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Autore: Studio Legale Berto

Insegnante di sostegno scuola paritaria: l’obbligo è come quella pubblica

Insegnante di sostegno scuola paritaria: non vi deve essere differenza con le garanzie offerte dalla scuola pubblica

Ringraziamo la Collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione civile, con sentenza n. 9966 del 20.04.2017, hanno affermato che, in tema di integrazione scolastica dell’alunno portatore di handicap, la scuola privata paritaria è obbligata a garantire all’alunno con disabilità le medesime prestazioni di sostegno che gli sarebbero assicurate presso la scuola statale, i cui costi sono solo parzialmente coperti dallo Stato a mezzo di contributi all’uopo stanziati.

Costituisce, quindi, discriminazione indiretta, imputabile all’amministrazione statale, l’inottemperanza all’obbligo di erogare le suddette provvidenze che determini una riduzione del servizio educativo ed assistenziale offerto dalla scuola paritaria.

insegnante sostegno scuola privata

Il caso esaminato dalla Corte riguardava un minore affetto da handicap in situazione di gravità che, nel passaggio da una scuola primaria statale ad una scuola privata paritaria, si era visto ridurre le ore di insegnamento scolastico di sostegno previste nel Piano educativo individualizzato (PEI).

Corre onere precisare che il minore aveva frequentato, fino all’anno precedente, la scuola statale primaria di primo grado usufruendo dell’insegnante di sostegno per 22 ore settimanali, di 2 ore di programmazione e di 12 ore con l’educatrice – assistente sociale.

In fase di passaggio alla scuola primaria paritaria parrocchiale, però, nonostante le rassicurazioni ricevute dal dirigente al momento dell’iscrizione, all’alunno erano state riconosciute solo 12 ore settimanali di sostegno, oltre a 3 messe a disposizione dalla scuola e a 12 ore con l’educatrice.

La Legge 10.03.2000, n. 62 “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione”, prevede che le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, debbano accogliere chiunque, accettandone il relativo progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap.

Nel sistema così delineato, la scuola statale e quella paritaria devono garantire i medesimi standard qualitativi: il sostegno scolastico degli alunni con disabilità è presupposto e condizione indefettibile per il riconoscimento, e il mantenimento, della parità della scuola privata “dovendo questa in ogni caso garantire al minore portatore di handicap le medesime condizioni di frequenza e di apprendimento assicurate dalla scuola statale, e quindi il sostegno specializzato nella misura necessaria, secondo quanto stabilito in sede di piano educativo individualizzato”.

insegnante sostegno
Insegnante sostegno scuola paritaria: eventuali limitazioni costituiscono discriminazione indiretta sanzionabile

La Corte ben evidenzia come il PEI obblighi l’amministrazione scolastica a garantire il supporto per il numero di ore programmato “senza lasciare ad essa il potere discrezionale di ridurne l’entità in ragione delle risorse disponibili”.

Pertanto, la condotta dell’amministrazione scolastica che non garantisca il sostegno pianificato “si risolve nella contrazione del diritto del disabile alla pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico, la quale, ove non accompagnata dalla corrispondente riduzione dell’offerta formativa per gli alunni normodotati, concretizza discriminazione indiretta”.

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Insegnante di sostegno scuola paritaria

Perchè è rischioso comprare un immobile donato?

Alcune cose da sapere se si ha intenzione di comprare un immobile donato (e che il mediatore dovrebbe comunicare).

“La generosità significa dare più di quello che puoi, e l’orgoglio sta nel prendere meno di ciò di cui hai bisogno.”
KHALIL GIBRAN

Caro Khalil, il discorso non fa una piega, ma dare di più di quello che si può potrebbe creare delle difficoltà a chi riceve, specie se vi fossero potenziali coeredi.

Andiamo con ordine e partiamo da ciò che già abbiamo discusso più e più volte (link 1, link 2 link 3): la donazione è una sorta di anticipo di eredità.


Chi abbia ricevuto in vita deve poi mettere quanto conseguito nel calderone del patrimonio successorio da considerarsi al fine di valutare se vi siano state lesioni delle quote spettanti ad alcuni eredi, definiti necessari o legittimari.


Se, infatti, a questi ultimi rimarrà meno di quanto la legge abbia stabilito nei loro confronti, essi potranno agire in riduzione, ossia chiedere che i lasciti e le donazioni effettuate in vita dal defunto siano ridotti nella misura tale da reintegrare la quota lesa.

Comprare un immobile donato: le ragioni del cuore debbono considerare quelle della legge


Quando oggetto di donazione sia stato un bene immobile, la riduzione si opererà separando dall’immobile medesimo la parte occorrente per integrare la quota riservata, se ciò potrà avvenire comodamente (art. 560 cc), altrimenti dovrà essere messe interamente a disposizione dei coeredi che abbiano agito in riduzione, i quali potranno soddisfarsi sulla porzione di loro competenza, lasciando il residuo al beneficiario del lascito.


Si afferma al riguardo che l’azione di riduzione abbia effetti reali: non sarà aggredibile tanto il valore dell’immobile donato, ma il bene stesso, che fisicamente entrerà nel computo ereditario e potrà essere spartito (o venduto, con suddivisione del ricavato).

E se il bene oggetto di donazione fosse stato nel frattempo venduto ?


Se, cioè, il beneficiario dell’immobile donato avesse trasferito la proprietà del bene prima dell’esercizio dell’azione di riduzione operata dai coeredi lesi?

L’azione di riduzione ha effetti retroattivi e, seppure con alcune limitazioni, si esplica anche nei confronti dei terzi, siano essi acquirenti della proprietà o acquirenti di diritti reali di godimento o di garanzia.

Stabilisce, infatti, la legge che se i donatari contro i quali è stata pronunziata la riduzione hanno alienato a terzi gli immobili donati … il legittimario, premessa l’escussione dei beni del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti … la restituzione degli immobili. (art. 563 cc)

azione di riduzione
L’azione di riduzione da parte dei legittimari potrebbe mettere a rischio la stabilità dell’affare di chi volesse comprare un immobile donato.


Così l’acquisto del donatario e quello dei suoi aventi causa sono posti in condizione di instabilità per l’intero spazio di tempo che va dal momento della donazione a quello in cui il titolo di acquisto può essere impugnato dall’attore in riduzione.


Il donatario, tuttavia, trascorsi almeno vent’anni dal conseguimento della donazione potrà disporre del proprio diritto senza che i suoi aventi causa abbiano a temere di subire le conseguenze di un eventuale vittorioso esercizio dell’azione di riduzione da parte dei legittimari del donante. In tal caso è per legge preclusa la possibilità di restituzione dell’immobile da parte dei nuovi acquirenti, essendo assogettato alla riduzione il solo donatario, senza il coinvolgimento di terzi soggetti.

Orbene. Tiriamo le fila.


Se chi riceve in donazione un bene immobile potrebbe essere destinatario, in futuro, di un’azione di riduzione da parte di eventuali eredi lesi nella loro quota di legittima e se tale azione potrebbe comportare la retrocessione dell’immobile nell’ambito ereditario, per soddisfare i diritti dei soggetti che abbiano chiesto la riduzione, intaccando anche l’acquisto avvenuto ad opera di terzi medio tempore, allora potrebbero nascere delle grane e, quanto meno, la disponibilità del bene donato potrebbe essere limitata dalle eventualità sopra accennate.


Va aggiunto, circostanza non trascurabile, che il sistema bancario non concede agilmente credito garantito da ipoteca, se l’immobile offerto in garanzia è stato acquistato a titolo gratuito.

Vale a dire che potrebbero emergere gravi problemi di reperibilità di fondi per chi, interessato all’acquisto di un immobile donato, volesse conseguire un mutuo per pagarlo, in quanto la banca, se anche vi iscrivesse ipoteca, sarebbe considerata soccombente rispetto ai diritti di chi agisca in riduzione e vedrebbe volatilizzarsi il bene oggetto della ipoteca a garanzia delle somme erogate.


L’art. 561 cc infatti, stabilisce che gli immobili restituiti in conseguenza della riduzione sono liberi da ogni peso o ipoteca cui il donatario possa averli gravati.


Bisognerà, conseguentemente, essere alquanto fortunati a reperire un istituto di credito che si assuma questo rischio.


Certo, talvolta il possibile quadro ereditario è facilmente ricostruibile al momento della donazione, tanto da lasciare pochi margini di possibilità ad eventuali azioni di riduzione. Pensiamo al donatario figlio unico.


Anche in tali casi, tuttavia, l’insidia astrattamente potrebbe essere possibile e limitare comunque l’appetibilità commerciale del bene.


L’instabilità si verifica anche se il donante al momento dell’atto di disposizione non abbia coniuge, discendenti o ascendenti perchè i legittimari potrebbero sopravvenire in un secondo tempo.

Va ricordato, infatti, che ai fini della riducibilità non è consentita distinzione tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario (Cass. n. 1373/2009): il figlio nato nel matrimonio legittimo ha diritto di calcolare la legittima anche sui beni donati prima della sua nascita, il figlio nato fuori dal matrimonio sui beni donati prima del riconoscimento, il figlio adottivo sui beni donati prima del provvedimento che pronunzia l’adozione, il coniuge sui beni donati prima del matrimonio.
Senza contare l’ipotesi in cui il donante che abbia attribuito il bene al proprio unico figlio, potrebbe ledere i diritti del coniuge, legittimando l’azione di riduzione da parte di costui.


Donazione, pertanto, è una determinazione da valutare attentamente e da considerare alla luce di tutte le possibili insidie che ne potrebbero conseguire.

Il mediatore diligente è tenuto a rendere edotte le parti dei rischi che potrebbero emergere dall’acquisto di un bene donato?


Al quesito ha dato risposta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 965/2019)


Nel caso concreto i promissari acquirenti di un immobile si erano rifiutati di stipulare il contratto definitivo a fronte della scoperta, successiva al preliminare, che il bene fosse stato oggetto di donazione in capo alla parte venditrice.


La banca che avrebbe dovuto erogare il mutuo aveva ritrattato la propria disponibilità, non volendo incorrere in potenziali rischi di riduzione.
Conseguentemente gli attori erano a chiedere il rimborso dell’assegno versato al mediatore a titolo di provvigione per l’affare concluso.


La Corte Suprema ha preso le mosse per la propria decisione da una disposizione di legge, art. 1759 cc., a mente della quale il mediatore deve comunicare alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso.


Ebbene, “In considerazione degli inconvenienti cui dà normalmente luogo la provenienza da donazione deve pertanto affermarsi il principio che la provenienza da donazione costituisce circostanza relativa alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, rientrante nel novero delle circostanze influenti sulla conclusione di esso, che il mediatore deve riferire ex art. 1759 c.c. alle parti”

L’obbligo del mediatore di comunicare, ai sensi dell’art. 1759 c.c., comma 1, alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso, non è limitato alle circostanze conoscendo le quali le parti o taluna di essa non avrebbero dato il consenso a quel contratto, ma si estende anche alle circostanze che avrebbero indotto le parti a concludere quel contratto con diverse condizioni e clausole. Il dovere di imparzialità che incombe sul mediatore è, infatti, violato e da ciò deriva la sua responsabilità – tanto nel caso di omessa comunicazione di circostanze che avrebbero indotto la parte a non concludere l’affare, quanto nel caso in cui la conoscenza di determinate circostanze avrebbero indotto la parte a concludere l’affare a condizioni diverse” (Cass. n. 2277/1984).”.

Conclusione? Siate generosi, ma siatelo con avvedutezza, cercando di considerare le conseguenze della vostra liberalità, mettendo in condizioni chi ne beneficerà di non rischiare, in futuro, di perdere quanto conseguito o di non poterne disporre.

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da parte degli Avvocati Berto

Nuovo piano casa Veneto 2050: le principali novità

Nuovo Piano Casa Veneto: ecco le novità da sapere.

 

Il Consiglio Regionale del Veneto, nella seduta del 27 marzo 2019, ha approvato la ”  legge veneto 2050: politiche per la riqualificazione urbana e la rinaturalizzazione del territorio e modifiche alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11″.

 

Si tratta di una legge che, come si legge nella relazione della Seconda Commissione consigliare che ha preceduto l’approvazione, “da una parte si pone in continuità con la legge regionale n. 14 del 2009 (cd “piano casa”) in quanto mira a sostenere il settore edilizio, dall’altro intende decisamente superarla in coerenza e attuazione della legge regionale per il contenimento del consumo di suolo (legge regionale n. 14 del 2017), implementandone gli aspetti di riqualificazione edilizia, ambientale ed urbanistica”.

In particolare” – si legge sempre nella relazione – la legge mira “a promuovere operazioni di rinaturalizzazione del suolo occupato da manufatti incongrui, mediante la loro demolizione ed il riconoscimento di specifici crediti edilizi da rinaturalizzazione”.

 

nuovo piano casa veneto

 

Le novità più significative.

Oltre alla premialità derivante da rinaturalizzazione, rispetto al “vecchio piano casa” riguardano innanzitutto la percentuale “base” di ampliamento che viene ridotta dal 20% al 15%.

 

Ampliamento, poi, che viene consentito in presenza di due condizioni: che la parte ampliata presenti caratteristiche costruttive che soddisfino la prestazione energetica in classe a 1 e che vengano utilizzate tecnologie che prevedano l’uso di fonti energetiche rinnovabili.

 

Queste condizioni, che nel “vecchio” piano casa consentivano di aumentare la percentuale di ampliamento, ora sono necessarie per avere l’ampliamento “base”.

 

L’ampliamento, inoltre, non può più consistere, come in precedenza, nella realizzazione di un corpo edilizio separato, ma soltanto “in aderenza, in sopraelevazione o utilizzando un corpo edilizio già esistente all’interno dello stesso lotto”.

 

Sia l’edificio che l’ampliamento, infine, devono insistere in zona territoriale omogenea propria (la l.r. 14 prevedeva, invece, che nel caso di ampliamento in aderenza, questo potesse anche trovarsi in zona impropria).

 

Piano Casa Veneto 50
Nuovo piano casa Veneto : ampliamenti nei limiti del 15% e con caratteristiche volte al risparmio energetico e fonti rinnovabili

Una delle problematiche maggiormente dibattute in vigenza del vecchio piano casa concerneva la deroga alle distanze previste dagli strumenti urbanistici.

Ora, Veneto 2050 sembra aver superato la questione nel senso che non consente più la suddetta deroga.

 

L’art. 11 prevede infatti che “gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 possono derogare ai parametri edilizi di superficie, volume ed altezza” (e quindi non distanze) “previsti dai regolamenti e strumenti urbanistici comunali, nonché, in attuazione dell’articolo 2 bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, ai parametri edilizi di altezza, densità e distanze di cui agli articoli 7,8 e 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, purché, in tali ultimi casi, nell’ambito di strumenti urbanistici di tipo attuativo con previsioni planivolumetriche che consentano una valutazione unitaria e complessiva degli interventi”.

 

 

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Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato: facciamo il punto.

Si può cancellare dal cuore il dolore di una perdita?
No. Ma ci si può rallegrare con ciò che si ricava da essa
.”
Paulo Coelho

Oddio, rallegrare è una parola grossa, ma è indubbio che poter contare su un sostegno economico possa aiutare ad attutire la caduta ed a tamponare alcune preoccupazioni che potrebbero conseguire dalla perdita di un proprio caro.


Quando muore una persona, un effetto che immediatamente si determina è il venir meno del sostegno economico che il defunto, con il proprio lavoro o con la propria pensione, apportava ai suoi famigliari.
Per tamponare tale assai pregiudizievole conseguenza, la legge ha disposto l’istituzione della pensione di reversibilità, ossia il trasferimentodel diritto di percepire parte della pensione della persona deceduta ad alcune categorie di soggetti specificamente determinate.


In particolare, il R.D. n. 636/1939 art. 13, stabilisce che.
nel caso di morte del pensionato … spetta una pensione al coniuge e ai figli superstiti che, al momento della morte del pensionato .. non abbiano superato l’età di 18 anni e ai figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi.
Le quote di reversibilità, per quanto qui ci possa interessare, sono:
a) il 60 per cento al coniuge;
b) il 20 per cento a ciascun figlio se ha diritto a pensione anche il coniuge, oppure il 40 per cento se hanno diritto a pensione soltanto i figli.

diritto pensione reversibilità


Si noti: la legge non richiede (a differenza che per i figli di età superiore ai diciotto anni, per i genitori superstiti e per i fratelli e sorelle del defunto, etc), quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno, ma unicamente l’esistenza del rapporto coniugale col coniuge defunto pensionato.


Il diritto pensionistico viene meno se il coniuge superstite o i figli contraessero nuove nozze.

Ci siamo? Bene.

Al coniuge separato spetta qualcosa della pensione del consorte defunto?


La Legge non pone alcuna preclusione al riconoscimento della reversibilità al separato superstite.


Vi erano due sole limitazioni – che la separazione non fosse stata pronunciata per colpa del superstite e che le nozze fossero durate almeno due anni se avvenute dopo che il defunto aveva compiuto 70 – ma sono state spazzate via da pronunce della corte Costituzionale che ne ha pronunciato la illegittimità.


In particolare, non è stato considerato ostativo un eventuale addebito posto a carico del coniuge, poi superstite, in quanto ciò che andava tutelata era la necessità di assicurargli la continuità di quei mezzi di sostentamento, che se fossero sopravvenuti stati di bisogno, il defunto consorte avrebbe dovuto fornire. (C. Cost. 286/1987).


Pensione reversibilità coniuge separato senza assegno di mantenimento.


Sulla scorta di tali identiche motivazioni, la pensione di reversibilità andrà riconosciuta anche al coniuge separato superstite che non fosse beneficiario di alcun assegno di mantenimento a carico del consorte, poi deceduto.


Della questione se ne è occupata recentissimamente la Corte di Cassazione , che ha riformato le pronunce dei gradi precedenti con cui era stato disatteso il diritto di una moglie a vedersi riconosciuta la reversibilità del marito, sul presupposto che non godesse di alcun assegno di mantenimento e che, quindi, non avesse diritto al sussidio, perchè già autosufficiente.


Ebbene, gli ermellini hanno rilevato che se non si debba distinguere, al fine del riconoscimento, il titolo della separazione – con o senza addebito – alla stessa stregua si dovrà ragionare per il coniuge che non abbia alcun diritto economico riconosciuto dalla sentenza separativa.


La ratio della tutela previdenziale è rappresentata dall’intento di porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, “senza che tale stato di bisogno divenga concreto presupposto e condizione della tutela medesima”.

reversibilità divorzio


Pensione reversibilità per il coniuge divorziato.


Qui è un altro paio di maniche, in quanto la legge stessa ha posto alcuni paletti.
Ce ne siamo già occupati in un post specifico, ma riassumiamo .

L’art. 9 della L. 898/1970 stabilisce che “In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza”

Il diritto, pertanto, matura in capo al superstite divorziato se:

  • gli sia stato riconosciuto il diritto all’assegno divorzile;
  • non sia passato a nuove nozze;
  • il contributo pensionistico da devolvere tragga origine da un rapporto di lavoro anteriore alla sentenza di divorzio.

Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato: no se è convolato a nuove nozze

Pensione di reversibilità per il coniuge superstite risposato solo in Chiesa.

Siamo in Italia, e sappiamo che da noi fatta la legge è trovato l’inganno.

Per scampare il pericolo di perdere la reversibilità, è diffusa la consuetudine di risposarsi solamente con rito religioso, senza conseguire gli effetti civili del vincolo e, con essi, le conseguenze inerenti al rapporto matrimoniale riconosciuto dallo Stato.

Si faccia attenzione.

Se si dovesse procedere successivamente alla trascrizione del matrimonio canonico, si rischierebbe di dover restituire gli importi conseguiti nel frattempo a titolo di pensione di reversibilità.

Ai sensi di legge, infatti, “ La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi”.

Bene, da tale disposizione la giurisprudenza ha tratto la retroattività degli effetti civili della trascrizione al momento della celebrazione (religiosa).

Venendo meno, a monte, i presupposti per l’attribuzione della pensione di reversibilità, il coniuge superstite, risposato a tutti gli effetti, dovrà dire un grosso CIAONE agli emolumenti previdenziali nel frattempo conseguiti, con l’obbligo di restituirli nei limiti della prescrizione. (Cass. Civ. n. 9694/2010)

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Pensione di reversibilità coniuge separato o divorziato

Il risarcimento danni per infedeltà coniugale

Risarcimento danni per infedeltà coniugale: si può?

La violenza e il tradimento sono armi a doppio taglio: feriscono più gravemente chi le usa, di chi le soffre.”
EMILY JANE BRONTE

A chi è tradito, tuttavia, non potrebbe bastare questa saggia considerazione. Di qui animate cause di separazione ed annesse richieste di risarcimento danni per infedeltà coniugale.

Sulla possibilità di ottenere l’addebito della separazione in capo al coniuge fedifrago ne avevamo già trattato e, pertanto, rimandiamo a questo link.


Oggi ci soffermiamo a verificare se e quando sia possibile chiedere il risarcimento dei danni.


Partiamo da una considerazione: chi tradisce soffre e la sua sofferenza è difficile da quantificare in termini economici.


Qual è il prezzo del dolore?


Assistiamo – come si dice in termini giuridici – ad un danno che non è patrimoniale, come potrebbe essere, per esempio, un mancato guadagno o una concreta perdita economica.


Il danno subito, in questo caso, attiene alla lesione di interessi inerenti la persona, non connotati di immediata rilevanza economica.


In relazione al danno “non patrimoniale”, la legge (art. 2059 cc ) ne afferma la risarcibilità, ma solo in casi da essa espressamente contemplati, come ad esempio a seguito di un reato ( 185 cp, “Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui“).


Altri casi di risarcimento, anche dei danni non patrimoniali, sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali: ad esempio i danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie (L. n. 117 del 1998, art. 2:), oppure l’ impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali (L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9:); e ancora l’adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi ( D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7:); oppure il mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2:).

risarcimento tradimento coniugale
Risarcimento danni per infedeltà coniugale: non rientra tra le ipotesi espressamente previste dalla legge


Diciamola subito: nei casi determinati dalla legge per il risarcimento di tale danno non rientra l’infedeltà coniugale e, quindi, potremmo troncare subito il discorso, ma…


…ma la giurisprudenza è andata oltre il rigore della legge ed ha affermato che sia consentita la riparazione dei danni non patrimoniali anche in tutti i casi in cui un fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica.


Al di fuori dei casi determinati dalla legge, pertanto, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione: tra di essi, ad esempio, la lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) oppure la violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona, incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (Cass Civ. sent. n. 25157/2008).


Ecco, allora, che potrà entrare in gioco anche l’intercorso tradimento effettuato da un coniuge ai danni dell’altro ai fini del risarcimento danni per infedeltà coniugale, purchè si sia tradotto nella violazione di un diritto di rilevanza costituzionale, come quelli a cui abbiamo appena accennato.


Un caso concreto?


Riportiamo una sentenza recentissima della Corte di Cassazione.


Il marito aveva convenuto in giudizio la moglie, chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale subito a seguito del tradimento che la coniuge aveva perpetrato in costanza di matrimonio e che aveva scoperto solamente dopo la separazione.


Citava, del pari, anche l‘amante e il suo datore di lavoro, che avevano concorso nel danno subito, il primo direttamente, dando luogo alla condotta fedifraga, il secondo reo di non averla impedita, essendosi verificata in occasione e negli ambiti lavorativi.

risarcimento coniuge infedele


La valutazione della Corte Suprema è stata la seguente: la violazione dei doveri discendenti dal matrimonio rileva in primo luogo all’interno del rapporto matrimoniale stesso, tanto che potrebbe legittimare una pronuncia di addebito se fosse stata la causa della crisi.


I doveri che derivano dal matrimonio non costituiscono però in capo a ciascun coniuge e nei confronti dell’altro coniuge automaticamente altrettanti diritti, costituzionalmente protetti, la cui violazione potrebbe aprire le porte al risarcimento del danno, ma la violazione di essi può rilevare qualora ne discenda la violazione di diritti costituzionalmente protetti, che si elevi oltre la soglia della tollerabilità e possa essere in tal modo fonte di danno non patrimoniale.


In buona sostanza: il tradimento, per essere risarcibile, deve ledere diritti costituzionali, le cui relative violazioni andranno accertate e non potranno essere rinvenuti nella sola condotta fedifraga di un coniuge.


Gli ermellini ritengono che “ l’ordinamento non tutela il bene del mantenimento della integrità della vita familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sè possa essere fonte di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi con la sua volontà contraria o comunque con il suo comportamento ponga fine o dia causa alla fine di tale legame. L’ammissione di una tale affermazione incondizionata di responsabilità potrebbe andare a confliggere con altri diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970”, con la legge sul divorzio.


Il dovere di fedeltà non trova il suo corrispondente, quindi, in un diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto, piuttosto la sua violazione è sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio alla salute.


Circostanze, queste, non rinvenute nel caso di specie, in cui è stato sottolineato che il coniuge tradito avesse scoperto l’intrigo solo mesi dopo la separazione, senza, quindi, ne fosse sorto scandalo, o si fosse creato un apprezzabile pregiudizio alla sua dignità personale.


L’amante potrebbe essere chiamato a risarcire il danno per aver dato luogo al tradimento?


Su di esso non incombono obblighi di fedeltà coniugale, che sorgono solo tra gli sposi col matrimonio.


Tuttavia, i giudici hanno affermato non possa escludersi, in astratto, una responsabilità risarcitoria a suo carico se l’amante stesso, con il proprio comportamento e avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la relazione extraconiugale, abbia leso i diritti inviolabili e costituzionalmente garantiti del coniuge tradito, quali ad esempio la salute, la dignità e l’onore.


Fattispecie, queste, non rinvenute nel caso sottoposto al giudizio della Cassazione, tanto più che non erano state addossate nemmeno al coniuge fedifrago.


Sulla responsabilità del datore di lavoro, per non aver contenuto e vigilato sulle condotte dei propri dipendenti, evitando che si intrecciassero relazioni compromettenti, lesive dei diritti alla fedeltà coniugale.

La Corte ha negato vi possa essere alcun obbligo di sorveglianza in capo al datore di lavoro in tale ambito, anzi. La sua “ingerenza nelle scelte di vita personali dei dipendenti integrerebbe di per sé, al contrario, la violazione di altri diritti costituzionalmente protetti, quali il diritto alla privacy nel luogo di lavoro”.

La Sentenza: Cassazione Civile n. 6598/2019

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risarcimento danni per infedeltà coniugale

Ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche: via libera se non pregiudica l’utilizzabilità degli spazi comuni

L’ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche può creare disagio e minor godimento degli spazi comuni, ma se non ne impedisce la loro utilizzabilità è legittima la sua installazione.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art 2 Costituzione.

Alziamoci in piedi alla parola della Costituzione.

Solidarietà: i padri costituenti hanno imposto a tutti i cittadini un sentimento, la solidarietà, volto a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.


“Roba che se non ci vogliamo bene ci danno una multa”, come salacemente arguiva il noto attore, Roberto Benigni.


Solidarietà, pertanto, risiede anche nell’eliminare le barriere architettoniche che pregiudicano l’inclusione della persona con disabilità.


Il problema è che tale obbligo, in contesti talvolta ristretti e animati come quelli condominiali, dove i diritti dei singoli e quelli comuni di tutti possono, se non collidere, trovare difficile composizione, anima, eccome, i consessi assembleari per scaturire – come se fossero la naturale destinazione – in ingarbugliati meandri giudiziari.

Ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche: dal diritto all’inclusione al pieno godimento degli altri condomini


Facciamo il punto della situazione? Proviamoci.


La partenza è variegata, come le circostanze che contraddistinguono ogni persona non autosufficiente: la vecchiaia debilitante, una malattia risalente, un infortunio paralizzante possono rendere angusto ed inaccessibile lo stesso ambiente dove risieda chi – suo malgrado – si trovi a far fronte ad una disabilità.


Specie se – tra l’androne di ingresso e l’appartamento di abitazione vi siano svariate rampe di scale.
In questo caso, spostarsi, accedere e recedere da casa può risultare impeditivo.


Un aiuto, concreto, può essere l’installazione di un ascensore.


Qui, tuttavia, entrano in gioco diversi fattori da prendere in considerazione: il decoro architettonico dell’edificio, la minorata ampiezza dei pianerottoli interessati dall’innovazione e delle scale coinvolte dall’opera, l’illuminazione deteriorata, il godimento degli spazi compresso, la riluttanza dei condomini a farsi carico di spese per loro non immediatamente necessarie ed indispensabili.


Cosa dice la legge.


Entrano in ballo molteplici discipline normative, codice civile e leggi ad hoc.
In primis, l’art. 1120 cc, a mente del quale “I condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell’articolo 1136 – maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio – possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto….le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche”.


Quindi, se l’installazione di un ascensore venisse approvata con voti che rappresentino più della metà dei millesimi di proprietà, nessun problema, purchè venga rispettata la norma di chiusura posta dal codice civile: sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.


E se non ci fosse la maggioranza? Oppure se nemmeno venisse dato ascolto alla richiesta del condomino che, trovandosi in condizioni di disabilità, faccia richiesta di installare il salvifico ascensore?


Vi è una normativa specifica, la Legge n. 13/1989, “Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, volta a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata.


E’ stabilito che “nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni – volte ad attuare le innovazioni negli dirette ad eliminare le barriere architettoniche – i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages”.

condominio persone con handicap


In buona sostanza, la persona con disabilità potrà procedere comunque all’esecuzione dell’opera richiesta, con spese a proprio integrale carico, fatta salva la possibilità per gli altri condomini di poterla utilizzare in futuro, purchè rimborsino quota parte delle spese di realizzazione e manutenzione dell’ascensore.


Pare si sia trovata la “quadra” e che problemi non possano sussistere a fronte della chiarezza della legge.


Non è così.


Le facoltà riconosciute alla persona con disabilità debbono comunque preservare alcune indicazioni dettate dal codice civile.
In particolare quelle stabilite dal già menzionato art. 1120 cc., che vieta le innovazioni lesive del decoro architettonico e comunque quelle che rendano parti dell’edificio inservibili all’uso o al godimento da parte degli altri condomini.


Inoltre, va richiamato un altro principio generale, vigente in materia di comunione: ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (1102 cc)


E’ incontestabile che, talora, l’installazione dell’ascensore possa comportare un’invasione di consistenti aree di proprietà condominiale e che, conseguentemente, possa limitare il pieno e pregresso utilizzo delle stesse da parte degli altri compartecipanti.


Ebbene, sul punto è intervenuta pochi giorni fa una sentenza della Corte di Cassazione che aiuta a fare chiarezza.


Il limite fissato dall’art. 1120 c.c. non si indentifica nel semplice disagio ovvero nel minor godimento che l’innovazione procuri al singolo condomino rispetto a quella goduta in precedenza, ma con l‘inutilizzabilità del bene secondo la sua normale destinazione.


L’installazione dell’ascensore nel vano scale che comporti la limitazione, per alcuni condomini, della originaria possibilità di utilizzazione delle scale e dell’andito occupati dall’impianto non rende l’innovazione lesiva del divieto richiamato dall’art. 1120 cc, anche se, se a fronte della minore utilizzabilità delle parti comuni, gli altri comproprietari non abbiano ricevuto alcun vantaggio compensativo. La sola riduzione dei gradini o l’occupazione dello spazio comune, disgiunta dall’accertamento dell’impossibilità di servirsi delle scale o dello spazio condominiale, o dal concreto apprezzamento della riduzione di luminosità alla porzione esclusiva, non consentono di ritenere l’opera in contrasto con il limite imposto dalla legge.

La sentenza: Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 29-11-2018) 12-03-2019, n. 7028

Per una consulenza da parte degli avvocati Berto in materia di

Ascensore condominiale per eliminare barriere architettoniche

Erede legittimo escluso dal testamento: la lezione della Corte di Cassazione

Quali sono i rimedi accordati dalla legge all’erede legittimo escluso dal testamento?

Orationis summa virtus est perspicuitas – La più grande virtù del discorso è la chiarezza
(Quintiliano)

Chiarezza!


Virtù meravigliosa in ogni ambito, da perseguire, purtroppo molte volte dispersa nel nostro mondo giuridico, dove ad essa talora fa da contraltare la supercazzola, leggasi un coacervo di argomentazioni più o meno sensate e tra di loro confliggenti, volte a creare disorientamento con la falsa apparenza di dare risposte precise a questioni in realtà semplicissime.


Detto questo, possiamo dirlo? Ecco una sentenza che fa bene, perchè è chiara, papale, quasi scolastica nel prendere per mano il lettore, istruirlo ed accompagnarlo, consapevole, alla statuizione contenuta nel dispositivo.


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 22-10-2015) 04-12-2015, n. 24755 : ecco il provvedimento.


Una decisione molto utile per soffermarci sul caso che oggi ci riguarda, quello dell’erede legittimo escluso dal testamento.


Ci sarà sufficiente prendere gli incisi più significativi della Sentenza, paragrafarli, leggerli attentamente e ….taaccc saremo tutti esperti in materia.

Il caso.


Un padre aveva disposto con testamento delle sue sostanze, attribuendo tutti i suoi beni ai discendenti maschi, lasciando le figlie a bocca asciutta, senza alcuna attribuzione patrimoniale.


Quest’ultime impugnavano la disposizione testamentaria, agendo in riduzione, chiedendo cioè l’accertamento della loro qualifica di eredi necessarie e conseguentemente la liquidazione della loro quota di spettanza, riservata loro dalla legge, riducendo quelle dei fratelli .


Il Tribunale prima, la Corte d’Appello poi, accoglievano la loro istanza, ma anziché attribuire loro una quota dei beni caduti in successione, disponeva in loro favore solamente l’equivalente corrispettivo pecuniario.

calcolo quota di legittima


La Corte di Cassazione, con la pronuncia indicata, riforma parzialmente le sentenze dei gradi precedenti, procedendo con un excursus giuridico tutto da gustare.

  • A tutela dell’interesse generale alla solidarietà familiare, l’ordinamento giuridico prevede – con disposizioni che hanno carattere inderogabile – che i più stretti congiunti del de cuius hanno il diritto di ottenere, anche contro la volontà del defunto e in contrasto con gli atti di disposizioni dallo stesso posti in essere, una quota di valore del patrimonio ereditario e dei beni donati in vita dal defunto stesso (c.d. diritto di legittima o di riserva). La legge configura così una “successione necessaria“, in forza della quale le disposizione del defunto lesive della “quota di legittima”, pur non essendo invalide (nulle o annullabili), sono tuttavia soggette a riduzione, sono cioè suscettibili – su domanda del legittimario leso (c.d. azione di riduzione) – di essere private della loro efficacia giuridica nella misura necessaria e sufficiente a reintegrare il diritto del legittimario.
  • Con l’azione di riduzione (art. 557 cod. civ.) … il legittimario, leso nel suo diritto di legittima dalle disposizioni testamentarie o dagli atti di donazione posti in essere dal de cuius, può ottenere la pronuncia di inefficacia, nei suoi confronti, delle disposizioni del defunto lesive della sua quota di riserva.
  • Il legittimario,… a seguito dell’esercizio dell’azione di riduzione, acquista la qualità di erede, conseguendo perciò una quota dell’eredità, la cui misura muta – secondo le previsioni di legge – a seconda del numero dei legittimari e della vicinanza del loro legame familiare col defunto.
  •  l’azione di riduzione è irrinunciabile finchè la successione non è ancora aperta, – altrimenti si incorrerebbe in ipotesi di patti successori, nulli per legge – l’azione di riduzione è invece rinunciabile dal legittimario dopo l’apertura della successione
  • La legge non riserva ai legittimari tutta l’eredità, ma riserva loro solo una quota o frazione di essa (c.d. quota non disponibile o di riserva), consentendo che la restante parte (c.d. quota disponibile) possa mantenere la destinazione voluta dal de cuius.
  • la quota disponibile da parte del de cuius e, specularmente, la quota di riserva spettante al legittimario vanno calcolate (art. 556 cod. civ.) procedendo, anzitutto, alla formazione della massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della sua morte (c.d.relictum) e alla determinazione del loro valore con riferimento al momento dell’apertura della successione; indi detraendo dal relictum i debiti del defunto, da valutare con riferimento alla stessa data, in modo da ottenere il c.d. attivo netto; provvedendo successivamente alla c.d. riunione fittizia, ad una riunione cioè meramente contabile, tra attivo netto e i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione (c.d. donatum), dovendosi a tal fine stimare i beni immobili e mobili donati secondo il valore che avevano al tempo dell’apertura della successione (artt. 747 e 750 cod. civ.) e il denaro donato secondo il suo valore nominale (art. 751 cod. civ.);calcolando poi la quota disponibile e la quota indisponibile sulla massa risultante dalla somma tra il valore del relictum al netto ed il valore del donatum; imputando, infine, le liberalità fatte al legittimario , con conseguente diminuzione, in concreto, della quota ad esso spettante .
  •  la reintegrazione della quota di legittima, conseguente l’esercizio dell’azione di riduzione, deve essere effettuata con beni in natura … senza che si possa procedere alla imputazione del valore dei beni, ossia liquidando il corrispettivo pecuniario.
  • In buona sostanza, il legittimario, ha diritto di ricevere la sua quota di eredità in natura e non può essere obbligato a ricevere la reintegrazione della sua quota in denaro.

divisione ereditaria
Erede legittimo escluso dal testamento: diritto ad una porzione dei beni caduti in successione

E’ chiaro? Le sorelle non dovevano essere liquidate con i soldi corrispondenti al valore della loro quota, ma in quanto eredi di una quota, con una porzione dei beni – mobili o immobili – caduti in successione, a meno che non fosse concordata con gli altri coeredi una differente modalità di liquidazione.

Alzi la mano chi non ha capito?

Beh, in tal caso, chiamate al numero dello studio Berto ed un chiarimento vi verrà senz’altro offerto.

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Erede legittimo escluso dal testamento

Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione?

Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione? Il punto della giurisprudenza.

Gli Italiani sono famosi nel mondo per due cose: il Diritto romano e il diritto d’infischiarsene.
(Stellario Panarello)

L’istituto dell’usucapione è figlio di entrambi i sopracitati paradigmi.


Il diritto romano, infatti, ha fatto derivare dal sostanziale disinteresse del proprietario di un bene la possibilità di considerare in tutto e per tutto titolare dello stesso chi lo abbia posseduto ed utilizzato come proprio per un periodo di tempo consistente.


Del tema ce ne siamo già occupati (link 1, link 2, link 3).


Basti, per ora, ricordare che l’usucapione è un modo di acquisto della proprietà o di altri diritti reali tramite il possesso
continuato,
pubblico (non clandestino),
pacifico (non violento),
ininterrotto
per un periodo di tempo che – salvo alcuni casi particolari – per i beni immobili deve protrarsi per 20 anni.

usucapione terreno per coltivazione


Bene, oggi ci occupiamo di valutare se il semplice fatto di coltivare un fondo altrui può comportare l’usucapione, da parte di un soggetto che non sia il proprietario – ed in assenza di un rapporto giuridico che a monte costituisca titolo per detta attività.


Partiamo da una premessa.


Solo la sussistenza di un corpus, accompagnata dall’animus possidendi, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, che si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell’usucapione, raffigura il fatto cui la legge riconduce l’acquisto del diritto di proprietà.


Spieghiamo.


Chi agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi imposti per tale istituto e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, – ossia la materiale disposizione del bene oggetto del preteso diritto e l’esercizio di un’attività corrispondente a quella del proprietario – ma anche dell’animus, ossia dell’intenzione di tenere la cosa come se ne fosse titolari.


La Giurisprudenza, tuttavia, ha precisato che tale “animus” può eventualmente essere desunto in via presuntiva dalla stesso esercizio di attività corrispondente al diritto di proprietà se detta circostanza sia già di per sè indicativa dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria.


Sarà, allora, il convenuto a dover dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene sia stata conseguita dall’attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale.

coltivazione terreno usucapione
Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione? Corpus ed animus.


La coltivazione del terreno, con la messa a dimora di piante configura una attività, specifica ed importante, senza dubbio corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà; coltivare il terreno, infatti, significa disporre materialmente di esso. Se la coltivazione configura un comportamento pubblico, pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul fondo un potere di fatto corrispondente a quello del proprietario.


La coltivazione del terreno, con la messa a dimora di piante configura una attività, specifica ed importante, senza dubbio corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà; coltivare il terreno, infatti, significa disporre materialmente di esso. Se la coltivazione configura un comportamento pubblico, pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul fondo un potere di fatto corrispondente a quello del proprietario.


Ovviamente, a monte, l’acquisizione del possesso del terreno non deve essere avvenuta per un mero atto di tolleranza o di cortesia da parte dell’effettivo titolare.


La circostanza è dirimente, in quanto in tal caso la legge qualifica diversamente la disposizione del fondo da parte del soggetto che ne invochi l’usucapione: di detenzione si tratterà, (caratterizzata dall’assenza del cd animus, in quanto vi è la consapevolezza di non agire come proprietari), non già di possesso.


E poiché è il possesso che fonda l’acquisto per usucapione, sarà eventualmente necessario, per il preteso usucapiente, dimostrare l’interversione del possesso, art. 1141 cc, ossia che siano intervenuti atti esterni dai quali possa desumersi la modificata relazione di fatto con la cosa detenuta, vuoi per cause provenienti da un terzo, vuoi in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore (per esempio giudizialmente o extragiudizialmente, tramite una semplice dichiarazione di volontà, purchè dai caratteri inequivoci).


Il detentore deve, cioè, esercitare dei comportamenti contro il possessore volti a palesare esteriormente l’intenzione di sostituire la preesistente situazione detentiva con una nuova, in cui vanti per sé il diritto esercitato (ad esempio sostituendo le chiavi dell’ingresso al fondo, senza darne copia ai proprietari).


Da allora potranno decorrere i termini per l’acquisto ad usucapionem.


Per concludere, la coltivazione del fondo per il tempo richiesto dalla legge può costituire titolo d’usucapione, purchè si tratti dell’esercizio di un possesso con i caratteri richiesti dalla legge, non basato su alcun titolo che lo connoti come detenzione e, se acquisito per cortesia, ospitalità, tolleranza, siano intervenute circostanze idonee a modificare l’originario titolo.

Due sentenze interessanti: Cassazione civile, sez. II, sentenza 26/04/2011 n° 9325 Cassazione civile, sez. II, ordinanza 25 febbraio 2019, n. 5404

Per una consulenza da parte degli Avvocati Berto in materia di

Coltivare un terreno altrui può comportare l’usucapione?

Determinazione assegno divorzile: torna in auge il tenore di vita goduto in costanza del matrimonio?

Determinazione assegno divorzile: conta il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio? No, sì, forse.

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» 
Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Appassionante.


Il diritto è appassionante. E’ scendere nella concretezza delle situazioni, applicarci il principio giuridico, calarlo in medias res…e saper rivedere e rimodulare antiche interpretazioni, financo abbracciarne talune appena soppiantate.


A cosa mi riferisco?


All’assegno divorzile.


Come è noto, fino al 2017 vigeva l’indiscusso ed inscalfibile orientamento della Suprema Corte, abbracciato già dal lontano 1990, che stabiliva il criterio interpretativo della disposizione di cui all’art. 5 L. 898/1970con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

assegno divorzio
Determinazione assegno divorzile


Il principio statuito dalla Cassazione era volto ad attribuire l’assegno divorzile al coniuge che non avesse mezzi adeguati volti a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza che fosse necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto, ma “rilevando l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle condizioni economiche del medesimo che, in via di massima, devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo equilibrio”. (Cass. civ. Sez. Unite, 29/11/1990, n. 11492)

Tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, quindi.


2017, si diceva, l’anno della svolta.


E’ intervenuta una sentenza degli ermellini che in buona sostanza ha sovvertito l’orientamento precedente, sottolineando il principio dell’ “autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali “persone singole“, non più sposate, senza prendersi a riferimento parametri attinenti ad una dimensione sociale ed affettiva, il matrimonio, che non c’è più e giungendo, pertanto, a riconoscere e calibrare l’assegno divorzile sulla base dell’autosufficienza economica del coniuge, senza riferimenti al tenore di vita precedente.
Cassazione 11504/2017


Cassazione 2017 assegno divorzio

Bomba atomica.


Con sostenitori ed oppositori della nuova tesi propugnata.
Chi rivendicava come fossero finiti i tempi della speculazione economica di un coniuge a carico dell’altro (“il matrimonio non deve far conseguire un vitalizio, diciamola tutta, per la ex moglie a carico del marito bancomat”), chi – a parere (sommesso) di chi scrive a ragione – sottolineava come da una siffatta prospettazione poteva derivare che un coniuge, quello che per una vita si era sacrificato a seguire casa e figli, ne sarebbe uscito con le ossa rotte.

2018. Determinazione assegno divorzile. Altro cambio di rotta.


La Cassazione rivede e rimodula la pronuncia di pochi mesi antecedente e – a Sezioni Unite – statuisce che nella verifica e quantificazione dell’assegno divorzile si debba tener conto del carattere compensativo, perequativo e assistenziale di tale compendio economico.
Assistenziale, in cui bisogna valutare se il coniuge richiedente abbia mezzi adeguati e sia in grado di conseguirli.
Compensativo e perequativo, volto a rimediare ad uno squilibrio nascente dal sacrificio che il coniuge richiedente possa aver sostenuto per le esigenze familiari a discapito della propria capacità reddituale.


Bene, felici? Tutto a posto?


Pare di sì, anzi no.

Perchè debbono ancora essere precisati con dovizia i criteri per quantificare l’assegno divorzile, al di là dell’identificazione dei titoli da cui trae origine.

Cassazione 2018 assegno divorzile


Ci ha pensato una freschissima sentenza della Corte di Cassazione a tentare di calibrare la questione entro termini precisi. Ma il risultato che ne è sortito è stato un ritorno al passato.


La questione: gli ermellini hanno esaminato la legittimità della pronuncia della Corte d’appello di Catania con cui – in sintesi – nella determinazione dell’assegno divorzile si era tenuto conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio dal coniuge a cui era stato attribuito.


Una decisione impeccabile, a parere della Cassazione.


Ecco il motivo.


la Corte etnea, pur non facendo mistero di orientare l’asse del proprio deliberato sul criterio del tenore di vita goduto …in costanza di matrimonio, ha tuttavia proceduto in questa direzione seguendo un percorso argomentativo che guarda con prudenza al criterio del tenore di vita e volutamente ne evita ogni forzatura, … annotando che “esso concorre e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati” dall’art. 5 L 898 /1970. “Ancorchè lo scenario ideale del suo ragionamento non sia più attuale, nondimeno il giudizio che essa declina nel caso concreto anche alla luce della durata non breve del vincolo matrimoniale … – si mostra in singolare sintonia con la “natura composita” che le SS.UU. hanno inteso rivendicare quale prius qualificante al parametro sulla base del quale procedere al riconoscimento del diritto. Ed anzi, laddove opera la diretta saldatura, nell’accertamento del diritto …, del criterio dell’adeguatezza agli altri indicatori enunciati dalla norma, ne ricalca, sia pur se inconsapevolmente, le linee, assecondando una chiave di lettura dell’istituto non incoerente con quella delle SS.UU. e perciò non suscettibile della pretesa cassazione”.


Pare di capire, lasciando spazio a chi voglia contraddirci, che la valutazione per la determinazione dell’assegno divorzile riposi sul criterio assistenziale, compensativo, perequativo dianzi indicato:il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio può essere parametro di riferimento, calibrato ai criteri appena accennati.


Un po’ come avveniva in precedenza?

Si, no, forse.

La sentenza: Cassazione Civile n. 4523/2019.

Avvocato separazione Vicenza

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Determinazione assegno divorzile