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Autore: Studio Legale Berto

Controversie tra genitori separati e inadempienze o violazioni delle condizioni di affidamento dei figli

 

 

Controversie tra genitori separati e inadempienze o violazioni delle condizioni di affidamento dei figli

 

I miei genitori hanno avuto una sola discussione in quarantacinque anni. È durata quarantatré anni.
(Cathy Ladman)

 

Le discussioni, diciamolo, sono all’ordine del giorno (di ogni giorno?) in ogni benedetto matrimonio.

Figuriamoci se non ci possano essere durante la crisi del rapporto matrimoniale o dopo il suo epilogo.

Le decisioni intorno ai figli possono costituire terreno fertile non solo per costruttivi scambi di opinioni, ma anche per epiche battaglie, dettate, talora, da disincantata buona fede, talaltra dal più pervicace puntiglio e ottusa rappresaglia.

Dopo percorsi più o meno aspri nelle aule di tribunale, i genitori si sono separati, convenendo sulle condizioni di affidamento della prole, o subendo le disposizioni dettate dal giudice per dirimere contrasti non risolti.

Oggi partiamo da qui: da una separazione o un divorzio pronunciati, oppure dall’esito di una causa attinente l’affidamento di figli di coppie non sposate.

Da una pronuncia, insomma, da statuizioni attinenti ai figli che facciano stato tra le parti.

 

conflitto genitori separati

 

Quale rimedio nel caso in cui sorgano controversie tra genitori separati e inadempienze o violazioni delle condizioni di affidamento dei figli?

Il nostro legislatore ha disposto una norma ad hoc: l’art. 709 ter cpc.  “Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore. A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni.”.

Innanzitutto, il codice si sofferma a disciplinare come possano essere risolte questioni insorte tra genitori sull’esercizio della potestà o sulle modalità di affidamento della prole.

Lo avevamo evidenziato, post,  quando ci eravamo soffermati ad analizzare l’istituto dell’affidamento condiviso: la responsabilita’ genitoriale e’ esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacita’, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice puo’ stabilire che i genitori esercitino la responsabilita’ genitoriale separatamente. Art. 337 ter cc.

Autonomia dei genitori per quanto riguarda le questioni routinarie, per cui essi potranno decidere anche disgiuntamente.

Per quanto attiene le scelte davvero importanti per la prole dovrà esserci l’accordo tra padre e madre.

Ci riferiamo alle scelte che riguardano, ad esempio, l’istruzione (a quale scuola iscrivere il figlio? Pubblica o privata? Presso quale istituto? In quale sede? Con quale orario?), l’educazione (quale religione dovrà praticare? Lo iscriviamo a catechismo? Ma anche, quale dieta fargli seguire? Onnivora, vegetariana, vegana (vedi post  apposito)? Quali compagnie fargli frequentare? Quali sport? Quali viaggi? Il telefonino?), la salute (quale medico di base scegliere? Quale tipo di medicina seguire, omeopatica o tradizionale? Presso quale clinica effettuare un eventuale intervento chirurgico? Acconsentire o negare il consenso ad eventuali trattamenti sanitari? Se dovesse avere dei problemi personali, gli facciamo frequentare uno psicologo? E se sì, quale? E dei tatuaggi, vogliamo parlarne?).

 

provvedimenti opportuni controversie genitori
Controversie tra genitori separati e inadempienze o violazioni delle condizioni di affidamento dei figli

Rispetto a tutte queste eventualità, ma tante altre ce ne sarebbero da menzionare, non potrà essere dato che che un genitore sia messo spalle al muro a dover prendere mero atto che l’altro abbia deciso anche per lui, al posto suo, o nonostante il suo parere contrario.

Tali controversie dovranno essere decise dal giudice, il quale, dopo che i coniugi saranno comparsi davanti a lui, prenderà i provvedimenti opportuni.

Il tribunale dovrà sciogliere il conflitto, si noti, privilegiando la posizione dell’un genitore rispetto all’altro, ma senza effettuare invasioni di campo, individuando ulteriori accorgimenti o soluzioni rispetto a quelle valutate e proposte dai coniugi confliggenti. Ciò nel rispetto al diritto all’autonomia della famiglia che la Costituzione espressamente sancisce all’art. 29  (Società naturale).

Per quanto attiene le questioni che vertano sulle “modalità dell’affidamento”, normalmente si discute sulla misura e ripartizione delle spese straordinarie, oppure sulla difficoltà di visita dei figli da parte del genitore non collocatario, vuoi per gli ostacoli frapposti dall’altro coniuge, vuoi per il rifiuto all’incontro rammostrato dai figli stessi.

Si badi: il giudice non sarà chiamato a pronunciare nuove condizioni di affidamento, ma semplicemente ad interpretare quelle già istituite, o a calarle nel caso concreto  che gli viene prospettato dalle parti.

Le controversie tra genitori separati possono riguardare anche inadempienze o violazioni delle condizioni di affidamento dei figli da parte di uno di essi.

Anche in questo caso ci soccorre l’art. 709 ter cpc, già esaminato nella sua prima parte, che continua statuendo “in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:
1) ammonire il genitore inadempiente;
2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.”

A fronte di gravi inadempienze o violazioni il Giudice ha due rimedi, tra di loro alternativi, ma anche passibili di utilizzo congiunto: la modifica delle condizioni di affidamento e le sanzioni.

Lo scopo è quello di garantire l’attuazione e l’osservanza delle statuizioni già disposte con precedente pronuncia, ma anche il diritto del minore alla bigenitorialità ed alla crescita serena, altrimenti compromesse da comportamenti incongruenti e pregiudizievoli.

Tra le gravi inadempienze, sono spesso ricorrenti l’omesso versamento degli assegni statuiti a titolo di contributo al mantenimento dei figli, la loro unilaterale riduzione, la mancata corresponsione del rimborso spese straordinarie e, più in generale, l’inosservanza delle statuizioni di carattere economico e patrimoniale concernenti la prole, rispetto alle quali, si ricorda, vi è anche una sanzione di carattere penale (post) .

 

genitore cambia residenza

 

Non vanno tralasciate le questioni attinenti il mancato rispetto delle condizioni riguardanti i tempi di visita e frequenza dei figli, vuoi da parte del genitore non collocatario, che se ne disinteressa, in tal caso incorrendo anche nella sanzione penale disciplinata dall’art. 388 cp per la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, vuoi per il comportamento ostruzionistico, se non alienante, del genitore collocatario, volto ad incutere nei figli disistima e spregio dell’opposta figura genitoriale, conseguendone il rifiuto di frequentarla.

Un’altra fattispecie di violazione consiste anche nella scelta unilaterale di un coniuge di trasferirsi altrove, portando con sé i figli, magari in altra città, regione o stato, (post )e privando così la prole della possibilità di frequentare l’altro genitore e quest’ultimo, oltre che degli affetti, della concreta facoltà di esercitare la responsabilità genitoriale.

A fronte di tutta questa serie di circostanze, riportate a titolo meramente esemplificativo e non certo esaustivo, il giudice potrà modificare i provvedimenti già pronunciati circa i figli, a titolo non già sanzionatorio, quanto volto a tutelare il preminente interesse di questi ultimi contro i pregiudizi altrimenti conseguenti, oppure disponendo misure sanzionatorie, a contrappunto dei comportamenti incongruenti mantenuti dal genitore passibile di censura e volti a prevenirne e disincentivarne altri di simili.

Tra queste misure vi è l’ammonimento, ossia il richiamo del genitore contravventore al rispetto delle condizioni di affidamento o all’astensione da comportamenti pregiudizievoli, pena, in difetto, l’applicazione di altra e più gravosa sanzione oppure della modifica delle condizioni stesse.

Il giudice potrà, anche, applicare una pena pecuniaria, vuoi a favore della Cassa ammende, in misura discrezionale, ma potenzialmente soggetta a progressivi aumenti in caso di nuova violazione, vuoi a favore dei figli o dell’altro genitore.

A tale ultimo riguardo, è discusso se l’onere economico a vantaggio di tali familiari abbia carattere sanzionatorio tout court o bensì natura risarcitoria.

Se si dovesse propendere per tale ipotesi, il coniuge richiedente la corresponsione della somma pecuniaria sarà gravato di dover dimostrare oltre che la violazione, il danno patito, in base alle generali regole dell’onere della prova.

 

 

Avvocato separazione Vicenza

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Il procedimento per il riconoscimento di patologia dipendente da causa di servizio dei militari

 

 

Il procedimento per il riconoscimento di patologia dipendente da causa di servizio dei militari

 

 

Il d.P.R. 29 ottobre 2001, n. 461 ha distinto in tre rilevanti passaggi il procedimento per il riconoscimento di patologia dipendente da causa di servizio dei militari:

– ha fissato la competenza della Commissione Medica Ospedaliera (C.M.O) a diagnosticare l’infermità, a datarne la insorgenza e la conoscibilità, nonché a classificare l’invalidità permanente da essa derivante, esclusa ogni pronuncia sulla causa di servizio;

– ha attribuito espressamente all’organo collegiale centrale (Comitato per la verifica delle cause di servizio) la pronuncia sulla causa di servizio;

– ha reso vincolante per l’Amministrazione la pronuncia del Comitato per la verifica delle cause di servizio , salva solo la facoltà di chiedere (per una volta) il riesame da parte dello stesso Comitato

 

causa di servizio militari

 

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza (si veda, ad esempio la sentenza del TAR Veneto, n. 1022/2019) “il giudizio finale del Comitato di verifica sulla dipendenza da causa di servizio, che concerne l’accertamento del nesso di causalità tra la patologia insorta ed i fatti di servizio, si impone all’Amministrazione come momento di sintesi e di comparazione dei diversi pareri resi dagli organi consultivi intervenuti nel procedimento stesso

Sempre secondo la giurisprudenza amministrativa il parere del Comitato di verifica assume natura parzialmente vincolante per l’Amministrazione procedente. Nel senso che la stessa non può discostarsene a meno che non ravvisi un’evidente carenza istruttoria ovvero un palese travisamento dei fatti o un’illogicità manifesta in cui sia incorso il predetto organo tecnico; in tali ipotesi, l’Amministrazione ha la possibilità (non già di determinarsi diversamente dall’organo consultivo, ma unicamente) di motivatamente richiedere al Comitato di esprimere un nuovo parere, all’esito del quale adotterà il provvedimento finale sulla domanda sempre in senso conforme al parere del Comitato.

 

riconoscimento causa di servizio
procedimento per il riconoscimento di patologia dipendente da causa di servizio dei militari

 

Il giudice amministrativo ha ulteriormente evidenziato che il positivo riconoscimento della dipendenza di una patologia da causa di servizio consegue all’accertamento dell’effettiva e comprovata riconducibilità ad attività lavorativa delle cause produttive di infermità o lesione, in relazione a fatti di servizio ed al rapporto causale tra i fatti e l’infermità o lesione

In altri termini, non si ritiene sufficiente, a tale fine, la sola “possibile” valenza patogenetica del servizio prestato, ma, di contro, si impone la puntuale verifica, connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale, della valenza del servizio prestato quale fattore eziologicamente assorbente o, quanto meno, preponderante nella genesi della patologia

 

 

 

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Il congedo straordinario per l’assistenza di familiari con disabilità

Il congedo straordinario per l’assistenza di familiari con disabilità

Ringraziamo la collega Avv. Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

Il congedo straordinario per l’assistenza di familiari con disabilità, disciplinato dal D.lgs. 26.03.2001 n. 151, art. 42 ss.mm., consiste nella possibilità di astenersi dal lavoro, per un periodo massimo di due anni nell’intera vita lavorativa, per i familiari, appunto, di una persona con disabilità.

L’ordine di priorità è: coniuge o parte dell’unione civile, genitori, figli, fratelli e sorelle. Rimane ferma la condizione dell’assenza di ricovero con le eccezioni che vedremo in seguito.

Tale astensione è frazionabile anche a giorni (non a ore) ed è retribuita con un’indennità che corrisponde alle voci fisse e continuative dell’ultimo stipendio dando diritto all’accredito dei contributi figurativi ai fini pensionistici.

Nell’ordine il congedo straordinario spetta: al coniuge, ai genitori, ai figli, ai fratelli e sorelle, ad altri parenti e affini, conviventi, sino al terzo grado (nel caso in cui siano assenti, o in una situazione giuridica assimilabile all’assenza, i familiari più prossimi).

 

congedo straordinario

Il requisito della convivenza è necessario qualora a richiedere il congedo siano: il coniuge,la parte dell’unione civile, i figli, i fratelli/sorelle o i parenti/affini entro il terzo grado del disabile grave.

Ove per convivenza si intende, in via esclusiva, la residenza, ritenendo a tale fine sufficiente anche la residenza nel medesimo stabile, stesso numero civico, anche se non nello stesso interno.

Preme evidenziare che il congedo straordinario spetta al genitore anche nel caso in cui l’altro genitore non ne abbia diritto, ad esempio perché lavoratore autonomo.

Resta inteso che, qualora entrambi i genitori siano lavoratori dipendenti, il congedo spetterà in via alternativa alla madre o al padre. Infatti, la persona con disabilità non potrà essere assistita contemporaneamente o in momenti diversi dai due genitori lavoratori essendo concessi, per ogni persona con disabilità, solo due anni di congedo complessivi nell’arco dell’intera vita lavorativa.

Quindi, per intenderci, due lavoratori dipendenti, figli di una persona con disabilità, non potranno usufruire di due anni d’assenza ciascuno per assistere lo stesso genitore ma solo ed unicamente di due anni in totale, fermo restando che i due anni sono da intendersi come massimo utilizzabile, per ciascun dipendente, nell’intero arco della vita lavorativa.

 

assistenza familiare disabile
Il congedo straordinario per l’assistenza di familiari con disabilità

Così come, nel caso in cui entrambi i genitori siano in situazione di disabilità grave, lo stesso lavoratore non potrà usufruire di un “raddoppio”: un ulteriore periodo biennale per l’altro genitore in situazione di disabilità grave è ipotizzabile solo per l’altro figlio (o familiare), con decurtazione di eventuali periodi da lui utilizzati a titolo di permessi per gravi e documentati problemi familiari.

Peraltro, il congedo straordinario, così come avviene per i permessi Legge 104, è riconosciuto a un solo lavoratore per l’assistenza alla stessa persona con handicap grave.

Di conseguenza, se esiste già un referente unico titolare di permessi per l’assistenza al disabile, un eventuale periodo di congedo straordinario può essere autorizzato solo in favore dello stesso referente (salvo limitate eccezioni).

Ulteriore presupposto per il riconoscimento del congedo straordinari è la mancanza di ricovero a tempo pieno (quindi per tutte le 24 ore) del familiare in situazione di disabilità grave.

In tal caso è evidente la non necessità del beneficio, essendo il proprio caro seguito per l’intero arco della giornata.

 

 

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Scelta dei requisiti di ammissione concorso pubblico

 

 

Scelta dei requisiti di ammissione concorso pubblico: discrezionalità ma non irrazionalità 

 

Recentemente il Consiglio di Stato, con la sentenza 6972 del 10 ottobre 2019, ha affrontato il caso di un soggetto che aveva partecipato ad un concorso pubblico indetto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali per l’assunzione di 500 funzionari da inquadrare nella III area del personale non dirigenziale, posizione economica F1.

Nel bando di concorso per il Profilo Funzionario architetto, l’Amministrazione richiedeva tra i requisiti di ammissione, oltre alla laurea, il possesso di ulteriori titoli tassativamente determinati.

 

esclusione concorso pubblico

 

In particolare, il bando prevedeva la necessità di un “diploma di specializzazione, o dottorato di ricerca, o master universitario di secondo livello di durata biennale” o di un titolo equipollente/equivalente nella disciplina di riferimento.

Il ricorrente risultava pertanto escluso avendo i seguenti titoli: laurea in architettura, Master di II livello in “Exhibition Design – allestimento museale”, di durata inferiore al biennio; abilitazione alla professione di architetto.

Al riguardo, il Consiglio di Stato ha osservato che “in generale deve essere confermato il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa che riconosce “in capo all’amministrazione indicente la procedura selettiva un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire.”

In altre parole, osserva sempre il Consiglio di Stato “quella che l’amministrazione esercita, nel prevedere determinati requisiti di ammissione, è una tipologia di scelta che rientra tra quelle di ampia discrezionalità spettanti alle amministrazioni”.

 

requisiti concorso pubblico
Scelta dei requisiti di ammissione concorso pubblico

 

 

Il giudice amministrativo ha però richiamato anche la giurisprudenza secondo cui: “in assenza di una fonte normativa che stabilisca autoritativamente il titolo di studio necessario e sufficiente per concorrere alla copertura di un determinato posto o all’affidamento di un determinato incarico, la discrezionalità nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione va esercitata tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico da affidare, ed è sempre naturalmente suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà”.

Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che “i criteri del bando impugnati non risultano proporzionali rispetto all’oggetto della specifica procedura selettiva ed al posto da ricoprire tramite la stessa, risolvendosi pertanto in una immotivata ed eccessiva gravosità rispetto all’interesse pubblico perseguito.

In particolare, osserva infine il Consiglio di Stato, non risulta giustificata la pretesa titolarità di titoli ulteriori rispetto al diploma di laurea, ed in particolare di un master di II livello della durata biennale – con esclusione quindi dei master parimenti di II livello, ma aventi solo una durata annuale – in relazione allo specifico profilo di Funzionario architetto in questione.

 

 

 

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Obbligo restituzione beni donati da parte degli eredi: una collazione indigesta

 

 

Collazione ereditaria. la restituzione beni donati da parte degli eredi.

 

 

Non accettare quello che non puoi restituire.
(H. I. Khan)

 

 

Lo avevamo detto (post 1, 2): la donazione effettuata agli eredi necessari costituisce un anticipo di eredità. Si presume, cioè, che il de cuius, con le liberalità fatte in vita, abbia semplicemente voluto compiere delle attribuzioni patrimoniali gratuite in anticipo sulla futura successione.


Si evita, così, che per effetto delle donazioni poste in essere dal defunto prima della morte, gli eredi conseguano in definitiva più o meno di quanto sia loro dovuto in funzione dell’entità delle rispettive quote.


Per rendere effettivo il rispetto di questo equilibrio, il legislatore ha disciplinato l’istituto della collazione (737 e ss cc), che consiste nel conferimento, nella massa ereditaria, di beni o di valori ricevuti in vita dal defunto a titolo di liberalità, da parte dei figli o del coniuge.

 


Andiamo con ordine.

 

 

collazione ereditaria

 


Chi sono i soggetti tenuti a restituire le donazioni?


L’obbligo di conferimento è in capo solamente ai congiunti più stretti del defunto: i figli ed il coniuge, purchè, ovviamente, abbiano accettato l’eredità e siano, quindi, coeredi.


La collazione opera solamente nei rapporti interni tra queste categorie di soggetti – figli e coniuge – e non attiene quelli concernenti altri soggetti, ad esempio altri eredi con differente grado di parentela o addirittura non parenti, i quali, pertanto, non potranno trarre vantaggi da tale istituto.


Se, conseguentemente, vi dovesse essere concorso tra parenti tenuti alla collazione ed altri che non fossero tenuti, si dovranno operare due distinte masse: quella che contenga i conferimenti donativi e quella senza tali apporti, riguardando, la prima, i soli figli e coniuge, l’altra tutti gli altri coeredi.

 

Quali donazioni comprende la collazione e quali sono escluse?

 

Rientrano nell’obbligo di conferimento tutte le donazioni, dirette (ossia avvenute tramite formale contratto predisposto con atto pubblico alla presenza di due testimoni) oppure indirette, vale a dire realizzate tramite altre modalità, che abbiano comunque l’effetto di comportare l’arricchimento del beneficiario e il corrispettivo impoverimento del donante.


Si precisa che rientra nella collazione qualunque tipo di bene, mobile o immobile.

 

conferimento per imputazione

 

Per espressa previsione di legge, art. 738 cc, non sono soggette a collazione le donazioni di modico valore fatte al coniuge, tenuto tuttavia conto delle condizioni economiche del donante e del numero delle liberalità intercorse.
Ancora, l’erede non è tenuto a conferire le donazioni fatte ai suoi discendenti o al coniuge, ancorché succedendo a costoro ne abbia conseguito il vantaggio (739 cc).


Non sono soggette a collazione le spese di mantenimento e di educazione e quelle sostenute per malattia, né quelle ordinarie fatte per abbigliamento o per nozze.

Le spese per il corredo nuziale e quelle per l’istruzione artistica o professionale sono soggette a collazione solo per quanto eccedono notevolmente la misura ordinaria, tenuto conto delle condizioni economiche del defunto.

 

Come avviene il conferimento delle donazioni?

 

La collazione di un bene immobile si fa o col rendere il bene in natura – ossia materialmente mettendolo a disposizione dei coeredi – o con l’imputarne il valore alla propria porzione, a scelta dell’erede donatario.


Se l’immobile è stato alienato o ipotecato, la collazione si fa soltanto con l’imputazione.


Ai fini della stima del valore dell’immobile sarà necessario fare riferimento al momento dell’apertura della successione.


Se, tuttavia, il coerede donatario abbia nel frattempo effettuato delle migliorie al bene immobile da stimare, il valore di queste andrà dedotto in suo favore dall’onere di conferimento.


Al contrario, qualora l’immobile abbia accusato deterioramenti dovuti a colpa del donatario, questi dovrà conferire il relativo rimborso.


Per quanto riguarda i beni mobili, la collazione si fa soltanto per imputazione, sulla base del valore che essi avevano al tempo dell’aperta successione con riguardo allo stato in cui si trovano dopo essere state nel frattempo utilizzate.

 

 

Modifica assegno di separazione o divorzio Gli importi già percepiti non vanno restituiti

 


La collazione del danaro donato si opera prendendo una minore quantità del danaro che si trova nell’eredità. Quando tale danaro non basta e il donatario non vuole conferire altro danaro o titoli dello Stato, sono prelevati mobili o immobili ereditari, in proporzione delle rispettive quote.

 

Dispensa dalla collazione e rinuncia alla collazione.


Il donante, al momento dell’attribuzione o anche in sede testamentaria o con separato atto, può dispensare dal conferimento il donatario.


In tal caso la dispensa avrà l’effetto di esonerare il coerede dalla restituzione del bene o del valore del bene nei soli limiti della quota disponibile (art 737 cc). Solamente l’eccedenza rispetto a tale quota dovrà essere restituita alla massa ereditaria.


Gli eredi possono anche rinunciare ad avvalersi della collazione.


La Corte di Cassazione ha ritenuto che i coeredi siano nella piena facoltà di procedere alla divisione tra loro dell’asse ereditario senza applicare le disposizioni che regolano l’istituto. Deve infatti rilevarsi il carattere dispositivo delle norme che regolano l’ istituto e la correlativa mancanza di un divieto giuridico (Cass. Civ 22911/2017)




Due precisazioni conclusive.


Affinchè si possa dare luogo alla collazione è necessario che il defunto abbia lasciato una pur minima disponibilità di beni al momento della morte, tale da creare la comunione ereditaria tra i successori.
Se, infatti, l’asse sia stato esaurito con donazioni in vita e conseguentemente manchi un relictum, non si avrà luogo ad alcuna divisione e nemmeno alla collazione che in essa trova presupposto. Si tratterà solamente di valutare l’esperibilità di eventuale azione di riduzione per gli eredi che siano stati lesi nella propria quota di legittima.

 

 restituzione donazioni collazione
Obbligo restituzione beni donati da parte degli eredi: la collazione ereditaria


Parimenti non si avrà luogo alla collazione allorquando il testatore abbia provveduto ad assegnare non già quote del proprio patrimonio, bensì singoli beni, evitando così la formazione della comunione ereditaria.


Si potrà evitare la collazione e trattenere quanto ricevuto in donazione, rinunciando all’eredità, precludendo in tal modo la possibilità d’ instaurazione della comunione ereditaria.

 

 

 

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Tempi di visita figli minori: la compressione non limita l’affido condiviso

La restrizione dei tempi di visita figli minori per il genitore non collocatario non intacca la sostanza dell’affidamento condiviso.

Re Salomone, per risolvere la causa pendente tra due madri che reclamavano come proprio lo stesso figlio, si fece portare una spada, paventando che avrebbe diviso in due il piccolo e dato metà a ciascuna delle reclamanti. La prima delle due supplicò di non uccidere il bimbo, ma di risparmiarlo, pur dandolo all’altra. Ad essa il saggio sovrano fece consegnare l’infante, riconoscendola – dall’amore incondizionato – la vera madre.


Sono frequenti i casi nei nostri tribunali in cui i giudici siano chiamati a risolvere contrasti dei genitori riguardanti i rispettivi tempi di visita e frequenza dei figli.


Non si può certo affermare che si debba ricorrere al rimedio della “spada” adottato da Salomone per risolvere i conflitti sui tempi di permanenza; certo è che spesso si tratta di decisioni sofferte, che si insinuano tra legami profondi, che toccano, lacerano, incidono il sentimento più ancestrale e radicato: l’amor filiale.


In questo caso, l’agire del giudicante deve essere orientato da un unico obiettivo: il preminente interesse dei figli. Anche a scapito dei sentimenti e delle prerogative genitoriali.


La decisione è vieppiù tormentata e delicata laddove i genitori vivano a distanza e si debbano giostrare e gestire le visite dei figli, anche sottoponendoli a lunghe e debilitanti trasferte.


Ciliegina della torta, come spesso accade, potrebbe essere la scelta della mamma o del papà di cambiare città, per esigenze lavorative, sentimentali, di vita.


Della questione ce ne eravamo occupati già in passato, in questo post Affidamento figli. Se un genitore separato va a lavorare altrove, che ne sarà dei figli?


In buona sostanza, si era sottolineato che la scelta di un genitore di stabilire e trasferire la propria residenza e sede lavorativa costituiscono oggetto di libera e non conculcabile opzione dell’individuo, espressione di diritti fondamentali di rango costituzionale, senza che egli perda per ciò l’idoneità ad avere in affidamento i figli minori o ad esserne collocatario, sicché il giudice, ove il primo aspetto non sia in discussione, deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario.


La domanda a questo punto è la seguente: la compressione dei tempi di visita figli minori con il genitore non collocatario è compatibile con l’istituto dell’affidamento condiviso?


La risposta la possiamo trarre da una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione.


Il casus belli verteva sulla scelta della madre, collocataria, di trasferirsi in altra città, portando con sé i figli e cambiando loro scuola.

Conseguentemente il Tribunale disponeva tempi più ridotti per la frequentazione con il padre.


Questi ricorreva dapprima in appello, quindi alla Suprema Corte, chiedendo un ampliamento del diritto di visita, con pernottamenti anche infrasettimanali.


La considerazione del padre verteva sul fatto che la contrazione del periodo di visita violasse l’istituto dell’affidamento condiviso, mascherando in realtà un affido esclusivo di fatto, potendo egli trascorrere con i figli pochi giorni al mese, ledendo così il loro diritto a ricevere cure, educazione e istruzione con paritaria presenza di entrambi i genitori.

tempo di visita figli minori


Gli ermellini, statuendo sul punto, hanno verificato la correttezza del giudizio del Tribunale allorquando aveva considerato come impraticabile l’ampliamento dell’esercizio del diritto di visita proposto dal padre, in quanto avrebbe dato luogo ad un regime estremamente articolato e frammentato, non funzionale alle esigenze di stabilità e serenità che devono necessariamente connotare la quotidianità dei figli.

Attiene al potere del giudice stabilire le concrete modalità di esercizio del diritto di visita che devono essere ispirate, nel disciplinare le frequentazioni del genitore non convivente con il minore, a criteri tutti improntati all’esclusivo interesse del minore.


La riduzione dei tempi di visita dei figli col genitore non collocatario non altera, pertanto, l’istituto dell’affidamento condiviso, in quanto proprio tale sistema non esclude che il minore sia collocato presso uno dei genitori e che sia stabilito uno specifico regime di visita con l’altro genitore.


In buona sostanza: la collocazione prevalente dei minori presso l’un genitore, anche a discapito della paritetica prerogativa dell’altro, è disciplina compatibile con l’affidamento condiviso. Il giudice, nel deliberare le modalità di frequenza con il genitore non collocatario dispone discrezionalmente ed insindacabilmente, purchè la propria pronuncia sia improntata unicamente all’esclusivo interesse dei figli.

Ecco allora che laddove l’estensione dei tempi di visita potrebbe comportare disagio ai minori, costringendoli a continui va e vieni da una casa all’altra, pure situate a distanza, ben può essere considerato congruo al loro miglior interesse porre dei limiti temporali, concentrando la frequenza in precisi, seppur più contenuti, periodi della settimana.


Va ben evidenziato, ad ogni buon conto, come in precedenza proprio la Suprema Corte ( Cassazione civile sez. I, 08/04/2019, n.9764 ) aveva avuto modo di rilevare che nell’interesse superiore del minore vada assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione.


Tale principio ammette modulazioni se confacenti con il miglior interesse dei figli ad una crescita sana ed equilibrata.


L’autorità giudiziaria dovrà ben ponderare eventuali “restrizioni supplementari” al diritto di visita dei genitori, attentamente vagliare le garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita famigliare.

In difetto vi sarebbe il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età e uno dei genitori o entrambi, pregiudicando il preminente interesse del minore.



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tempi di visita figli minori

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Non c’è l’insegnante di sostegno? L’alunno con disabilità ha diritto comunque di andare a scuola!

 

Il diritto ad andare a scuola non deve venir meno perchè non c’è l’insegnante di sostegno

 

 

Ringraziamo la Collega Avv. Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

Ogni anno a settembre, all’inizio del nuovo anno scolastico si ripresenta l’annoso problema della carenza degli insegnanti di sostegno.


Da un sondaggio effettuato recentemente dalla Fish (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), è emerso che, su 1.600 famiglie interpellate, il 41% denuncia “ la mancanza della figura del sostegno


Di particolare gravità è la circostanza che, di queste famiglie circa il “ 30% dichiara di essere stato invitato a non portare a scuola il proprio figlio o a ridurne la frequenza.”


È evidente che un invito di questo tipo costituisce una grave discriminazione che pregiudica in maniera significativa il diritto allo studio in senso lato.


Se la scuola funziona per gli altri bambini, è evidente che debba funzionare anche per l’alunno con disabilità.

 

non c'è l'insegnante di sostegno
non c’è l’insegnante di sostegno: e l’inclusione?

 


Del resto, l’insegnante di sostegno non è l’insegnante dell’alunno con disabilità bensì è un insegnante affidato alla classe per promuovere il suo processo di inclusione.


In poche parole l’alunno con disabilità è affidato, come tutti gli altri, alla scuola e non all’insegnante di sostegno o all’operatore.


Quindi, la mancanza dell’insegnante di sostegno non può comportare per l’alunno l’impossibilità di frequentare la scuola o riduzioni di orario della frequenza.


In conclusione, se l’insegnante di sostegno non c’è, l’alunno con disabilità ha il pieno diritto di andare a scuola e sarà compito dei docenti accoglierlo così come accolgono tutti gli altri bambini.


La scuola deve funzionare per tutti, nessuno escluso e che ogni disagio derivante dalla carenza di personale deve ricadere eventualmente sull’intera comunità scolastica e non solo su alcuni.


Ogni condotta che si scosti dal principio egualitario non solo inibisce ogni possibilità di reale inclusione, ma viene anche a compromettere l’esercizio dei diritti di base sanciti dalla stessa Costituzione.


Ricordiamo, infine, che una tale comportamento è censurabile anche ai sensi e per gli effetti della legge 01.03.2006, n. 67Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni“.

 

Quindi… A settembre la campanella suona per tutti.

 

 

 

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inclusione: non c’è l’insegnante di sostegno

Modifica assegno di separazione o divorzio? Gli importi già percepiti non vanno restituiti

 

 

Gli importi già percepiti non debbono essere restituiti in caso di modifica assegno di separazione o divorzio

 

 

 

È meglio aver amato e perso
che non aver amato mai.
(Alfred Tennyson)

 

 

Non è una bella consolazione per chi, dopo aver amato, abbia perso la possibilità di conseguire la restituzione dei maggiori importi versati, anche a seguito di una pronuncia che abbia ridotto consistentemente il proprio obbligo contributivo nei confronti del (ex) coniuge.

Ma è così.


Ce lo dice la Cassazione con una pronuncia slim and smooth.

Il caso.

A seguito della presentazione dei coniugi davanti il Presidente del Tribunale, questi disponeva l’obbligo del marito di versare alla moglie l’importo di 700 euro al mese.


Il provvedimento presidenziale è temporaneo ed urgente, va a regolare cioè le condizioni della separazione nelle more del procedimento, fino alla sentenza conclusiva, che potrà – per dirla alla Alessandro Borghese – confermare o ribaltare la statuizione iniziale.


Bene, nel caso in esame il Tribunale, con la decisione finale, aveva ridotto l’ammontare dell’assegno a 400 euro mensili.

 

assegno divorzile: quando/quanto?
Modifica assegno di separazione o divorzio Gli importi già percepiti non vanno restituiti

 


Domandina: se il provvedimento più importante, la sentenza, che viene a statuire (più o meno) definitivamente la lite tra le parti, stabilisce che la somma congrua e corretta, anche alla luce delle prove che sono state conseguite nel corso del processo, sia un importo minore di quello provvisorio fissato all’inizio del procedimento, i 300 euro in più corrisposti ogni mese dal marito fino alla pronuncia possono essere chiesti indietro alla moglie?


La risposta è negativa.


Normalmente, gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della domanda se a tale momento esistevano le condizioni richieste per l’emanazione del provvedimento  .

Chiedo qualcosa, se ottengo vittoria, gli effetti della pronuncia decorrono da quando ho proposto la mia domanda, altrimenti il decorso del tempo mi pregiudicherebbe.


La giurisprudenza tuttavia, a più riprese, si è pronunciata nell’attenuare la retroattività della sentenza nei processi di separazione e divorzio.


Il motivo è dettato dalla natura alimentare degli importi corrisposti a tale titolo, che la legge considera irripetibili, non pignorabili e non compensabili con altri crediti vantati da chi debba versarli.

 


La conseguenza: il provvedimento finale è retroattivo ma … la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, nè può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo, mentre ove il soggetto obbligato non abbia ancora corrisposto, per tutti i periodi pregressi, tali prestazioni, non più dovute in base alla sentenza di modificazione delle condizioni di separazione, non sarà più tenuto a corrisponderle, con la conseguenza che contro di lui non potrà agirsi esecutivamente.


In buona sostanza, se la moglie ha percepito 300 euro al mese in più rispetto alla decisione finale del Tribunale, il marito non potrà chiederne la restituzione.

Se tuttavia egli non abbia versato tale maggiore importo, allora non sarà tenuto a corrisponderlo, perchè gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della domanda.

 

 

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Modifica assegno di separazione o divorzio

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Il ritrovamento di un nuovo testamento.

 

 

Quali conseguenze comporta il ritrovamento di un nuovo testamento sulla distribuzione dei beni ereditari già avvenuta.

 

 

Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per cosi dire morto; i suoi occhi sono spenti.
(Albert Einstein)

 

Oggi ci soffermiamo ad analizzare l’ipotesi in cui la sorpresa l’ha fatta proprio il morto, avendo confezionato un (nuovo?) testamento di cui nessuno sapeva (o voleva far sapere) l’esistenza.

 

Bene, partiamo con un po’ di adrenalina.


Il compianto ci ha lasciati già da qualche anno.


I beni caduti in successione sono già stati spartiti tra gli eredi, vuoi quelli legittimi perchè un testamento non c’era (o si pensava non ci fosse), vuoi quelli testamentari, sulla scorta dell’unico testamento conosciuto.

Poi … ta da!


Tra le pagine impolverate di un libro, dimenticato su uno scaffale, salta fuori una carta, stropicciata, ingiallita, con degli scritti vergati a mano da una grafia che conosciamo: quella del nostro caro defunto.


Il suo testamento.

Apriti cielo.

 

 

trovare un nuovo testamento


Che cosa succede col ritrovamento di un nuovo testamento?


Varie possono essere le ipotesi, di cui ne abbozziamo solo alcune.

– Prima ipotesi.


Il testamento ritrovato ha data anteriore a quello in base a cui si è svolta la successione.


Se le disposizioni in esso contenute sono radicalmente incompatibili con quelle del successivo, varrà quest’ultimo con cui il de cuius, in buona sostanza, ha revocato tacitamente le (a questo punto non più) ultime volontà precedenti.


Se, invece, le disposizioni tra i due testamenti non fossero incompatibili, ma tra loro intrecciabili e integranti, allora potranno essere intese come un unico atto, da rispettare integralmente.


Ad esempio. Con un testamento il disponente ha nominato erede universale Tizio, con l’altro ha conferito un legato a Caio.

Potranno essere osservate entrambe le disposizioni testamentarie, non incompatibili tra loro, salvo non sia stato effettuato un espresso accenno alla revoca del testamento precedente.

 

revoca tacita testamento


– Seconda ipotesi.


Il ritrovamento di un nuovo testamento successivo a quello in base al quale si è svolta la successione.


Varrà quanto detto sopra, in merito alla revoca tacita (link 1, 2 , 3) oppure no delle disposizioni precedenti.


Potrebbe essere che il de cuius abbia inteso mantenere l’indicazione degli eredi già effettuata in precedenza, mutandone solo l’assetto delle rispettive quote.

In tal caso sarà necessario integrare o diminuire le rispettive porzioni, fino a farle conformare alla volontà testamentaria.


Il caro defunto potrebbe aver ingarbugliato la situazione, confezionando un testamento successivo del tutto incompatibile con il precedente, che sarà da considerarsi revocato, istituendo come eredi o beneficiari soggetti diversi da quelli considerati in prima battuta.

Non solo.


Il ritrovamento di un nuovo testamento avviene casualmente, quando i piatti sono stati già lavati, ossia quando i beni ereditari sono stati attribuiti ai primi (apparenti) destinatari del lascito.


Sub ipotesi uno.


I primi eredi cortesemente cedono il passo ai nuovi nominati ed attribuiscono loro tutto ciò che gli spetta.


Bene. Evviva.


Sub ipotesi due.


Gli (ex) eredi di “primo scritto”, chiamiamoli impropriamente così, non vogliono mollare l’osso.


Ai nuovi istituiti non rimarrà che adire il Tribunale ed esercitare la cd “petitio hereditatis”, un’azione specificamente disciplinata dall’art. 533 cc, in base al quale L’erede può chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno , allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi”.

Procediamo con ordine.

E’ un’azione che spetta all’erede.

Ad un soggetto, cioè, che non solo sia stato istituito tale dalla legge o da una disposizione testamentaria, ma che abbia anche accettato l’eredità.


Si noti. La circostanza di esercitare in giudizio tale azione comporta di per sé un’accettazione tacita dell’eredità.


L’azione potrà essere svolta contro chi abbia il possesso dei beni ereditari senza titolo, vuoi perchè non ne sia mai esistito uno, vuoi perchè fosse titolo fallace, come quello oggetto della nostra attenzione.


Quali prove? Il soggetto che invocherà l’azione dovrà provare:
– di essere erede, vuoi per successione legittima o testamentaria.
– la morte del de cuius.
– l’appartenenza dei beni posseduti all’asse ereditario.

 

trovare un altro testamento
ritrovamento di un nuovo testamento

 


E’ un’azione simile a quella di rivendicazione, riconosciuta al proprietario che invochi il proprio diritto contro chi possegga o detenga i suoi beni (art. 948 cc  ), ma da questa molto differente in relazione al carico probatorio.


Al rivendicante spetta, come è noto, la cosiddetta probatio diabolica di dimostrare la legittimità di tutti gli acquisti a titolo derivativo precedenti, sino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario.


A chi esercita la “petitio” no, sarà sufficiente allegare il proprio titolo e l’ascrivibilità dei beni reclamati al patrimonio ereditario.


Tutto qua? Facile facile?


Anche no, perchè alle ipotesi appena accennate se ne possono aggiungere altre da far girare la testa.

Chi ha pazienza di leggere ci segua.

Sub Sub ipotesi 1.


Il tempo trascorso fino alla scoperta del nuovo testamento non è indifferente.


L’azione di petizione di eredità non è prescrittibile, lo dice la legge stessa.


Ciò che si prescrive è il diritto di accettare l’eredità, presupposto per l’esercizio dell’azione indicata, che il codice civile fissa in dieci anni dall’apertura della successione, ossia dalla morte del de cuius. (art. 480 cc)


Ed allora?

Allora pace. Il nuovo chiamato all’eredità non potrà esercitare la sua azione di rivendica perchè prescritto sarà da considerarsi, dopo dieci anni, il diritto ad accettare. Così si è pronunciata la Cassazione (n 264/2013  ) con una sentenza nemmeno molto risalente, che ha risolto un contrasto precedente.


Sub sub ipotesi 2


Tra eredi nuovi ed eredi vecchi si è già svolta una causa, prima che saltasse fuori il secondo testamento, proprio per dirimere la controversia relativa ai rispettivi diritti successori, verosimilmente basata su testamento precedente o addirittura in assenza.


A sentenza passata in giudicato che ha statuito sulle rispettive qualifiche di eredi, entra in ballo il ritrovamento di un nuovo testamento.


In tal caso, gli eredi di seconda istituzione (chiamiamo così quelli designati dal secondo atto di ultime volontà) non potranno azionare la “petitio hereditatis” di cui abbiamo trattato prima, proprio perchè la statuizione del giudice si è già consolidata.

Ad essi spetterà, semmai, la possibilità di agire in “revocazione”, altra particolare azione riconosciuta dalla legge in casi assai particolare, ma con l’arduo onere di dimostrare la data di scoperta del nuovo testamento e, comunque, che il rinvenimento non fosse possibile per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario (art. 395 cpc). 


Hai voglia.


Per dettagli, Cass. Civ. N 3655/2017 

 

 

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ritrovamento di un nuovo testamento

Assegno divorzile: quando/quanto?

 


Assegno divorzile: quando/quanto? Non basta la semplice disparità dei redditi.

 

 


“Il divorzio è un sistema per mezzo del quale, se due persone commettono un errore, una sola delle due deve pagare per questo.”
LEN DEIGHTON (scrittore)

 

 

Ci permettiamo di dissentire: è circostanza assodata che separazione e divorzio costituiscano un lusso per molti, dato che la coperta (economica) è corta per entrambi i coniugi e tutti e due rischino di andar via con le ossa rotte dalla soluzione del vincolo.


Oggi, grazie ad una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione – che ha mirabilmente compendiato la nuova prassi giurisprudenziale venutasi a creare, a seguito di orientamenti significativamente divergenti – facciamo il punto della situazione in merito al quesito “assegno divorzile: quando/quanto?

 

assegno divorzile vicenza


Partiamo da ciò che dice la legge.


Art. 5 L. 898/1970  : Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.

 

Bene, il Tribunale – tenuto conto di una serie di circostanze compiutamente enunciate – dispone l’obbligo di versare un assegno divorzile a favore dell’ex coniuge che non abbia mezzi adeguati o non possa procurarseli per ragioni obiettive.


La parola della legge è chiara, difficile interpretarla.


Quando il beneficiario non ha mezzi adeguati? Ed a quanto deve ammontare l’assegno?


Assegno divorzile: quando/quanto?


Dal 1970 ad oggi sono intervenute diverse interpretazioni della norma citata.

Gli orientamenti significativi sono tre.


– Il più risalente, anno 1990 , affermava che il carattere esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile “di modo che deve essere negato se richiesto solo sulla base di premesse diverse, quale il contributo personale ed economico dato da un coniuge al patrimonio dell’altro, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di ‘bisogno’, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio”.


In buona sostanza, l’assegno andava concesso laddove sussistesse un insanabile squilibrio tra le posizioni patrimoniali dei coniugi ed era volto a garantire al beneficiario un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.


Carattere assistenziale, pertanto: va aiutato l’ex coniuge che non abbia mezzi adeguati per vivere come prima.

 

 

ammontare assegno divorzile
assegno divorzile: quando/quanto?


– Un secondo orientamento , che ha fatto molto discutere anche perchè d’epoca recente, (ne avevamo parlato in questi post 1, 2), sconfessava la consolidata interpretazione precedente e poneva l’attenzione sulla circostanza che il divorzio risolvesse la condizione matrimoniale e non fosse  possibile prendere a riferimento elementi – quali il tenore di vita goduto in costanza di vincolo coniugale – non più esistenti e non più attuali per il nuovo stato delle parti.


Quindi? L’esclusivo parametro per il giudizio d’inadeguatezza dei redditi o dell’impossibilità oggettiva di procurarseli doveva essere quello dell’indipendenza economica del richiedente.

L’autosufficienza poteva essere desunta dal possesso di redditi di qualsiasi specie, di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari, della disponibilità di una casa di abitazione e della capacità e possibilità effettive di lavoro personale.


Bastava, in sostanza, che il coniuge richiedente avesse qualcosa di cui campare, anche minimo, che non gli sarebbe spettato alcunchè. Un eventuale aiuto dall’ex consorte sarebbe consistito in una contribuzione del tutto slegata da tenore di vita precedente e volta a costituire un sussidio base per poter vivere.


– Il terzo orientamento, quello attualmente vigente, prende le mosse da una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite  che ribalta ancora le precedenti interpretazioni: l’assegno divorzile ha valenza sia assistenziale che compensativa e perequativa.


Ehhh?


Tranquilli, ci spiega bene il concetto la sentenza della Cassazione cui facevo riferimento all’inizio di questo contributo.


Il caso da dirimere verteva sulla richiesta dell’ex moglie di vedersi riconosciuto dal facoltoso marito un cospicuo contributo a titolo di assegno divorzile sul presupposto che, dopo vent’anni di matrimonio, essa aveva perso e deteriorato le proprie capacità lavorative e reddituali. Aveva ricevuto, in verità, una casa al mare di consistente valore, ma era, per l’appunto, solo un’abitazione per la vacanza, non già fonte di reddito.

 

quando è dovuto assegno divorzio


La pronuncia degli ermellini, sapientemente riassume l’attuale orientamento giurisprudenziale.


L’assegno divorzile ha natura variegata:

– una finalità assistenziale: è un aiuto al (ex) coniuge che non abbia mezzi adeguati. Si badi, il parametro della conservazione del tenore di vita non ha più cittadinanza nel nostro sistema, per cui nulla sarà dovuto in caso di autosufficienza economica delle parti, se abbiano, cioè, la possibilità di vivere autonomamente e dignitosamente.


E’ opportuno precisare che l’assegno nonbsarà comunque dovuto qualora entrambi i coniugi non abbiano mezzi propri adeguati per vivere dignitosamente, pure in presenza di un relativo squilibrio delle rispettive condizioni reddituali e patrimoniali.


– una finalità compensativa/perequativa, ossia volta a rimediare ad uno squilibrio patrimoniale venutosi a creare a causa delle scelte di vita concordate degli ex coniugi, per effetto delle quali uno di essi abbia sacrificato le proprie aspettative professionali e reddituali per dedicarsi interamente alla famiglia, in tal modo contribuendo decisivamente alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune.


La suddetta valutazione andrà operata con riferimento ai criteri indicati dalla norma divorzile sopra citata, tra i quali la durata del matrimonio, che incideranno sulla quantificazione dell’assegno.


Nell’ambito di questo accertamento – precisa la Corte – lo squilibrio economico tra le parti e l’alto livello reddituale del coniuge destinatario della domanda non costituiscono, da soli, elementi decisivi per l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno.

Il mero dato della differenza reddituale tra i coniugi è coessenziale alla ricostituzione del tenore di vita matrimoniale, che è però estranea alle finalità dell’assegno nel mutato contesto.

L’attribuzione e la quantificazione dello stesso non sono variabili dipendenti soltanto dall’alto (o dal più alto) livello reddituale di uno degli ex coniugi, non trovando alcuna giustificazione l’idea che quest’ultimo sia comunque tenuto a corrispondere all’altro tutto quanto sia per lui “sostenibile” o “sopportabile”, quasi ad evocare un prelievo forzoso in misura proporzionale ai suoi redditi.

Un esito interpretativo di questo genere si risolverebbe in una imposizione patrimoniale priva di causa, che sarebbe arduo giustificare in nome della solidarietà post-coniugale”.

E’ interessante l’inciso finale del provvedimento in esame, che toglie spazio a qualsiasi possibilità di quantificare l’assegno in base ad una semplice percentuale dei redditi del coniuge più abbiente: se è vero che l’assegno può essere attribuito anche solo per finalità di tipo compensativo … dovrà essere parametrato unicamente al contributo personale dato alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge e alle esigenze di vita dignitosa del coniuge richiedente


La Sentenza: Cassazione Civile n. 21234 /2019 

 

 

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