanza le aveva creato non poco disagio. Tra l’altro, in mancanza della liquidità che le avrebbe dovuto essere assicurata dal pagamento degli assegni divorzili, non era riuscita a pagare l’affitto di casa ed aveva dovuto subire il conseguente sfratto per morosità.

L’attrice si era già azionata col promuovere un’azione esecutiva contro l’ex marito, pignorandone lo stipendio, ma in questa sede chiedeva il risarcimento del danno morale, per la condotta lesiva del suo onore e della sua dignità.

Il Tribunale, con la Sentenza oggi in commento, ha rilevato che la mancata corresponsione dell’assegno divorzile e di quello statuito per il mantenimento dei figli costituisce reato, a sensi dell’art. 12 sexies della L. 898 /1970, ora art 570 bis cp, punibile con identica pena prevista per la violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 cp).

danno morale mancato pagamento assegno divorzile
risarcimento danni per mancato pagamento assegno di mantenimento: se reato, va riconosciuto

Sulla base di tale presupposto, è agevole riprendere la premessa da cui siamo partiti: ogni reato obbliga al risarcimento il colpevole, anche del danno non patrimoniale/morale.

Poichè il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento costituisce reato, è legittimo il riconoscimento di un risarcimento danni alla persona che lo abbia subito.

Tra l’altro, non è necessario attendere una pronuncia di condanna in sede penale, giacché il giudice civile può rilevare i presupposti astratti della fattispecie criminosa e conseguirne i provvedimenti di competenza.

E’ stata, così, statuita la condanna alla corresponsione di € 20.000 all’ex marito inadempiente.

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Se il figlio maggiorenne non vuole uscire di casa ..

Quale rimedio hanno i genitori se il figlio maggiorenne non vuole uscire di casa? La vicenda del sessantenne che abitava ancora con mamma e papà.

Bamboccione: “uomo dal comportamento infantile e viziato, poco maturo o responsabile; giovane maturo, che invece di rendersi autonomo continua a stare in casa con i genitori, e si fa mantenere da loro” (wikipedia)
Il termine era tornato di moda quando il ministro dell’economia Padoa Schioppa  gettava un sasso, verosimilmente anche provocatorio, contro la sempre minore inclinazione dei giovani a crescere, ad immettersi nel mercato del lavoro, abbandonando il nucleo famigliare per affrancarsi.

mantenimento figli maggiorenni
il figlio maggiorenne non vuole uscire di casa: dopo i 34 anni no diritto al mantenimento

Fino a quando i genitori debbono mantenere i figli?

Ne abbiamo già più e più volte parlato: ecco i riferimenti link 1, link 2, link 3 

Oggi ci soffermiamo su un caso abbastanza particolare, anche se via via non più così isolato: figli assolutamente cresciuti, ultra maggiorenni, che non se ne vogliono andare di casa, malgrado i genitori facciano di tutto per incentivare l’uscita.

Avere la casa libera, infatti, non solo è la prospettiva cui debbono tendere madri e padri che vogliano vedere indipendenti ed emancipati i propri (non più) piccoli discendenti, ma può talora costituire una vera e propria necessità, dettata – ad esempio – dall’esigenza di impiegare l’immobile familiare in altre soluzioni d’utilizzo, financo alla vendita.

Come è inquadrabile giuridicamente la protratta permanenza dei figli nell’abitazione dei genitori e quale rimedio può essere loro concesso per sollecitarne l’uscita?

Un’interessante sentenza del Tribunale di Modena ci aiuta a fare il punto.

La vicenda sottoposta alla pronuncia del giudice riguardava un’anziana signora che aveva da sempre convissuto col figlio, fino al ricovero in una casa di riposo, ove era stata ospitata per seguire una terapia specialistica e per far fronte alla propria condizione di non autosufficienza.

Nominato un amministratore di sostegno, questi chiedeva per conto della signora beneficiaria che il di lei figlio, ormai sessantenne, fosse condannato ad uscire dalla casa della madre, che aveva necessità di averla libera, anche in considerazione del fatto che il “ragazzo” non versava alcun canone o indennità, né partecipava alle spese in alcun modo ed aveva anche un comportamento violento nei confronti dei genitori, che era stato già oggetto di querela in sede penale.

Le argomentazioni giuridiche svolte dalla madre erano volte a configurare una sorta di contratto di comodato intercorso col figlio, in virtù del quale era facoltà del proprietario chiedere, in difetto della pattuizione di un termine, l’immediata restituzione del bene.

Il figlio si costituiva, negando fosse mai intervenuto alcun contratto di comodato e sostenendo che la propria presenza in casa era attribuibile ad una sorta di spontanea assunzione dei genitori al suo mantenimento o, comunque, alla corresponsione degli alimenti in suo favore, atteso il permanente stato di disoccupazione.

alimenti figli

 

Il Tribunale ha dapprima demolito la prospettazione del convenuto, da un lato ritenendo che “dopo una certa età, il figlio maggiorenne, non ancora indipendente, raggiunge comunque una dimensione di vita autonoma che lo rende, se del caso, meritevole dei diritti” alimentari “ma non più del mantenimento … in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono”. Ciò anche per non scadere in “forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”.

Il giudice, tra l’altro, ha rilevato che secondo le statistiche europei e nazionali, dopo la soglia dei 34 annilo stato di non occupazione del figlio non essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento”.

Dall’altro lato, il Tribunale ha respinto l’ipotesi di configurare il diritto del convenuto ad abitare la casa materna come declinazione del diritto agli alimenti, non essendo tra l’altro intervenuta alcuna prova in tal senso.

Tra l’altro ben potrebbe il soggetto tenuto a tale obbligazione offrirsi di corrisponderla, anziché in natura -col vitto e alloggio – tramite corresponsione di assegno alimentare e, pertanto, pienamente legittima sarebbe stata l’istanza di rilascio della casa, tenuto conto, tuttavia, che non era nemmeno intervenuta alcuna richiesta di somministrazione alimentare da parte del figlio.

Il giudice modenese ha pertanto ricondotto la fattispecie sottoposta alla sua decisione ad una sorta di “negozio atipico di tipo familiare, concluso per fatti concludenti”: una sorta di contratto, non espressamente previsto dalla legge, con cui le parti – senza prevederne esplicitamente gli elementi – hanno dato luogo con comportamenti accettati tra esse e, in buona sostanza, riconducibili alla facoltà per l’uno di vivere presso l’abitazione dell’altra.

Tale tipo di contratto – seppur non disciplinato dal legislatore – avrebbe potuto essere ricondotto a quello, simile, del “comodato precario”, ossia senza pattuizione di durata, a mente del quale il comodante può richiedere la restituzione del bene a semplice richiesta.

Il giudicante, pertanto, ha ritenuto che “i genitori hanno quindi il diritto di richiedere al figlio convivente di rilasciare e liberare l’immobile occupato con il solo limite – imposto dal principio di buona fede – che sia concesso all’altra parte un termine ragionevole, commisurato alla durata del rapporto”.

 

La sentenza: Tribunale di Modena, Sez. II, 1 febbraio 2018, n. 165.

 

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Pensione di reversibilità dopo il divorzio: sì all’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile, purché non sia una tantum

Pensione di reversibilità dopo il divorzio: quali requisiti e quali impedimenti.

Ogni volta che vuoi sposare qualcuno, esci a pranzo con la sua ex moglie.”

SHELLEY WINTERS (attrice)

L’autrice di questo aforisma era una giurista?

Non crediamo, ma la sua “battuta” assembla un possibile scenario che si potrebbe creare a seguito di un divorzio e di nuove nozze: due mogli e un marito. Ma se questo morisse chi beneficerà della pensione di reversibilità?

Procediamo con ordine.

pensione reversibilità

Inutile soffermarsi su cosa sia e quando sia dovuto l’assegno divorzile.

Basta in questa sede riportare la previsione di cui all’art. 5 della Legge sul divorzio (898/1970) che così stabilisce “ Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Un assegno periodico al coniuge che non abbia mezzi adeguati, tenuto conto di diverse circostanze.

Ovviamente, ne abbiamo già parlato (link 1 2, 3 4) le circostanze che hanno determinato la contribuzione di tale beneficio ed il suo ammontare possono variare col tempo.

In questo caso “qualora sopravvengono giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale,… può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti …la misura e alle modalità dei contributi da corrispondere…” (art. 9 L 898/1970).

La norma di legge indicata consente,altresì, che “su accordo delle parti la corresponsione” – dell’assegno divorzile – possa “avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”.

Quindi, in luogo della contribuzione periodica gli ex coniugi possono convenire per la somministrazione una volta per tutte – una tantum – dell’assegno.

In tal caso la legge mette fin da subito in chiaro che alcuna modifica, neanche se fondata su giustificati motivi – possa essere richiesta in seguito, proprio perché le parti hanno inteso, con tale scelta, assumersi il carico anche del rischio di eventuali squilibri successivi.

Effettuate queste premesse, che riteniamo utili per inquadrare sufficientemente il tema di oggi, veniamo ad analizzare cosa succede se l’ex coniuge, tenuto a somministrare periodicamente l’assegno divorzile, venga a mancare.

Ovviamente si verrebbe a creare una drammatica rivoluzione nella vita del soggetto percipiente, che potrebbe perdere se non l’unica fonte del proprio sostentamento, un importante sussidio per conseguire mezzi adeguati alla quotidiana sussistenza.

Ecco, allora, che la legge viene ad ovviare a tale problematica prevedendo che In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”, (art. 9).

L’ex coniuge potrà beneficiare della pensione di reversibilità del passato consorte se:

– sia già titolare di assegno divorzile;

– egli non sia passato a nuove nozze;

– il rapporto lavorativo da cui trae origine la pensione, sia cominciato prima della sentenza di divorzio.

Bene, tutto chiaro?

Manca un tassello, anzi due.

Abbiamo cominciato l’articolo riportando l’immagine del pranzo di due donne, mogli della medesima persona.

Una la ex, l’altra l’attuale consorte.

due coniugi, una reversibilità

Mettiamo caso che la ex percepisca assegno divorzile.

E a tale caso aggiungiamo che venga a mancare il comune marito.

La donna che al momento del decesso era l’attuale consorte del defunto avrà senz’altro diritto alla sua pensione di reversibilità per diritto ereditario.

Ma l’altra, che beneficiava – in presenza dei presupposti di legge- dell’assegno divorzile, rimarrebbe a piedi senza tale sussidio.

In questa ipotesi, la legge stabilisce che “Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il Tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze”.

Conseguentemente, le due mogli (attenzione, la ex doveva già percepire l’assegno divorzile) si spartiranno la reversibilità del defunto.

Quanto spetterà a testa?

La legge dispone debba tenersi conto della (rispettiva) durata del rapporto matrimoniale.

La giurisprudenza include ulteriori criteri, quali l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali (ex multis Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 05/07/2017, n. 16602).

Nel caso in cui, a sua volta, dopo il marito decedesse una delle due mogli, l’altra avrebbe diritto di percepire l’intera reversibilità.

Soffermiamoci su un’ultima ipotesi.

Se l’assegno divorzile, anziché periodicamente, fosse stato corrisposto in un’unica soluzione, l’ex coniuge superstite che ne abbia beneficiato potrebbe vantare la pensione di reversibilità o una sua quota?

La risposta è negativa, ma c’è voluta una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite per mettere la parola definitiva.

Manca l’attualità della titolarità dell’assegno: questa in buona sostanza la considerazione preclusiva della Suprema Corte.

Se infatti la finalità del legislatore è quella di sovvenire a una situazione di deficit economico derivante dalla morte dell’avente diritto alla pensione, l’indice per riconoscere l’operatività in concreto di tale finalità è quello della attualità della contribuzione economica venuta a mancare; attualità che si presume per il coniuge superstite e che non può essere attestata che dalla titolarità dell’assegno, intesa come fruzione attuale di una somma periodicamente versata all’ex coniuge come contributo al suo mantenimento. Del resto l’espressione titolarità nell’ambito giuridico presuppone sempre la concreta e attuale fruibilità ed esercitabilità del diritto di cui si è titolari; viceversa, un diritto che è già stato completamente soddisfatto non è più attuale e concretamente fruibile o esercitabile, perchè di esso si è esaurita la titolarità”. (Cass. civ. Sez. Unite, Sent., n. 22434/2018)

pensione reversibilità
pensione di reversibilità dopo il divorzio: no se l’assegno è stato corrisposto una tantum

Faccia, pertanto, buona attenzione il coniuge che intenda acquisire in unica tranche l’assegno divorzile, perché in seguito non potrà recriminare alcunchè: né se dovessero volgere al peggio le circostanze tenute in considerazione al momento del divorzio ai fini della determinazione dell’importo da corrispondere, né a seguito della morte dell’ex consorte per far valere inesistenti diritti previdenziali.

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Il versamento diretto dell’assegno di mantenimento ai figli maggiorenni

Il versamento diretto dell’assegno di mantenimento ai figli maggiorenni.

Non parliamo dei presupposti dell’assegno di mantenimento, né fino a quando i genitori saranno tenuti a mantenere i figli una volta che abbiano raggiunto la maggiore età.

Ecco i link (1, 2, 3) con cui abbiamo tratto il tema, che riportiamo per comodità.

Oggi ci soffermiamo non tanto sul “se” sia dovuto l’assegno di mantenimento ai figli maggiorenni, ma sul “come” debba essere onorato: i soldi vanno dati al genitore con cui convivono o ai figli direttamente?

mantenimento figli maggiorenni

Partiamo dal dato normativo

Art 337 septies ccIl giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto.”.

 Quindi: se il giudice ritenga dovuta una contribuzione, dispone, in linea di massima, il versamento diretto dell’assegno di mantenimento ai figli maggiorenni.

Primo quesito: chi è legittimato a chiedere tale partecipazione?

Senza dubbio i figli stessi, raggiunta la maggiore età, potranno agire per chiedere venga disposta la contribuzione dei genitori al loro mantenimento, allorquando non siano economicamente autosufficienti.

La Corte di Cassazione ha, infatti, riconosciuto a più riprese la legittimazione del figlio maggiorenne economicamente non indipendente ad intervenire nel giudizio di separazione personale dei propri genitori per fare valere il proprio diritto al mantenimento.

Parimenti, ai giovani che abbiano raggiunto la maggiore età è conferita la possibilità di chiedere la modifica delle condizioni di separazione o divorzio nel caso ve ne siano i presupposti per quanto attiene il loro mantenimento.

Alla legittimazione dei figli maggiorenni, si aggiunge quella del genitore presso cui convivano a chiedere la contribuzione a carico dell’altro coniuge in favore della prole.

E’ stato disposto, infatti, che il genitore, separato o divorziato, a cui il figlio sia stato affidato durante la minore età, sia legittimato iure proprio ad ottenere dall’altro genitore il pagamento dell’assegno per il mantenimento del figlio, quale titolare di un diritto autonomo (e concorrente con quello del minore) a ricevere il contributo alle spese necessarie a detto mantenimento anche dopo il raggiungimento della maggiore età del figlio che non sia ancora autosufficiente.

Tale legittimazione è assicurata anche in assenza di un’autonoma richiesta del figlio, purché persista e non venga meno il rapporto di coabitazione. (Cass Civ 12972 2017)

E’ stato ritenuto congruo che, mentre il figlio maggiorenne conviva con il genitore, possa essere conferito a quest’ultimo la possibilità di agire direttamente per ottenere la contribuzione al suo mantenimento, proprio perché è lui a farsene carico, a sostenere le spese necessarie per vitto, alloggio, etc. 

versamento diretto figli maggiorenni
assegno mantenimento figli maggiorenni versamento diretto

Secondo quesito: a chi deve essere versato l’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne?

In linea di massima, come visto, il giudice dispone che la contribuzione sia versata direttamente nelle mani del figlio.

Avendo, infatti, conseguito la capacità di agire con il raggiungimento della maggiore età, ben potrà essere destinatario e gestore degli importi dovuti.

Ciò sia che viva da solo, sia che conviva con un genitore: in tal caso dovrà mettere a disposizione parte di tali somme per contribuire alle spese sostenute anche in suo favore.

Alcuni interpreti hanno tuttavia rilevato che se l’assegno di mantenimento del figlio sia stato disposto quando ancora questi era minorenne – e pertanto doveva essere versato nelle mani dell’altro genitore – tale modalità di adempimento rimarrà invariata anche una volta raggiunta la maggiore età, salva la possibilità del figlio di attivarsi affinché gli venga corrisposto direttamente l’assegno.

Alla stregua di questa considerazione, la richiamata disposizione del codice civile, volta a disporre – in via generale – la contribuzione direttamente alla prole che abbia conseguito la maggiore età sarebbe applicabile al caso in cui l’assegno in favore del figlio fosse disposto quando questi già sia maggiorenne.

Da ultimo, si segnala come sia pacifica in giurisprudenza la circostanza secondo cui il genitore tenuto a versare l’assegno non possa decidere autonomamente a chi corrisponderlo, ma debba attenersi scrupolosamente a quanto statuito nel provvedimento che gli abbia attribuito tale onere.

Capita, infatti, di frequente – soprattutto per ragioni attinenti i rapporti (e gli strascichi) tra ex coniugi – che il genitore tenuto all’assegno in favore del figlio pretenda di versare direttamente a costui le somme dovute, quando abbia raggiunto la maggiore età.

La giurisprudenza sul punto è ferrea: “il genitore separato o divorziato tenuto al mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente e convivente con l’altro genitore, non può pretendere, in mancanza di una specifica domanda del figlio, di assolvere la propria prestazione nei confronti di quest’ultimo anzichè del genitore istante. Invero …sia il figlio, in quanto titolare del diritto al mantenimento, sia il genitore con lui convivente, in quanto titolare del diritto a ricevere il contributo dell’altro genitore alle spese necessarie per tale mantenimento cui materialmente provvede, sono titolari di diritti autonomi, ancorchè concorrenti, sicchè sono entrambi legittimati a percepire l’assegno dall’obbligato; di conseguenza, il genitore obbligato non ha alcuna autonomia nella scelta del soggetto nei cui confronti adempiere.”.

(Cass. Civ. 9/07/2018 n, Cass. civ. Sez. I, 17/05/2017, n. 12391)

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Assegno divorzile: sentenza delle Sezioni Unite risolve il contrasto giurisprudenziale

Assegno divorzile: sentenza delle Sezioni Unite.

Il comunicato stampa della Cassazione.

Dopo la sentenza del maggio 2017, che aveva modificato un consolidato e pluridecennale orientamento, volto a riconoscere il cd assegno divorzile tenendo come parametro di riferimento il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, la decisione sul contrasto giurisprudenziale formatosi era stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

comunicato sezioni unite
Assegno divorzile Sentenza delle Sezioni Unite: un criterio composito da sviscerare alla luce del cammino matrimoniale

La Cassazione ha statuito la questione con sentenza 18287/2018 recante data odierna (11.07.2018).

Oggi è uscito il comunicato stampa della Cassazione che ha riassunto, in attesa del deposito delle motivazioni, i seguenti concetti fatti propri dalla Sentenza:

  • l’assegno di divorzio ha una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa.
  • ai fini dell’attribuzione dell’assegno occorre tener conto delle condizioni economiche-patrimoniali degli ex coniugi, confrontandole tra loro e far riferimento particolare al contributo fornito dal richiedente l’assegno al patrimonio comune e personale, alla durata del matrimonio e alle potenzialità reddituali presenti e future, nonchè all’età del possibile soggetto beneficiario del contributo.
  • quanto sopra in considerazione dei principi costituzionali di ” pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo“.

In attesa di conoscere compiutamente il testo della Sentenza, sul quale avremo modo, senz’altro, di soffermarci.

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Dieci cose da sapere sull’assegno di mantenimento in caso di separazione

Sull’assegno di mantenimento in caso di separazione.

Quando l’amore è finito, gli alimenti colmano il vuoto.”

MARLENE DIETRICH

Cinica Marlene.

Ma è indiscusso che nell’ambito della gestione della crisi matrimoniale la parte da leone – figli a parte – la rivesta il pensiero al “se” e al “quanto” sia dovuto a titolo di mantenimento in caso di separazione.

Riteniamo di fare cosa utile nel riportare dieci cose buone a sapersi in merito, ferma la necessità di documentarle più approfonditamente per attagliarle al caso proprio.

assegno di mantenimento in caso di separazione
dieci cose da sapere sull’assegno di mantenimento in caso di separazione

1. Quando è dovuto un assegno di mantenimento?

L’art. 156 del codice civile stabilisce che “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

Pertanto, presupposti per la concessione di un assegno di mantenimento sono:

a. assenza di addebito della separazione al coniuge che faccia richiesta del mantenimento;

b. assenza di “adeguati redditi propri” da parte del richiedente;

c. la sussistenza di redditi in capo all’altro coniuge idonei a corrispondere un assegno di mantenimento.

Si noti: per poter ottenere l’assegno di mantenimento è necessario farne espressa richiesta, in difetto il giudice non può disporlo d’ufficio.

2. Per verificare la sussistenza di “adeguati redditi propri” del coniuge che faccia richiesta di assegno di mantenimento è necessario anche appurare la possibilità dello stesso a procurarseli, le concrete possibilità di lavoro (in base all’età, alle competenze, alla necessità di accudire figli), nonché eventuali ulteriori elementi patrimoniali (es. cespiti immobiliari, conti correnti, titoli).

Per la Cassazione, l’ attitudine del coniuge al lavoro deve consistere nell’ “ effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e con esclusione di mere valutazioni astratte ed ipotetiche. È escluso il diritto al mantenimento quando il coniuge, ben in grado di procurarsi redditi adeguati, stante la pacifica esistenza di proposte di lavoro, immotivatamente non le accetta” (cass. Civ. 5817/2018).

Va altresì rilevato che se l’assenza di impiego da parte del coniuge richiedente il mantenimento sia stata dovuta ad una scelta maturata d’accordo con l’altro durante il matrimonio, tale determinazione non possa non avere rilevanza nell’ambito della pronuncia del Giudice della separazione.

E’ stato infatti statuito che se “i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto “per facta concludentia”) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, perché la separazione instaura un regime che, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il “tipo” di vita di ciascuno dei coniugi” (Cass. Civ. 12121/2004).

tenore di vita costanza di matrimonio
parametro di riferimento per l’ammontare dell’assegno è il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio

3 A quanto può ammontare l’assegno di mantenimento in caso di separazione?

Come abbiamo visto, la contribuzione può essere riconosciuta al coniuge che non abbia redditi adeguati.

Adeguati a cosa?

A mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.

Infatti, come ha rilevato una recente sentenza della Cassazione,”La separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio”. (Cass. civ. Sez. I Sent., 16/05/2017, n. 12196 )

Ebbene, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio sarà parametro di riferimento tanto per la concessione di un assegno di mantenimento, tanto per la determinazione del suo ammontare.

Con riferimento a quest’ultimo aspetto, tuttavia, occorrerà valutare anche le condizioni reddituali del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno.

Ovviamente una contribuzione potrà essere chiesta se la controparte sia in grado di somministrarla, tenuto conto dell’analogo diritto di mantenere le condizioni di vita che hanno contraddistinto la vita matrimoniale.

Debbono essere fatte due precisazioni.

Il tenore di vita matrimoniale va riferito al periodo immediatamente precedente la separazione, non potendosi basare su parametri risalenti, comunque non attuali.

Il reddito del coniuge che dovrà versare l’assegno di mantenimento dovrà essere valutato al netto e non al lordo delle imposizioni fiscali, dal momento che è sul reddito netto “che la famiglia fa affidamento in costanza di matrimonio, rapportando ad esso ogni possibilità di spesa”. (Cass. Civ. 13954/2018).

4 Il giudice può inserire l’assegnazione della casa coniugale nel “pacchetto mantenimento”?

No.

L’assegnazione della casa coniugale può essere disposta dal Giudice solamente nel preminente interesse di figli minori o maggiorenni non autosufficienti.

Non potrà avvenire alcuna statuizione in assenza di tali presupposti, non potendosi far rientrare l’assegnazione nell’ambito o in sostituzione dell’assegno di mantenimento.

Certo è che, se l’immobile adibito a residenza familiare sia stato assegnato ad un coniuge a cui siano stati affidati (o prevalentemente collocati) i figli, di tale circostanza se ne potrà tener conto nella determinazione dell’ammontare dell’eventuale assegno di mantenimento, poiché il giudice “tiene conto dell’assegnazione della casa familiare nell’ambito della regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi” (art. 155 quater cc).

5 Come è possibile determinare i redditi del coniuge che richiede o è tenuto a corrispondere l’assegno di mantenimento?

E’ noto che in ambito di separazione certi coniugi, anche quelli di per se’ benestanti, diventino magicamente indigenti.

Professionisti affermati, imprenditori arrembanti, agricoltori multiterrieri si trovano a presentare dichiarazioni dei redditi a zero o in perdita.

Ebbene, nell’ambito della separazione è ascritto al giudice il potere di disporre indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria e costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, in base alle quali chi rivendichi in giudizio un fatto o una circostanza deve darne egli stesso la prova.

Attenzione: tale potere è riconducibile alla discrezionalità del giudicante e non costituisce un obbligo del suo ufficio, tuttavia, qualora scelga di non avvalersene, non può rigettare la domanda di assegno di mantenimento sotto il profilo della mancata prova dei redditi del coniuge onerato. (Cass. civ. Sez. I, 17/06/2009, n. 14081)

6 Nella determinazione del reddito del coniuge richiedente o di quello tenuto a corrispondere l’assegno si può tener conto di eventuali entrate che vengono corrisposte da terzi a titolo liberale?

Si sa che la separazione comporta un consistente detrimento delle condizioni patrimoniali dei coniugi. E’ una coperta molto stretta che, volendola tirare da una parte, lascia inevitabilmente scoperta l’altra.

E’ frequente, pertanto, che amici, parenti, più frequentemente genitori della coppia, intervengano con aiuti economici a fondo perduto che talvolta si traducono in vere e proprie forme di sostentamento.

Si possono tenere in considerazione tali entrate nella determinazione dei redditi dei coniugi da valutarsi ai fini della commisurazione dell’assegno di mantenimento?
La risposta è negativa, anche se va segnalata una passata titubanza della giurisprudenza intervenuta in merito.

All’iniziale orientamento favorevole alla rilevanza di dette elargizioni, ove non meramente saltuarie, bensì continue e regolari (cfr. Cass. 5916/1996, in tema di separazione, nonchè Cass. 278/1977, 358/1978, 497/1980, 1477/1982, 4158/1989, in tema di divorzio), è poi subentrato un orientamento negativo (cfr. Cass. 11224/2003, 6200/2009, in tema di separazione, nonchè Cass. 4617/1998, 7601/2011, in tema di divorzio; Cass. 13060/2002) che fa leva sul carattere liberale delle elargizioni di cui trattasi, non comportanti l’assunzione di alcun obbligo di mantenimento da parte dei genitori.

L’attuale indirizzo depone per l’ “l’irrilevanza delle elargizioni liberali di terzi, quali i genitori, ancorchè regolari e protrattesi anche dopo la separazione”: ciò sia per il coniuge richiedente l’assegno ma “anche con riguardo agli aiuti economici ricevuti dal coniuge obbligato al pagamento dell’assegno. Decisivo è l’evidenziato carattere liberale e non obbligatorio di tali aiuti, che impedisce di considerarli reddito dell’obbligato, ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 2, così come non costituiscono reddito, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, gli analoghi aiuti ricevuti dal coniuge creditoreCass. civ. Sez. I, Sent., 21-06-2012, n. 10380.

durata matrimonio
la brevità del matrimonio può incidere sul quantum dell’assegno

7 Nella determinazione dell’assegno di mantenimento si tiene in considerazione la durata del matrimonio?

Nel mentre l’esiguo protrarsi del vincolo non preclude alla concedibilità dell’assegno, la brevità del rapporto nuziale potrà incidere sulla determinazione del quantum dovuto.

Come avevamo avuto modo di rilevare in un articolo precedente, per legge l’entità di tale somministrazione è determinata dal giudice in relazione alle circostanze: e tra queste ben potrà trovare ingresso l’esigua durata del rapporto.

8. Se il titolare dell’assegno di mantenimento intrattenesse una nuova relazione affettiva, perderebbe il beneficio?

Mentre in passato la convivenza more uxorio da parte del coniuge separato non era ritenuta idonea a precludere, di per se’ stessa, la percezione dell’assegno di mantenimento, ma veniva considerata, al più, come fattore in grado di migliorare il tenore di vita goduto a seguito della nuova relazione e quindi incidente sull’ammontare dell’assegno dovuto, ora le più recenti sentenze della Corte di Cassazione sono più restrittive.

Infatti, “l’instaurazione da parte del coniuge separato di una convivenza more uxorio che, caratterizzandosi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità, dia luogo alla formazione di una famiglia di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità a suo favore dell’assegno di separazione” (Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 28/11/2017, n. 28436) .

9 Da quando decorre l’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento?

Sappiamo che in Italia le cause possano durare anche parecchi anni.

Fissare più o meno avanti la decorrenza dell’assegno di mantenimento potrebbe far ballare parecchi quattrini.

Ebbene, anche per la separazione, come in genere ogni altro procedimento giudiziale, vale il principio per cui un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio. Conseguentemente, come ha avuto modo di statuire anche pochi giorni fa la Cassazione, “l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale, decorre dalla data della relativa domanda (Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., (ud. 14-12-2017) 05-02-2018, n. 2687)

assegno di mantenimento in caso di separazione
Il giudice può disporre venga prestata idonea garanzia per l’adempimento dell’obbligo

10 E se il coniuge obbligato non pagasse il mantenimento?

Sì perché un conto è che un diritto sia consacrato da una Sentenza, altro che quella sentenza venga rispettata.

Per tale evenienza, l’art. 156 cc stabilisce che “Il giudice che pronunzia la separazione può imporre al coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi

Non solo.

La sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.

In caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto.

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La casa acquistata da un solo coniuge in comunione dei beni

Casa acquistata da un solo coniuge in comunione dei beni: a chi appartiene?

Ad entrambi i consorti verrebbe da dire e la risposta è corretta. Ma con qualche specifica.

Cosa rientra nella comunione dei beni?

La comunione dei beni è un regime patrimoniale col quale rientrano nella sfera della contitolarità in capo ai coniugi (art. 177 cc)

acquisto in regime comunione dei beni
nella comunione dei beni rientrano essenzialmente gli acquisti effettuati dai coniugi dopo il matrimonio

– gli acquisti effettuati, assieme o separatamente durante il matrimonio,

– i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione

– i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione.

– le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.

Sugli stipendi guadagnati separatamente dai coniugi, ci eravamo soffermati in precedenza, sottolineando come la legge faccia rientrare nella comunione solo i denari che risultassero sussistenti allo scioglimento della comunione stessa, rimanendo, invece, nella disponibilità esclusiva del solo coniuge quelli guadagnati durante il periodo antecedente tale scioglimento (che spesso coincide con la separazione).

Oggi concentriamo l’attenzione sugli acquisti effettuati durante la comunione: che siano effettuati assieme o separatamente dai coniugi, la legge ne attribuisce la proprietà ad entrambi.

Anche la casa?

Certamente. Sia che venga acquistata da entrambi i consorti, sia che all’atto abbia partecipato uno solo, i beni immobili apparterranno ad entrambi, a meno che

Eccezioni

La legge dispone alcune eccezioni all’attribuzione congiunta dell’immobile acquistato durante la vigenza del regime della comunione dei beni.

In primis, apparterranno al singolo coniuge gli immobili conseguiti in virtù di donazione o lascito ereditario.

In secondo luogo, sono escluse dalla comunione le case acquistate per uso strettamente personale di un coniuge, oppure che servano all’esercizio della professione di uno solo dei consorti, o – da ultimo – acquistate col prezzo del trasferimento di beni appartenenti esclusivamente ad un coniuge.

Perchè un immobile – che rientri tra quelli sopra indicati – possa ritenersi di proprietà del singolo consorte e non già in comunione, è necessaria la ricorrenza di due requisiti imprescindibili (art.  179 cc):

– nell’atto di acquisto sia dichiarato che il bene non rientri nella comunione, perché ricorra una delle fattispecie di esclusione sopra indicate;

– all’atto di acquisto abbia partecipato anche l’altro consorte.

partecipazione coniuge atto di acquisto
Casa acquistata da un solo coniuge in comunione dei beni: per la proprietà esclusiva è necessaria la partecipazione dell’altro coniuge all’atto di acquisto

Casa acquistata da un solo coniuge in comunione dei beni: per l’esclusività è necessario che il consorte abbia partecipato all’atto di acquisto.

Anche se l’immobile rientrasse nei casi in cui la proprietà possa essere ricondotta ad uno soltanto dei coniugi, è imprescindibile che all’atto di acquisto abbia partecipato anche l’altro consorte.

Lo ha ribadito una recente sentenza della Corte di Cassazione.

Nella fattispecie, all’esito della separazione, la moglie aveva chiesto la divisione di un compendio immobiliare acquistato dal marito durante il matrimonio, nonché il rimborso di quota parte dei canoni di locazione maturati dopo la separazione e riscossi solo dall’altro coniuge.

Il marito si era costituito rivendicando la proprietà esclusiva della casa, acquistata per far fronte a bisogni strettamente personali e con mutuo pagato con i proventi della propria attività professionale.

La Suprema Corte ha dato ragione alla moglie, per motivi linearissimi.

In primo luogo, non aveva alcun valore che fossero stati impiegati per la compravendita denari conseguiti con il lavoro esclusivo del marito, in quanto il loro impiego in un acquisto ha fatto rientrare di diritto la casa comprata nel novero della comunione.

In secondo luogo, non era sufficiente che tale immobile fosse stato destinato ad un impiego esclusivamente personale di un coniuge, se all’atto di acquisto non aveva partecipato anche l’altro, come nel caso di specie, che ne avesse dichiarato l’esclusione dalla comunione.

Per inciso, la Corte è tornata a ribadire un altro concetto, già consolidato da precedenti pronunce e su cui, pure, ci eravamo soffermati già: la dichiarazione resa nell’atto dal coniuge non acquirente … in ordine alla natura personale del bene, si pone, peraltro, come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179 c.c.”.

 

La sentenza: Cassazione Civile 11668/2018

 

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Revisione dell’ assegno di divorzio in base al nuovo orientamento giurisprudenziale? Non basta

E’ possibile chiedere la revisione dell’assegno di divorzio in base al nuovo orientamento giurisprudenziale che elimina come parametro di riferimento il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio?

Alea iacta est. Dicevano i romani.

Il dado è tratto.

Nel nostro ordinamento una sentenza che non è più impugnabile acquisisce efficacia incontrovertibile (art. 324 cpc

Bene.

La recente sentenza della Cassazione sull’assegno di divorzio ha costituito un’autentica bomba atomica per quanto concerne l’assegno divorzile

Ora, come è noto, la recente pronuncia della corte di Cassazione che ha introdotto un nuovo orientamento per determinare se sia dovuto un assegno divorzile a favore di un (ex) coniuge ed, in caso positivo, quanto debba essere corrisposto, ha avuto un effetto dirompente, in quanto copernicana è stata la rivoluzione rispetto ad un filone giurisprudenziale consolidato da lustri e lustri.

Il criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio è destinato a cedere il passo a quello dell’autosufficienza (o possibilità di indipendenza) economica del coniuge non più tale.

I procedimenti divorzili iniziati dopo tale pronuncia avranno visto, quasi sicuramente, applicato il nuovo criterio, in attesa della pronuncia della corte di Cassazione a Sezioni Unite che dovrebbe sciogliere ogni dubbio sulla definitività di tale percorso argomentativo.

E per i divorzi già pronunciati?

Magari per quelli che hanno statuito come dovuto un assegno divorzile, sulla base del precedente orientamento, è possibile invocare il “cambio di rotta”?

Ce lo eravamo chiesto (link). Ora sembra di no.

Una recente pronuncia del Tribunale di Mantova, ci aiuta a fare il punto.

In base alla legge sul divorzio,Qualora sopravvengono giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale… può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere” (art. 9 L. 898/1970). (ne avevamo parlato e riparlato)

Ebbene, si tratta di verificare se tra i giustificati e sopravvenuti motivi possa rientrare la mutata interpretazione giurisprudenziale in tema di assegno divorzile.

Il tribunale lombardo dà pollice verso.

Per “fatto sopravvenuto” deve intendersi un “ fatto nuovo sopravvenuto modificativo della situazione economica in relazione alla quale erano stati adottati i provvedimenti concernenti il mantenimento del coniuge”, debbono cioè essersi modificate le carte in tavola, dal punto di vista patrimoniale, che erano state tenute in considerazione all’epoca della pronuncia di scioglimento del vincolo.

Non è, pertanto, possibile in un giudizio di revisione “addurre fatti pregressi o ragioni giuridiche non prospettate nel procedimento di divorzio e ciò alla stregua del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile” e cioè, che una sentenza non più impugnabile diviene definitiva ed incontrovertibile.

In caso contrario, si verrebbe ad estendere a rapporti “esauriti”, perché coperti dalla sentenza passata in giudicato, una diversa interpretazione delle norme a suo tempo applicate, ma con efficacia retroattiva: ciò – come sottolinea decisamente il Tribunale mantovano – non è consentito nemmeno alla legge (che in linea generale è irretroattiva, art 11 disp prel.cc.), figuriamoci alle pronunce giurisprudenziali.

retroattività sentenza cassazione assegno divorzile
Revisione dell’ assegno di divorzio in base al nuovo orientamento giurisprudenziale: è no, ma i giudicati precedenti sono penalizzati.

Il ragionamento, di per sé, non fa una piega.

Andiamolo a spiegare a chi deve sborsare, magari con molta fatica, un assegno di mantenimento all’ex e veda casi simili al proprio regolati in maniera del tutto differente per uno snap”, uno schiocco di dita giurisprudenziale, che modifichi l’interpretazione delle identiche norme applicate al suo divorzio.

La pronuncia: Tribunale di Mantova, sez. I, sentenza 24 aprile 2018 

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Assegnazione della casa familiare: chi paga le spese?

Dopo l’assegnazione della casa familiare chi paga le spese per le utenze e per la manutenzione dell’immobile?

Uno degli aspetti che i coniugi debbono valutare attentamente in sede di separazione è l’assegnazione della casa familiare.

In assenza di accordo, il giudice potrà disporla nel “preminente interesse dei figli”.

Bene, diamo per scontato questo passaggio, su cui ci eravamo soffermati in precedenza, e andiamo ad esaminare un’altra problematica, ricorrente nella fase successiva alla separazione.

Chi sopporterà le spese della casa?

Bollette, rifiuti, tasse, imposte, manutenzione ordinaria, lavori straordinari.

C’è da far girare la testa a pensarci, specie in un ambito assai convulso quale quello che impera durante la crisi coniugale, dove si debbono valutare mille aspetti e quelli di contorno non trovano sempre spazio. E poi la “coperta” è spesso troppo corta per far combaciare tutto.

Teniamo conto che l’assegnazione della casa è un indubbio vantaggio, oltre che per i figli, anche per il coniuge che debba esserne beneficiato, ma è indubbio che mantenere un immobile, spesso di dimensioni consistenti, utilizzato da più persone che consumano, eccome se consumano, e usurano ambienti ed accessori, può essere assai oneroso.

Andiamo con ordine.

Le bollette.

assegnazione casa familiare bollette

Acqua, luce, gas, rifiuti, andranno ascritti al solo coniuge assegnatario della casa.

Come ha rilevato una recentissima pronuncia della Cassazione “L’assegnazione della casa coniugale esonera l’assegnatario esclusivamente dal pagamento del canone, cui altrimenti sarebbe tento nei confronti del proprietario esclusivo dell’immobile assegnato, sicché la gratuità dell’assegnazione dell’abitazione ad uno dei coniugi si riferisce solo all’uso dell’abitazione medesima (per la quale, appunto, non deve versarsi corrispettivo) ma non si estende alle spese correlate a detto uso (ivi comprese quelle che riguardano l’utilizzazione e la manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’abitazione familiare) le quali, son di regola a carico del coniuge assegnatario”. (Cass Civ. 10927/2018)

La porzione di utenze addebitabile ai figli sarà, infatti, da ascrivere al contributo al mantenimento ordinario versato mensilmente dal genitore non assegnatario.

E’ vero che, specie nei mesi invernali, i costi sono destinati a lievitare considerevolmente, ma è altrettanto appurato che durante gli altri mesi, in cui le spese saranno più contenute, sarà buona cura dell’altro genitore risparmiare e mettere fieno in cascina (lo so, in sede di separazione è pressochè impossibile utilizzare la parola “risparmio”).

Spese di manutenzione ordinaria.

Si tratta di pulire la caldaia? Sostituire il lavandino? Tinteggiare i muri interni?

Ci pensa il coniuge che abbia il beneficio dell’abitazione.

Come è stato rilevato da alcune pronunce, il diritto dell’assegnatario corrisponde al diritto reale di abitazione di cui all’art. 1022 c.c., in base al quale nella ripartizione degli oneri di ordinaria e straordinaria manutenzione valgono i medesimi criteri stabiliti in materia di usufrutto.

Per cui: le spese e, in genere, gli oneri relativi alla custodia, amministrazione e manutenzione ordinaria della cosa (art. 1004 cc) saranno a carico del coniuge assegnatario.

Spese di manutenzione straordinaria.

assegnazione casa familiare spese straordinarie
assegnazione della casa familiare chi paga le spese ? Spese ordinarie all’assegnatario, straordinarie al proprietario

Rifacimento del tetto, cappotto termico, rinnovamento o manutenzione di infissi, impianti, scale, muri maestri, travi, solai, muri di sostegno o di cinta: sono spese straordinarie che, facendo propri i concetti di cui sopra, andranno ascritti al proprietario dell’abitazione, anche se non sia assegnatario.

Spese condominiali

Seguiranno la ripartizione sopra indicata, in base alla quale alcuni capitoli di spesa andranno addebitati all’inquilino, altri al proprietario.

Piuttosto, è ipotesi frequente che determinate spese condominiali vengano deliberate in un momento e sostenute in epoca successiva.

Se al momento della loro approvazione la famiglia era unita sotto lo stesso tetto e, poi, al momento in cui debbano essere pagate la separazione sia avvenuta ed un solo coniuge, con i figli, dimori nella casa familiare, chi dovrà sostenerle?

Anche qui la Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi, rilevando che “l’obbligazione di ciascun condomino di contribuire alle spese per la conservazione dei beni comuni nasce nel momento in cui è’ necessario eseguire le relative opere, mentre la delibera dell’assemblea di approvazione della spesa rende liquido il debito”.

Per cui l’anteriorità della delibera condominiale sulle spese che debbano sostenersi rispetto all’assegnazione della casa esclude che l’assegnatario sia tenuto al pagamento delle stesse a prescindere che sia poi quest’ultimo l’effettivo soggetto che benefici dell’esecuzione dei lavori.

Dovrà provvedervi il coniuge proprietario.

Con un’altra interessante precisazione.

Allorquando l’altro coniuge, non proprietario, abbia contribuito a far fronte a tali spese, questi, in sede di separazione, non potrà chiederne il rimborso, essendo tali oneri stati sostenuti per contribuire ai bisogni della famiglia e, pertanto, non rimborsabili (vedasi apposito post)

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Litigare davanti ai figli può costituire reato?

Litigare davanti ai figli: la violenza assistita, se ripetuta ed idonea a ledere la stabilità emotiva della prole, può realizzare il reato di maltrattamenti in famiglia.

Ne stanno parlando pure Di Maio e Salvini, in questo periodo così tumultuoso per le sorti del nostro paese: gli effetti negativi delle crisi familiari debbono essere arginati, soprattutto a tutela dei figli, specie minori, tanto è che nel loro “contratto di governo” i due esponenti politici stanno “valutando l’introduzione di norme volte al contrasto del grave fenomeno dell’alienazione parentale”. 

In attesa di capire quali possano essere gli interventi legislativi promessi e, soprattutto, di appurarne la loro eventuale – ma auspicabile – efficacia, ci soffermiamo a riflettere su un altro fenomeno, purtroppo, assai diffuso: quello delle liti accese tra genitori cui sono testimoni inermi i figli.

Litigi davanti ai figli: è reato?

Arriva l’estate, la bella stagione. Col caldo si aprono le finestre, anche a notte inoltrata. Capita di sovente che la brezza della sera si accompagni al rumore di urla, insulti, pianti e frastuoni provenienti da abitazioni vicine, che prima non si udivano, perché col freddo ci si rinchiudeva in casa, ma ora non si riescono ad ignorare.

Il pensiero degli astanti correrà, allora, ai figli dei litiganti, spettatori inermi di un spettacolo a cui chiunque vorrebbe essere esentato ad assistere.

Può essere ammessa una condotta simile? E’ giuridicamente lecito mantenere comportamenti che potrebbero ledere la stabilità emotiva di bambini o adolescenti in età evolutiva, con gravi ripercussioni, appurabili anche in età adulta?

La risposta è, ovviamente, negativa, ma il percorso per arrivarci non è così agevole.

Non c’è, infatti, una norma che espressamente venga a punire – di per se stessa – la cd “violenza assistita”, che attualmente è una semplice circostanza aggravante di altri reati commessi in presenza o in danno di un minore di anni 18 (art. 61, n 11 quinquies cp). 

maltrattamenti in famiglia
Chiunque, maltratta una persona della famiglia … è punito con la reclusione da due a sei anni.

Maltrattamenti in famiglia

Un’interessante – quanto recentissima – Sentenza della Corte di Cassazione ha inserito la fattispecie nell’ambito del delitto di “maltrattamenti in famiglia” (Art. 572 cp)

Come accennato, l’approdo non è stato così scontato ed il motivo è presto detto.

Il reato di maltrattamenti riguarda colui che, appunto, maltratta una persona della famiglia.

I maltrattamenti sembrano presupporre una condotta attiva di atteggiamenti vessatori – fisici e/o psicologici – rivolti alla persona offesa. Ma se tali comportamenti non siano diretti verso i figli ma alla persona del coniuge e i minori si limitino ad essere spettatori passivi di tali condotte violente e offensive potrebbe sorgere qualche dubbio in ordine alla integrazione del reato nei confronti della prole.

La Cassazione non ha questi dubbi.

Il caso in esame riguardava due genitori, animati da un’accesissima ostilità e disaccordo, che – ben guardandosi dal simulare le loro liti ai figli minori – li costringevano “a presenziare alle reiterate manifestazioni di reciproca conflittualità realizzate nell’ambito del rapporto di convivenza (….) mediante ripetuti episodi di aggressività fisica e psicologica, con condotte vessatorie e continui litigi, minacce e danneggiamenti di suppellettili”.

Ebbene, non si trattava di verificare se tali comportamenti avrebbero potuto legittimare la configurazione del reato di maltrattamenti di un genitore nei confronti dell’altro – rispetto al quale ben si sarebbe potuta invocare l’aggravante della violenza assistita dai minori (per un reato, lo si ripete, avente come persona offesa il coniuge) – bensì si doveva vagliare se la fattispecie criminosa si sarebbe potuta richiamare nei confronti dei figli, nelle loro vesti di spettatori loro malgrado alle invettive di mamma e papà.

La Corte di Cassazione ha propeso per considerare integrato il reato di maltrattamenti nei confronti dei figli.

Maltrattattare è anche far assistere ai litigi

Litigare davanti ai figli
Litigare davanti ai figli può integrare il reato di maltrattamenti

Per gli ermellini “non è revocabile in dubbio che il delitto di maltrattamenti possa essere configurato anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano (solo) indirettamente quali involontari spettatori delle feroci liti e dei brutali scontri fra i genitori che si svolgano all’interno delle mura domestiche, cioè allorquando essi siano vittime di c.d. violenza assistita. La condotta di chi costringa minore, suo malgrado, a presenziare – quale mero testimone – alle manifestazioni di violenza, fisica o morale, è certamente suscettibile di realizzare un’offesa al bene tutelato dalla norma (la famiglia), potendo comportare gravi ripercussioni negative nei processi di crescita morale e sociale della prole interessata”.

La Cassazione, ancora, rileva come costituisca “approdo ormai consolidato della scienza psicologica che anche bambini molto piccoli, persino i feti ancora nel grembo materno, siano in grado di percepire quanto avvenga nell’ambiente in cui si sviluppano e, dunque, di comprendere e di assorbire gli avvenimenti violenti che ivi si svolgano, in particolare le violenze subite dalla madre, con ferite psicologiche indelebili ed inevitabili riverberi negativi per lo sviluppo della loro personalità.”.

Da ultimo, e per precisione, va sottolineato come sia stato evidenziato dai Supremi Giudici come il reato di maltrattamenti imponga, per la sua realizzazione, non già un isolato od occasionale comportamento vessatorio, ma “una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo”.

La Sentenza: Cass., VI pen., sent. n. 18833/2018 

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