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Autore: Studio Legale Berto

Operazione sanitaria senza consenso? Illegittima anche se indispensabile per la salute del paziente ed andata a buon fine.

 

 

E’ possibile richiedere i danni per un’operazione sanitaria senza consenso del paziente, anche se utile, se non indispensabile per la sua salute? 

 

 

 

Libertà è partecipazione.
(Giorgio Gaber)

 

 

Partecipare.


Il diritto di dire la propria. Specie su decisioni che riguardano la propria pelle.


Fondamentale; anzi, inviolabile.


La libertà personale è inviolabile”: lo dice la nostra Costituzione (art. 13).
“nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”: art. 32 Cost.


La libertà di autodeterminarsi. Anche in ambito sanitario.


Fino alla fine. Senza eccezioni.


La recente legge, cd sul testamento biologico, ha sancito una volta di più il diritto di ogni persona “di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonche’ riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.


Ed ancora “nessun trattamento sanitario puo’ essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”.

 

 

operazione sanitaria senza consenso: facciamo il punto


La domanda di oggi è duplice:


– è possibile considerare legittimo un intervento sanitario salvifico, eseguito contro la volontà del paziente?

–  Se un’operazione dovesse essere cominciata col consenso del paziente, ma in corso d’opera fossero necessari ulteriori interventi, questi ultimi si potrebbero effettuare anche senza informare il diretto interessato?


Due sentenze, interessantissime, ci aiutano a fare il punto.


La prima, un po’ risalente ma sempre attuale, riguardava il caso di un giovane che, a seguito di incidente, veniva ricoverato in ospedale per gli interventi del caso.
Il ragazzo, lucidissimo, esponeva di professare una confessione religiosa che gli precludeva la possibilità di ricevere emotrasfusioni, per cui ammoniva i medici dicendo di operare come credevano, ma senza trasfusioni di sangue.


Di lì a qualche tempo dopo, imprevedibilmente, le condizioni del paziente peggioravano e, una volta persa coscienza, si rendevano essenziali per la sua vita stessa le trasfusioni di sangue rispetto alle quali aveva formulato il proprio divieto.


Nonostante ciò, per salvare il ragazzo, i medici decisero ugualmente di procedere al trattamento sanitario, che si rivelò salvifico, ma che – dopo la guarigione del giovane – causò una richiesta di risarcimento danni, per violazione del diritto costituzionale alla autodeterminazione.

I medici si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto delle istanze avversarie “ma come? Ti abbiamo salvato la vita e ti lamenti pure?”.


I giudici, con sentenza confermata dalla Cassazione, hanno respinto le richieste del ragazzo, ma la motivazione fa riflettere.


Il paziente non aveva dimostrato l’attualità del suo rifiuto al trattamento sanitario effettuato. Aveva accennato alla sua posizione in merito, manifestando il suo credo e la sua opposizione, ma lo aveva fatto quando stava “bene”, quando nulla lasciava presagire alla perdita di coscienza e al precipitare delle sue condizioni, quando la morte non bussava ancora alla sua porta.

Ecco, se lo avesse fatto in quelle condizioni, se avesse manifestato il suo “rifiuto informato”, con piena coscienza della situazione, allora nessuno avrebbe potuto imporgli un trattamento rigettato a ragion veduta.


Si segnala, al riguardo, una recente sentenza del Tribunale di Termini Imerese che, proprio in relazione ad un caso analogo, ha stabilito: “il consenso espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, è vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato… il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale. Va dunque riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita.
Più specificamente in tema di consenso informato nella trasfusione di sangue, non può non rilevarsi la peculiarità della fattispecie in cui sia il Testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, a negare il consenso alla terapia trasfusionale, essendo in tal caso il medico obbligato alla desistenza da tale terapia posto che, in base a principio personalistico, ogni individuo ha il diritto di scegliere tra la salvezza del corpo e la salvezza dell’anima.

 

 

Un altra ipotesi, parzialmente differente, è quella in cui un soggetto si sottoponga volontariamente ad un intervento chirurgico, ma poi, in corso d’opera, venga eseguito un trattamento sanitario, diverso ed ulteriore rispetto a quello previsto, a fronte dell’opportunità di meglio tutelare la salute del paziente.


Ci occupiamo di una fattispecie in cui ad una donna, ricoverata per togliere una cisti alla milza, veniva espiantato totalmente tale organo, avendo i sanitari ritenuto, a ragione, che tale operazione sarebbe stata assai più indicata per le condizioni della paziente.


A fronte di un dolore post operatorio, acuto e continuo, alla signora veniva spiegato quanto accaduto, che l’intervento effettuato era il migliore possibile per lei, che non sarebbe stato opportuno rimandarlo, in attesa di raccogliere il suo consenso.


Non la pensava così la paziente, che adiva il Tribunale chiedendo il risarcimento dei danni.


La Cassazione, con una sentenza recentissima, ha riconosciuto i buoni diritti della signora.


Nessun trattamento sanitario può essere eseguito senza il consenso libero ed informato di chi lo debba subire.


Non possono rilevare, ai fini dell’esclusione della responsabilità del medico (e della struttura sanitaria), l’assenza di prova che la paziente, in presenza di tempestiva e idonea informazione, si sarebbe egualmente sottoposta all’intervento, nonchè il carattere “necessitato” dell’intervento eseguito .


Accanto alla lesione del diritto alla salute, infatti, va affiancata la “lesione del diritto all’autodeterminazione terapeutica in sè considerato, rispetto al quale il carattere necessitato dell’intervento e la sua corretta esecuzione restano circostanze prive di rilievo”.


Difatti, “in tema di attività medico-chirurgica, è risarcibile il danno cagionato dalla mancata acquisizione del consenso informato del paziente in ordine all’esecuzione di un intervento chirurgico, ancorchè esso apparisse, “ex ante”, necessitato sul piano terapeutico e sia pure risultato, “ex post”, integralmente risolutivo della patologia lamentata, integrando comunque tale omissione dell’informazione una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all’espletamento dell’atto medico e di beneficiare della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall’esito favorevole dell’intervento“.

 


Quando va riconosciuto il risarcimento del danno?


la violazione “dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori – anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione – a condizione che sia allegata e provata, da parte dell’attore, l’esistenza di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto fondamentale alla autodeterminazione in sè considerato


Come può essere liquidato il danno?


il danno da lesione del diritto all’informazione può essere costituito, “eventualmente, dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene ai fini terapeutici, parti del corpo o la funzionalità di esse: poichè tale diminuzione si sarebbe potuta verificare solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa, si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno-conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona

 

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

operazione sanitaria senza consenso

Richiesta rilascio permesso di costruire in forma espressa.

Si può sempre pretendere il rilascio di un permesso di costruire in forma espressa.

In una recente sentenza (TAR Puglia, 20 maggio 2019 n. 725), il giudice amministrativo ha preso in esame un ricorso con cui era stato impugnato il provvedimento di decadenza per omesso avvio dei lavori entro il termine annuale, pronunciato in ordine al permesso di costruire tacito.

Difatti, l’amministrazione comunale a fronte della presentazione dell’istanza di permesso di costruire, aveva serbato silenzio, senza adottare un provvedimento espresso.

La formazione del silenzio assenso è prevista dall’art. 20 del DPR 380/2001 che così recita: “decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali”.

Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti amministrativi e tecnici, sia soggettivi che oggettivi, di accoglibilità, dato che in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei detti presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può validamente formarsi (si veda Cons. St., sez. IV, 12 luglio 2018 n. 4273; Cons. St., sez. IV, 5 settembre 2016 n. 3805).

 

 

Il privato però ha sempre la possibilità di richiedere un provvedimento espresso.

Infatti, osserva TAR Puglia nella sentenza sopra richiamata, deve ritenersi che, “allo stesso modo in cui il legislatore ha previsto, in favore del richiedente il titolo edilizio, per gli interventi sottoposti a S.C.I.A., la facoltà di optare per il permesso di costruire espresso (art. 22, comma 7, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), è quindi da ritenersi che debba essere riconosciuta la facoltà di optare per il permesso di costruite in forma espressa, laddove sia pur prevista la formazione del titolo in forma tacita (e per di più condizionata).

In ultima analisi, va affermato che rimane nella disponibilità del privato l’opzione per il rilascio di un provvedimento espresso (art. 2, comma 1, legge 7 agosto 1990 n. 241), sancito dalla normativa edilizia (d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380) come regola generale, laddove sia stata prevista, come regola speciale, ma deve ritenersi a ratione solo in via alternativa, la formazione di un silenzio-assenso, in quanto anche gli strumenti autorizzativi diversi o minori (c.d. S.C.I.A. e C.I.L.A.) sono consentiti solo nei casi speciali espressamente contemplati e fanno comunque salva la possibilità di scelta della richiesta da parte dell’interessato per il rilascio di un provvedimento espresso.

 

Richiesta rilascio permesso di costruire in forma espressa: sempre consentita 

 

In conclusione, secondo il TAR, l’amministrazione comunale, qualora specificamente richiesta e sollecitata, è obbligata a pronunciarsi sul rilascio del permesso edilizio in modo espresso, stante il principio generale imposto dall’art. 2, comma 1, della legge 7 agosto 1990 n. 241 secondo cui ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso”.

E, osserva sempre il TAR Puglia, decidendo il caso preso in esame “giammai l’amministrazione comunale può pronunciare una in ordine al titolo edilizio tacito formatosi, qualora sia stato richiesto, più volte nel tempo l’emanazione di un provvedimento espresso”.

 

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Richiesta rilascio permesso di costruire in forma espressa

Opposizione a revoca porto d’armi

 

 

 

Opposizione a revoca porto d’armi

 

 

Il rilascio o il rinnovo della licenza a portare le armi costituisce una deroga al generale divieto di portare armi, sancito dall’ articolo 699 cod. pen. che punisce con l’arresto fino a 18 mesi “chiunque, senza la licenza dell’Autorità , porta  un’arma fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa”.

Secondo la giurisprudenza amministrativa, l’eccezione a tale divieto può verificarsi soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse, così da scagionare dubbi o perplessità sotto il profilo dell’ordine pubblico e della tranquilla convivenza della collettività, dovendo essere garantita anche l’intera, restante massa dei consociati sull’assenza di pregiudizi (di qualsiasi genere) per la loro incolumità ed imponendosi un controllo più penetrante rispetto a quello relativo a provvedimenti permissivi di tipo diverso.

 

opposizione a revoca porto d’armi

 

I provvedimenti concernenti le armi sono, infatti, ispirati in linea generale da una logica preventiva, tale per cui, al fine di giustificare l’adozione dei provvedimenti di revoca della licenza, non è richiesto un comprovato abuso ma è sufficiente un plausibile e motivato convincimento dell’autorità di polizia circa la possibilità di un utilizzo improprio delle armi, tale da integrare un’erosione anche minima del requisito.

 

Dunque, il carattere altamente discrezionale del giudizio in ordine all’affidabilità nell’uso delle armi rende del tutto legittima una valutazione sulla capacità basata su considerazioni probabilistiche.

 

Per giungere alla revoca non  assume alcuna rilevanza il fatto che al soggetto interessato non siano ascrivibili responsabilità penali o illeciti amministrativi. E’ sufficiente, invece, che a carico dello stesso siano configurabili sospetti in pregiudizio ai tranquilli ed ordinati rapporti con le altre persone.

Peraltro, tali indizi ben possono essere costituiti anche dalle “frequentazioni” del soggetto interessato con persone gravate da procedimenti penali e di polizia.

 

Sempre la giurisprudenza (si veda TAR Veneto, sentenza n. 658 del 28 maggio 2019) ha però chiarito che il pericolo che costituisce giusta e responsabile preoccupazione per le Autorità incaricate del rispetto dell’ordine pubblico e della incolumità delle persone, non solo deve essere comprovato, ma richiede una adeguata valutazione non del singolo episodio ma anche della personalità del soggetto sospettato che possa giustificare un giudizio necessariamente prognostico sulla sua inaffidabilità, atteso che la mera denuncia all’Autorità giudiziaria non è circostanza che da sola possa giustificare l’adozione di un divieto di detenzione di armi o la revoca ovvero il diniego del porto d’armi.

 

In particolare, se gli elementi che vengono in rilievo attengono a denunce penali, l’Autorità di polizia non può limitarsi a richiamarle acriticamente o a trarre dalle stesse un automatico giudizio negativo, ma deve (anche) vagliare l’esito dei relativi procedimenti penali, specialmente se si tratta di denunce assai risalenti nel tempo, nonchè verificarne con maggiore rigore la rilevanza, avuto, altresì, riguardo alla condotta attuale del richiedente.

In ipotesi del genere, si impone, dunque, una nuova e aggiornata valutazione, tale da integrare – a seguito di approfondimento istruttorio – una motivazione rigorosa che investa, nel rispetto dei canoni di ragionevolezza e di coerenza, il complesso della condotta di vita recente del soggetto interessato.

 

 

Che cosa possono fare i soggetti destinatari di un provvedimento di revoca della licenza da parte del Questore?

 

Possono: 

1) proporre ricorso gerarchico al Prefetto nel termine di 30 giorni;

2)  proporre ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale ( T.A.R.) nel termine di 60 giorni.

 

 

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

opposizione a revoca porto d’armi

Cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale: la rendita vitalizia ed i diritti degli eredi

 

 

Il punto, e qualche virgola, sul cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale.

 


“Rancurare”.


In dialetto veneto dicesi così dell’atto di prendersi cura, di accudire, di assistere una persona, specie se sia malata.

Una circostanza nobile per chi la esegue, preziosissima per chi la riceve.

Frequentemente il destinatario delle cure si ricorda del suo benefattore, privilegiandolo in sede testamentaria.

Altre volte, per ottenere più garanzie e disciplinare la questione, ci si mette a tavolino e si imbastisce un contratto che, in termini giuridici, viene denominato rendita vitalizia impropria o assistenziale.


In che cosa consiste.


Il nostro codice civile non contempla specificamente questo tipo di contratto, bensì la rendita vitalizia, che è l’accordo con cui una parte trasferisce ad un’altra la proprietà di un bene immobile o di un capitale in cambio della corresponsione di un vantaggio periodico e protratto anche per tutta la durata della sua vita.

Quando il “vantaggio” conferito come controprestazione, consiste nel fornire vitto, alloggio o assistenza, per tutta la durata della vita ed in correlazione ai suoi bisogni alla persona che ha trasferito la proprietà dell’immobile, parliamo di vitalizio assistenziale, così definito dalla giurisprudenza.

 

 

La circostanza da precisare chiaramente, per capire il tipo di affare di cui stiamo parlando, è che si tratta di un contratto “aleatorio”.

Alea iacta est”, pronunciò Giulio Cesare,varcando il Rubicone. Il dado è tratto.

Noi sappiamo che quando si tirano i dadi non si sa come vada a finire e che numero possa uscire.


Ecco, il contratto aleatorio è quello dove non è possibile, anzi non si deve predeterminare l’equilibrio tra prestazione e contraprestazione, non si deve sapere chi ci perde e chi ci guadagna, essendo l’elemento incertezza essenziale per la validità stessa del contratto.


Come in ambito assicurativo non è dato prefissare se, pagando la cifra di tot euro l’anno, per il premio ci possa guadagnare la compagnia – nel caso in cui non si verifichi nessun sinistro, incamerando la rata senza fornire alcuna prestazione – oppure l’assicurato, vedendosi garantito di somme molto superiori a quanto corrisposto per la polizza nell’ipotesi di incidente, così pure deve essere per il vitalizio: deve essere incerto se l’affare possa volgere a vantaggio di chi acquisisce il bene immobile o di chi invece sia beneficiato dalla prestazione pattuita in cambio per l’affare.


Anzi, è proprio nell’ipotesi in cui una delle parti ci possa rimettere che la natura particolare di questo tipo di contratto diviene evidente: la legge, infatti,stabilisce espressamente che si sia tenuti a pagare la rendita, il servizio, per tutto il tempo pattuito “per quanto gravosa sia divenuta la prestazione” (art. 1879 cc), senza che vi sia la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, nemmeno offrendo di restituire il bene ricevuto per farla finita.


Se questa incertezza, questo rischio, viene a mancare il contratto è nullo.


La circostanza non è di poco conto.


Facciamo un esempio.

La giurisprudenza ha rilevato la nullità del contratto di vitalizio assistenziale laddove sia stato stipulato tra due parti, una delle quali di età avanzatissima.

Proprio tale circostanza ha fatto ritenere ai giudici che non ci fosse incertezza, proprio perchè l’evento morte della persona anziana era pronosticabile a breve termine, per cui sarebbe stato agile quantificare il rapporto tra prestazione e controprestazione, senza correre rischi (Cass. civ. Sez. II Ord., 27/10/2017, n. 25624).

 

 


Vi deve essere, pertanto, incertezza obiettiva iniziale in ordine alla durata di vita del beneficiario e correlativa eguale incertezza circa il rapporto tra il valore complessivo delle prestazioni dovute dall’obbligato ed il valore del cespite patrimoniale ceduto in corrispettivo del vitalizio.


Alcune volte, questo tipo di contratto è utilizzato per perseguire scopi ulteriori, estranei alla ratio legis: ad esempio per nascondere una donazione che, in quanto tale, potrebbe sconvolgere gli equilibri successori alla morte del vitaliziato, pregiudicando i diritti degli eredi legittimari.

Facciamo riferimento ad ipotesi in cui o chi voglia cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale non abbia alcun concreto interesse o bisogno a tale cura, oppure a quelle, più frequenti, in cui vi sia un notevolissimo squilibrio tra il valore dell’immobile (o degli immobili) e quello della controprestazione cui sia tenuto il vitaliziante (Cass. sentenza n. 15904/2016

Altre volte la sproporzione non è così ciclopica, ma sussiste comunque una apprezzabile differenza tra il vantaggio presumibile per colui che cede il bene e quello che, in cambio delle proprie prestazioni assistenziali, lo riceve.

Il vitaliziato cede il proprio bene, ma l’operazione, se commisurata al beneficio ricevuto in cambio, denota un sensibile sbilanciamento, probabilmente dettato da spirito di liberalità del conferente.

In tali ipotesi si parla di contratto “oneroso misto a donazione”, nel quale le parti intendono realizzare, accanto allo scambio di attribuzioni patrimoniali, anche un vantaggio a favore di una di esse.

Col negozio mixtum cum donatione le parti addivengono ad una donazione indiretta valendosi del negozio che esse dichiarano di porre in essere, e che effettivamente stipulano, per ottenere uno scopo che diverge dalla causa o funzione tipica del negozio medesimo.

L’ipotesi implica, sul piano della volontà delle parti, un trasferimento operato a prezzo inferiore a quello effettivo, caratterizzato da animus donandi, cioè fatto con l’intenzione di attribuire gratuitamente tale maggior valore.

In tali ipotesi, sia di donazione simulata che di donazione indiretta o mista, spetterà agli eredi del vitaliziato l’onere di agire dimostrando la differente natura del negozio posto in essere ed il loro correlativo diritto di essere integrati della quota di spettanza.

 

cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza
cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale

 

Si segnala una interessante e recentissima ordinanza della Corte di Cassazione che ci aiuta a fissare il momento temporale a cui fare riferimento per valutare se vi sia manifesta sproporzione tra le prestazioni pattuite tra le parti con il vitalizio assistenziale.

In tale ambito gli ermellini si sono trovati a pronunciarsi circa la doglianza promossa dai ricorrenti in ordine alla bontà della Sentenza di primo e secondo grado che aveva parametrato il valore dei cespiti immobiliari ceduti al momento della morte del vitaliziato e, quindi, all’apertura della successione, senza tener conto che, nel frattempo, erano stati eseguiti ingenti lavori sui beni trasferiti, tali da aumentarne sensibilmente il loro valore.

La Suprema Corte ha stabilito che si debba fare riferimento al momento della stipula del contratto di vitalizio: è lì che si deve verificare tanto l’esistenza del requisito dell’aleatorietà del negozio, quanto una sensibile ed immediatamente appurabile divergenza tra le prestazioni oggetto di scambio.

 

L’ordinanza: Cass. Civ. n. 14270/2019 del 24 maggio 2019

 

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Cedere la proprietà di un immobile in cambio di assistenza personale

Mentire al partner dicendo di essere divorziato è reato di sostituzione di persona

 

Le conseguenze della condotta consistente nel mentire al partner dicendo di essere divorziato.

 


I mariti sono ottimi amanti, soprattutto quando tradiscono le mogli.
Marilyn Monroe

 

 

Partiamo da una premessa: non condividiamo assolutamente il paradigma della meravigliosa Marilyn, ma…


… ma effettivamente un quid pluris rispetto alla media lo doveva pur avere il malcapitato protagonista del caso giudiziario che oggi ci occupa.


Non parliamo di promesse da marinaio, del tipo “vedrai, mollerò mia moglie e poi ci sposeremo”.

No.


Ci riferiamo a dichiarazioni con cui si rassicura il nuovo amante, chiamiamolo partner per bon ton, sul fatto di essere divorziati, di non aver più niente a che fare con la (ex) moglie, che, anzi, si sarebbe proceduto quanto prima a chiedere addirittura la nullità del matrimonio innanzi alla Sacra Rota.


Mettiamoci, pure, che nel frattempo l’asserente (ex) marito abbia avuto anche un figlio dalla nuova compagna e che le abbia promesso nozze a breve termine, legittimando l’inizio dei relativi preparativi.

 

 

Purtroppo, a fronte dell’esitare del compagno, la donna ed i familiari scoprivano, a seguito di accurate indagini, che non solo questi abbia mentito sul fatto di essere divorziato, ma anche che non era nemmeno separato e che, ciliegina, addirittura aspettava un figlio dalla moglie.


Apriti cielo.


Della questione è stata prontamente investita la magistratura che, di primo acchito, procedeva per il reato di tentata bigamia. (art. 556 cp, da uno a cinque anni di reclusione, mica bruscolini )


Instauratosi il processo penale, si addiveniva ad una sentenza di condanna. Non già per il reato contestato, quanto per quello di sostituzione di persona, previsto e punito dall’art. 494 cp  


Decisione appellata e poi oggetto della pronuncia della Corte di Cassazione.


Cosa hanno stabilito gli ermellini?


In primis, rispetto alla doglianza dell’imputato di essere stato tratto a giudizio per un reato e di essere stato condannato per un altro, la Suprema Corte ha sottolineato che i fatti attribuiti al prevenuto siano i medesimi, ma che sia semplicemente e legittimamente stata modificata la qualificazione giuridica, senza ampliarne la portata.


Nel merito è stata confermata pienamente la ricorrenza del reato di sostituzione di persona in luogo di quello di tentata bigamia.

 

mentire al partner dicendo di essere divorziato: è reato di sostituzione di persona


Quest’ultima sarebbe stata configurabile se l’asserito ex marito avesse avuto serie intenzioni di convolare a nuove nozze mentre era ancora legato da vincolo coniugale. Circostanza giammai rientrata nell’orbita della volontà dell’imputato.


In realtà il signore aveva inteso illudere la nuova compagna, millantando una libera condizione in cui non si trovava ed addirittura partecipando a corsi prematrimoniali e preparativi per le nozze alle quali aveva manifestato il proprio pieno consenso, concordandone la data.


Ebbene, l’art. 494 cp punisce la condotta di chi “al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona , o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici”.


Per la Corte di Cassazione “la condizione di uomo libero o sposato o divorziato o non più legato da un matrimonio religioso annullato dalla Sacra Rota rappresenta certamente uno status dell’individuo, a cui, fra l’altro, la legge attribuisce effetti giuridici (senza volere, con ciò, confondere i termini della norma, in quanto, ai fini di integrazione del reato, ha rilevanza l’attribuzione di un falso stato tout court mentre è soltanto in relazione alla falsa qualità che viene richiesto l’ulteriore requisito per cui deve trattarsi di una qualità cui la legge attribuisce effetti giuridici)”.


Maggiore attenzione rivestiva la questione attinente al “vantaggio” che la legge impone come scopo al soggetto che ponga in essere la sostituzione di persona, circostanza negata come sussistente dalla difesa dell’imputato.


La Corte ha disatteso tale contestazione: la nozione di vantaggio implica “un miglioramento che non necessariamente deve essere quantificabile in termini economici ma, in senso lato, deve corrispondere ad un mutamento esistenziale percepito come positivo dall’agente o ad un accrescimento delle opportunità… Non si vede per quale motivo possa essere escluso dalla nozione di vantaggio, in questi termini delineata, l’avere instaurato o comunque mantenuto, per un apprezzabile lasso di tempo, una relazione affettiva e di convivenza. ”, con lo scopo di continuare la relazione sentimentale con la nuova compagna.

 

La Sentenza: Corte di Cassazione Penale n. 34800/2016

 

 

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PIANO CASA VENETO E CREDITI EDILIZI DA RINATURALIZZAZIONE

Piano casa Veneto 2050 e crediti edilizi da rinaturalizzazione.

 

Una delle novità più interessanti del nuovo piano casa sono i crediti edilizi da rinaturalizzazione previsti dall’art.4 della  legge regionale n. 14 del 4 aprile 2019.

A dire la verità, la figura dei crediti non è nuova nell’ambito della normativa edilizia regionale dato che gli stessi sono previsti anche dall’art. 36 della LR 11 del 2004.

Anche se ormai sono passati più di quindici anni dalla sua entrata in vigore, non si è, però, fatto grande applicazione della normativa relativa ai crediti.

Vediamo, ora, se avranno maggiore fortuna con la nuova legge sul piano casa che si prefigge di attuare, anche grazie ai crediti, una sorta di pulizia del territorio, attraverso la demolizione e/o sostituzione del patrimonio edilizio degredato o dismesso.

 

Ma vediamo innanzitutto che cosa si intende “per rinaturalizzazione del suolo.

 

PIANO CASA VENETO E CREDITI EDILIZI DA RINATURALIZZAZIONE
PIANO CASA VENETO E CREDITI EDILIZI DA RINATURALIZZAZIONE

 

 

Secondo l’art. 2 di Veneto 2050, la rinaturalizzazione consiste nell’  intervento di restituzione di un terreno antropizzato alle condizioni naturali o seminaturali … attraverso la demolizione di edifici e superfici che hanno reso un’area impermeabile, ripristinando le naturali condizioni di permeabilità, ed effettuando le eventuali operazioni di bonifica ambientale;

 

Il credito edilizio da rinaturalizzazione, sempre secondo l’art. 2, è “la capacità edificatoria riconosciuta dalla strumentazione urbanistica comunale a seguito della completa demolizione dei manufatti incongrui e della rinaturalizzazione del suolo.

La nuova normativa sui crediti, però, non trova immediata applicazione dato che si rimanda ad una specifica delibera che la Giunta regionale dovrà approvare entro agosto 2019. Tale delibera dovrà prevedere una “specifica disciplina per l’attuazione e le modalità operative da osservarsi per attribuire agli interventi demolitori i crediti, ed in particolare dovrà disciplinare:

  • l’attribuzione , a seguito degli interventi demolitori, dei crediti edilizi da rinaturalizzazione, in relazione alle diverse caratteristiche del manufatto incongruo,
  • l’iscrizione dei crediti edilizi in apposita sezione del Registro Comunale Eletronico dei Crediti edilizi;
  • i criteri operativi che i comuni devono osservare per la cessione dei crediti edilizi da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici comunali

 

 

Una volta emanati i criteri i Comuni avranno 12 mesi di tempo (agosto 2020) per provvedere ad una Variante dello strumento urbanistico finalizzata all’individuazione dei manufatti incongrui da demolire. La Variante dovrà poi essere aggiornata periodicamente ogni anno.

La individuazione dei manufatti incongrui potrà avvenire o per diretta individuazione comunale o attraverso un Avviso Pubblico per la presentazione delle istanze da parte dei privati proprietari.

 

 

 

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Cancellazione o distruzione del testamento operata dal testatore.

Revoca per cancellazione o distruzione del testamento dalla A alla R (ossia la revoca della revoca).

Cambia tre abitudini all’anno e otterrai risultati fenomenali.
(Anonimo)

Cambia tre testamenti ed otterrai un risultato matematico: la lite tra gli eredi.


Quale varrà? Il primo, no il secondo, ma certo il terzo.


Ne avevamo già parlato in questo post: libertà è la parola magica che contraddistingue la condizione del testatore allorquando confeziona l’atto delle sue ultime volontà.


Libero di scegliere come disporre, libero anche di cambiare idea, revocando il primo testamento.


Ci eravamo anche soffermati (post) su come l’ultimo testamento possa – esplicitamente (“revoco ogni mio precedente testamentoart. 680 cc) o implicitamente (tramite disposizioni del tutto incompatibili con quello pregresso) togliere efficacia ad altri d’epoca più risalente.

revoca del testamento


La revoca del testamento può avvenire anche con la distruzione o cancellazione di quanto redatto.


L’art. 684 del codice civile ci dice che “Il testamento olografo distrutto, lacerato o cancellato, in tutto o in parte, si considera in tutto o in parte revocato”.


Tale contegno è stato ritenuto dal nostro legislatore come compatibile con la volontà da parte del de cuius di togliere valore ed efficacia al proprio atto di disposizione.


Questa è la norma, a meno che..


…a meno che a distruggere o a cancellare il documento siano stati terzi soggetti, contro la volontà del disponente.

In tal caso non si potrà rinvenire alcuna revoca, posto che tale determinazione può provenire solo dall’unico soggetto legittimato a disporla ed il contenuto del testamento, se sarà possibile farlo, potrà essere ricostruito tramite eventuale prova testimoniale o producendo un’eventuale fotocopia.

testamento distrutto


Attenzione, sarà il soggetto che vorrà dedurre che vi sia stata una distruzione di un testamento non più esistente a dover dare dimostrazione dapprima dell’ incolpevole perdita del documento, quindi che tale eliminazione non sia stata dovuta alla volontà del testatore, circostanza che si presume sino a prova contraria.


La produzione di una copia del testamento” infatti “giustifica la presunzione che il de cuius lo abbia revocato distruggendo deliberatamente l’originale, con la conseguenza che la parte che voglia avvalersene deve fornire la prova dell’esistenza del documento al momento dell’apertura della successione”.(Cass. civ. Sez. II, 18/05/2015, n. 10171)


Bene.


E se dopo un cambio di rotta operato una prima volta, ossia dopo il confezionamento di un testamento, revocato tramite altro e successivo testamento, ne venisse redatto un altro, un terzo, e questo venisse poi cancellato, con una bella croce, dal testatore stesso, che sorte si avrebbe?

Varrebbero quelli precedenti? Il primo? Il secondo? Oppure si dovrebbe procedere come se mai testamento fosse stato scritto, in quanto alcuno ve ne rimarrebbe che non fosse stato revocato dal testatore?


Si tratta, in buona sostanza, di una “revoca della revoca”.


Ebbene, il nostro legislatore tocca tale frangente con una norma specifica, anche se di limitata portata.


E’ disposto, infatti, che “la revocazione fatta con un testamento posteriore conserva la sua efficacia anche quando questo rimane senza effetto perché l’erede istituito o il legatario è premorto al testatore, o è incapace o indegno, ovvero ha rinunziato all’eredità o al legato” (art 683 cc)


In realtà, l’ipotesi espressamente contemplata dalla legge è dissimile dal caso che ci siamo posti, perchè la norma attiene ad ipotesi per le quali il testamento abbia perso efficacia non già a seguito della mutata volontà del disponente, bensì in conseguenza di circostanze ad egli estranee (es la morte dell’erede designato etc…).


Nel nostro caso il testamento “revocante” è stato cancellato dallo stesso disponente.

testamento cancellato
cancellazione o distruzione del testamento operata dal testatore


E’ possibile applicare analogicamente tale fattispecie a quella di cui ci occupiamo?


No. Nein. Niet.


La nozione di “inefficacia” del testamento successivo contemplata nella rubrica dell’art. 683, sebbene non sia tassativa e possa essere, in genere, estesa anche a ipotesi non previste dalla norma, può però ricorrere solo quando la nuova disposizione attributiva non abbia effetto per ragioni (esterne) attinenti ai soggetti beneficiari della disposizione, e non in situazioni diverse, per le quali è l’artefice stesso delle proprie ultime volontà a privarle d’efficacia.


Sarà utile, allora, concentrarci su un altro articoletto di legge molto interessante, il 681 cc, il quale stabilisce che “la revocazione totale o parziale di un testamento può essere a sua volta revocata sempre con le forme stabilite dall’articolo precedente. In tal caso rivivono le disposizioni revocate”.


E’ possibile revocare la revoca, con resipiscenza di quanto in precedenza reso inefficace, purchè si proceda nelle forme di legge.


Quali sono?


In realtà “l’articolo precedente” a cui fa riferimento la norma appena citata stabilisce che la revoca possa essere operata con un nuovo testamento, o con atto ricevuto da notaio in presenza di due testimoni.


Nel nostro caso nulla di tutto ciò è avvenuto, avendo il testatore semplicemente barrato il testamento che revocava quello precedente.


Siamo lontani dalla soluzione?


Anche no.


Ci viene in soccorso la Corte di Cassazione, che con una recentissima sentenza – regolante, guarda caso, proprio la questione che oggi ci tormenta – ha osservato acutamente che “la distruzione dell’olografo, se operata dal testatore intenzionalmente, elide la riconducibilità dell’atto distrutto al suo autore (ciò che non è se la distruzione non sia stata intenzionale o sia stata posta in essere da terzi). Immaginare la revoca di una “distruzione” con un successivo testamento o con atto ricevuto da notaio in presenza di testimoni, per poi doversi ricostruire aliunde l’atto distrutto, senza direttamente – invece – dettarsi nuove disposizioni, appare una ipotesi di scuola non ragionevolmente avuta presente dal legislatore codicistico; analogamente, immaginare che la distruzione di un testamento revocante lasci in essere la revoca effettuata”.


Parimenti, appare fuori logicaimmaginare che la distruzione di un testamento revocante lasci in essere la revoca effettuata, in quanto la… distruzione, … è priva di forma espressa”.


Più logico è allora ritenere, “che l’art. 681 c.c. imponga la forma espressa per le sole revoche di revoca diverse dalla soppressione o alterazione del documento-olografo”.


In buona sostanza, via libera alla revoca tacita di una revoca effettuata con l’ultimo testamento, con l’effetto di far rivivere l’ultimo testamento non revocato.


Che mal di testa.


Leggetevi tutta la Sentenza (Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 27-04-2018) 21-03-2019, n. 8031) e ne riparliamo.


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distruzione del testamento operata dal testatore

Tempi di frequenza dei figli in caso di separazione: al bando la matematica

Cassazione: no alla rigida suddivisione matematica dei tempi di frequenza dei figli in caso di separazione

È questione di qualità, piuttosto che di quantità”.
Lucio Anneo Seneca

Se ne è parlato molto negli ultimi tempi, quando agli onori delle cronache è balzato un disegno di legge (DDL 775, cd “Pillon”) che proponeva che i tempi di permanenza dei figli presso i genitori dovessero essere di regola (salvo eccezioni) paritetici.


Tale proposta si è arenata, essendo stata ritirata, ma la tematica è comunque di estrema attualità, poiché sono sempre più numerose le richieste di collocamento della prole secondo modalità che contemplino identica frequenza con entrambi i genitori.


A tali istanze hanno talora corrisposto sentenze di apertura da parte di alcuni tribunali di merito, che hanno sottolineato come possa corrispondere agli interessi dei figli godere in eguale misura della presenza di tutte e due le figure genitoriali, laddove, ovviamente, vi siano idonee condizioni, su tutte le reali possibilità di fattiva collaborazione tra genitori nell’ottica di una gestione più condivisa dei figli.

pari tempi di visita del padre


La Cassazione, con una pronuncia piuttosto recente, mette alcuni paletti. (Cassazione Civile, Sez. I, 10 dicembre 2018, n. 31902).


Un conto è, infatti, appurare e tutelare il diritto dei figli ad avere rapporti significativi con entrambi i genitori: quello, salvo casi di inopportunità o controindicazioni, andrà sempre riconosciuto e perseguito.


Altro è imporre, a priori, che tale diritto si debba risolvere in una aritmetica ed aprioristica suddivisione dei tempi di permanenza.


Argomentando in questa maniera si potrebbero conseguire risultati incompatibili con il miglior interesse proprio dei figli minori.


Il principio di bigenitorialità” sancisce la Suprema Corte “si traduce nel diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse, ma ciò non comporta l’applicazione di una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore in quanto l’esercizio del diritto deve essere armonizzato in concreto con le complessive esigenze di vita del figlio e dell’altro genitore”, giacché “in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione”.

tempi di visita dei figli in caso di separazione
tempi di frequenza dei figli in caso di separazione: va perseguito solamente il miglior interesse della prole


La Corte, in buona sostanza, pone l’accento sull’attenta verifica del reale best interest of child che si potrebbe conseguire in seno ad un evento, comunque doloroso, come è la separazione.


Parità di tempistiche statuite a priori cozzano contro la verifica attenta del caso concreto.


L’effettiva tutela dei rapporti tra genitori e figli deve tradursi in una qualità ottimale del rapporto nel tempo in cui è dato loro frequentarsi, piuttosto che nella quantità e durata della frequentazione che, se pedantemente perseguita, potrebbe essere controindicativa rispetto alle esigenze, sacrosante, di sicurezza e stabilità della prole che emergono nella crisi familiare.

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Pagamento retta casa di riposo: no a criteri difformi da ISEE

Pagamento retta casa di riposo: non sono ammessi calcoli di reddito non conformi alle previsioni ISEE.

Un grazie alla collega Avv. Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

È illegittima la scelta dei Comuni di determinare la quota della propria compartecipazione alla retta relativa al ricovero di una persona con disabilità facendo riferimento a parametri economici ulteriori rispetto a quelli che già rientrano nel calcolo dell’Isee.

Questo è quanto ha stabilito il TAR Veneto con la sentenza n. 303/2019.

La fattispecie riguardava una persona con disabilità in condizione di handicap grave ed invalida al 100% che, tramite i servizi socio-sanitari locali, era stata inserita presso una comunità alloggio per poi essere trasferita, a causa dell’aggravarsi della sua condizione e dell’aumento del bisogno assistenziale, in una RSA.

retta casa di riposo

Se inizialmente il Comune aveva disposto l’integrazione parziale della retta, con successivo provvedimento aveva comunicato la chiusura del contributo economico motivando il tutto sulla base dell’assunto che “dal modello ISEE 2018” sarebbero risultati “provvidenze e disponibilità di beni mobili che gli permettono di provvedere autonomamente al pagamento della retta alberghiera per l’ospitalità presso la RSA.

Occorre precisare, infatti, che nel frattempo la persona con disabilità aveva ereditato dal padre la quota di 1/6 del patrimonio mobiliare ed immobiliare motivo per cui il suo ISEE nel 2018 era passato da Euro 1.195,13 ad Euro 11.324,27.

Ai sensi del regolamento comunale impugnato, quindi, dal 1 giugno 2018 veniva disposta la chiusura del contributo in favore dell’utente “essendo questi in grado di provvedervi autonomamente senza pregiudicare la sua permanenza in RSA.”.

Pertanto il Comune, che prima si era accollato parte della retta, viene ad azzerare la propria quota di compartecipazione accollando in toto all’utente il costo della retta di residenzialità.

calcolo isee casa di riposo
pagamento retta casa di riposo: no a criteri avulsi da Isee

Il TAR Veneto, con la sentenza in commento, ha riconosciuto che il Regolamento del Comune sia illegittimo nella parte in cui contiene criteri avulsi dall’ISEE, in contrasto con la normativa in materia ed, in particolare, poichè:

  • conteggia nelle disponibilità economiche del disabile tutti i beni mobili, tra le quali le somme depositate sul conto corrente che, invece, sono già considerate come componente di calcolo dell’ISEE, secondo i parametri stabiliti dal DPCM n. 159/2013;
  • conteggia in toto nelle disponibilità economiche del disabile anche le somme riconosciute a titolo di pensione di invalidità civile e indennità di accompagnamento, che, invece, l’art. 2-sexies del Decreto Legge n. 42/2016 esclude dal calcolo dell’ISEE;
  • determina in maniera del tutto astratta, nella misura di 150 euro mensili l’importo forfettario per quelle che vengono definite “piccole spese personali”, senza riconoscere, invece, la possibilità di considerare anche le spese effettivamente sostenute dalla persona con disabilità

Alla luce di quanto esposto è stata ritenuta ricorrente l’illegittimità del regolamento del Comune (e, quindi, del provvedimento di chiusura del contributo comunale che ne costituisce attuazione) nella parte in cui l’ente, “se pure ha tenuto conto dell’ISEE nella fissazione del tetto per l’accesso alla contribuzione, ha, poi, individuato i criteri per la determinazione dell’entità del contributo comunale (e, quindi, per differenza, della parte di retta che resta a carico del disabile) in maniera del tutto avulsa dall’ISEE, in contrasto con il quadro normativo di riferimento”.

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la GUIDA ALL’INGRESSO IN CASA DI RIPOSO

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Responsabilità medica per mancata diagnosi malattia mortale: quando e quali danni risarcibili?

Responsabilità medica per mancata diagnosi malattia mortale: il punto della Cassazione 2019.


È compito del medico prolungare la vita e non è suo compito prolungare l’atto della morte.”
Barone Thomas Jeeves Horder

Oggi ci occupiamo di verificare l’ipotesi in cui l’evento morte sia non già prolungato ma anticipato da una mancata diagnosi di malattia mortale da parte del sanitario.


Partiamo dal caso concreto, per scendere via via nei dettagli.


Una signora aveva effettuato un’ecografia al seno presso una struttura privata, dalla quale non era emerso alcun dato che potesse destare allarme, o, quanto meno, dall’esame dei noduli che presentava alla mammella non emergeva nessuna evidenza di carcinomi o masse tumorali.


Sulla scorta di tali risultati veniva consigliato alla paziente di effettuari controlli a distanza per monitorare l’evolversi del quadro sanitario.


Scrupolosamente la signora effettuava il controllo suggerito, appoggiandosi tuttavia ad un’altra struttura medica.


In tale sede, le veniva effettuata anche una biopsia, la cui necessità era stata esclusa alla prima visita, dalla quale purtroppo emergeva la natura maligna ed aggressiva della patologia, che la costrinse dapprima alla rimozione della mammella, quindi ad un severo ciclo di chemioterapia: rimedi tutti rivelatisi poi inutili a fronte dello stato avanzato della malattia.


La signora, con le ultime forze che aveva, promuoveva causa nei confronti dei sanitari e della struttura presso la quale aveva effettuato il primo controllo, lamentando che un esame diligente avrebbe diagnosticato tempestivamente il male e le avrebbe dato la possibilità di seguire per tempo la terapia indicata, con l’effetto – se non di evitare – di posticipare in misura consistente l’evento morte.


Nel giudizio si affiancarono i suoi familiari, lamentando anche un danno personale conseguito dall’amara vicenda, concretatosi non solo nella sofferenza per la sorte rimediata alla propria cara, ma anche per tutte le difficoltà scaturenti dalla necessità di dover assistere un malato terminale.


Nel corso del procedimento sortiva la morte della signora.

danni errore medico


La Cassazione, con pronuncia n. 8641/2019, fa il punto sul risarcimento danni da responsabilità medica per mancata diagnosi malattia mortale.


I passi salienti del procedimento.

1 La prova del nesso causale.


Come è possibile determinare che un’azione od omissione sanitaria possano aver determinato l’evento dannoso, nella fattispecie la morte del paziente?


In primis, andrà valutato se l’evento non si sarebbe verificato in assenza della condotta negligente del sanitario.


In secondo luogo, se l’evento non avrebbe avuto luogo in assenza di tale azione od omissione colposa, si dovrà valutarlo alla luce di una cosiddetta causalità adeguata, ossia dando rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ex ante, ossia prima dell’evento dannoso – del tutto inverosimili.


Può verificarsi, infatti, che assieme alla condotta sanitaria oggetto di doglianza, si innestino una serie di fatti sopravvenuti ed autonomi che possano incidere sull’evento dannoso poi verificatosi.


Tali circostanze, se dovessero rivestire le caratteristiche del caso fortuito e fossero idonee a causare da sole l’evento, reciderebbero il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività svolta, producendo effetti liberatori per il sanitario in quanto comportano la degradazione delle cause preesistenti al rango di mere occasioni.


Un concetto difficile?


Aggiungiamo un’ulteriore specificazione.


Mentre in ambito penale, per verificare l’addebitabilità dell’evento dannoso, e quindi del reato, all’azione od omissione del personale sanitario è necessario che la prova del nesso causale sia raggiunta “al di là di ogni ragionevole dubbio”, in sede civile vi è minor rigore, ed è sufficiente “il più probabile che non”, ossia basta che la soglia del 50% di possibilità che il fatto sia addebitabile alla condotta medica sia varcato anche di poco.


Ne consegue, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, che, essendo quest’ultimo tenuto a espletare l’attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso“.


È onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata.

Responsabilità medica per mancata diagnosi malattia mortale

2 La responsabilità per la morte di un paziente già affetto da male incurabile.


Mi fido solo dei medici che sbagliano le diagnosi infauste”, scriveva argutamente Roberto Gervaso.


Può avvenire, tuttavia, che la diagnosi fatale non venga effettuata, ma comunque poco si sarebbe potuto fare.


Che responsabilità vi sarà in questo caso?


La Cassazione ha ribadito che anticipare il decesso di una persona già destinata a morire perchè afflitta da una patologia, costituisce pur sempre una condotta legata da nesso di causalità rispetto all’evento morte, ed obbliga chi l’ha tenuta al risarcimento del danno.

Il nesso di causalità può esistere non solo in relazione al rapporto tra fatto ed evento morte, ma anche tra fatto ed accelerazione dell’evento morte; sicchè per escludere il nesso di causalità, in relazione alla lesione del bene “vita”, è necessario non solo che il fatto non abbia generato l’evento letale, ma anche che non l’abbia minimamente accelerato.


Diversamente si verserà in fattispecie di danno risarcibile, corrispondente – tra gli altri – al minor tempo di vita che si è potuto godere rispetto a quello preventivabile se la malattia fosse stata tempestivamente accertata e tamponata.


Non solo.


Potrebbe sembrare cinico, riduttivo e marginale, ma vivere meno comporta una diminuzione patrimoniale diretta per il paziente ed i propri familiari nell’ipotesi in cui egli avrebbe potuto continuare a lavorare e percepire reddito ancora per un po’ di tempo.

Anche di tale circostanza dovrà tenersi conto.


3 il danno da perdita di chance patito dal soggetto destinatario di omessa diagnosi di malattia terminale.


Ce ne eravamo già occupati in questo post, qui basti accennare al diritto per il soggetto malato di vivere appieno ed integrale consapevolezza la parte finale della propria vita, intraprendendo le scelte ritenute consequenziali alla coscienza dell’imminente fine e, circostanza non trascurabile, accedendo ai servizi ed alle cure volte a tamponare gli effetti dolorosi della malattia (vedi cure palliative).

danno morte parente


4 Quali danni per la perdita di una persona cara? Il danno da perdita parentale.


Quando, ahime, il soggetto direttamente leso dalla condotta negligente del sanitario non possa far valere in giudizio i propri diritti, per la morte intercorsa, potranno agire i parenti più prossimi.


Questi – in quanto eredi – potranno esercitare le medesime pretese risarcitorie vantate dal loro dante causa.


Ma è indubbio che perdere, ingiustamente, una persona cara sia un evento sconvolgente per i parenti più prossimi, i quali saranno anche direttamente danneggiati da tale circostanza, personalmente coinvolti.


Si tratta di un “danno che va al di là del crudo dolore che la morte in sè di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonchè nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” (Cass. civ. Sez. III Ord., n. 9196/2018)


Si parla al riguardo di “danno conseguente alla lesione del rapporto parentale” e deve essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva, indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto che non sia legato da un vincolo di consanguineità naturale.


La liquidazione del danno patito potrà essere “equitativa”, tenendo conto “dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti ed ogni altra circostanza allegata”.

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