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Autore: Studio Legale Berto

Dimissioni dall’ospedale anziano non autosufficiente

Dimissioni dall’ospedale anziano non autosufficiente.

 

Ringraziamo la collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

 

Gli anziani non autosufficienti, se ricoverati in ospedale, non possono essere dimessi prima che siano state assicurate e organizzate dall’Asl di residenza le cure domiciliari o, se non sia possibile il rientro a domicilio, individuata una struttura residenziale.

 

L’art. 32 della nostra Costituzione sancisce che sia compito della Repubblica tutelare “la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.


Il Servizio sanitario nazionale garantisce, quindi, il diritto alle cure attraverso le Regioni e le Aziende sanitarie locali.


E’ importante evidenziare che il diritto alla salute è riconosciuto a tutti senza alcuna distinzione tra malattie acute e malattie croniche, come la non autosufficienza che colpisce i nostri anziani.


In particolare, la Legge n. 833 del 23.12.1978, specifica che le ASL siano obbligate a provvedere alla “tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione”.

E questo qualunque siano “le cause, la fenomenologia e la durata” delle malattie.

dimissioni anziano ospedale


I nostri anziani, quindi, hanno diritto, come qualsiasi altro cittadino, ad essere assistiti perché, se è vero che, in quanto non autosufficienti cronici, non possono guarire è altrettanto vero che hanno diritto ad essere curati.


E questo senza limiti di durata.


Per quanto l’ospedalizzazione dell’anziano può spesso rivelarsi rischiosa dato l’elevato rischio di infezioni  , altrettanto rischiosa può rivelarsi la tendenza generalizzata alla riduzione del tempo di degenza in ospedale.


Gli anziani non autosufficienti, infatti, sono malati in condizioni di maggior debolezza e fragilità se ancora bisognosi di cure.


Dobbiamo sempre ricordare che nessun malato, quindi anche l’anziano non autosufficiente, può essere dimesso dall’ospedale qualora necessiti ancora di cure sanitarie.


A meno che gli sia stata garantita la continuità delle cure a domicilio o in altre strutture.


Esistono, infatti, strutture (di riabilitazione o di lungodegenza) che hanno il preciso compito di gestire la fase post acuta della malattia e dunque in dimissione dall’ospedale per acuti.


Per quanto ai familiari spesso si comunichi che il ricovero in queste strutture non possa superare i 30-60 giorni, è importante evidenziare che, qualora la condizione del malato non sia compatibile con il trasferimento presso altre strutture sociosanitarie o a domicilio, il ricovero può essere prolungato.

 

 dimissioni ospedale non autosufficiente
Dimissioni dall’ospedale anziano non autosufficiente


L’art. 30 del DPCM 12.01.2017, “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”, (meglio noto come Nuovi Lea), prevede, infatti, che sia compito del Servizio Sanitario Nazionale garantire alle persone non autosufficienti:


a) trattamenti estensivi di cura e recupero funzionale in caso di patologie che, pur non presentando particolari criticità e sintomi complessi, richiedono elevata tutela sanitaria con continuità assistenziale e presenza infermieristica sulle 24 ore.


b) trattamenti di lungoassistenza, recupero e mantenimento funzionale, ivi compresi interventi di sollievo per chi assicura le cure.


Il primo tipo di intervento è a totale carico del Servizio sanitario nazionale mentre i trattamenti di lungoassistenza prevedono una sua compartecipazione per una quota pari al 50% per cento della tariffa giornaliera.


Prima di accettare la dimissione del nostro anziano dall’ospedale dovremo, quindi, avere cura di valutare ogni singola conseguenza delle nostre decisioni, soprattutto nel caso in cui il quadro clinico sia tutt’altro che stabile.


In particolare dovremo chiederci se la soluzione che ci viene prospettata al momento della dimissione sia davvero rispondente al bisogno del nostro familiare e se saremo in grado di farvi fronte.


Perché con l’accettazione della dimissione e con il rientro a domicilio del nostro familiare, ci assumeremo la responsabilità della continuità terapeutica che, invece, fino al momento del ricovero è a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale.


Nel caso in cui i dubbi siano superiori alle certezze, quindi, ricordiamoci che è sempre possibile opporsi alle dimissioni o al trasferimento in altra struttura che ci appaia motivatamente inadeguata.

 

 

 

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La morte del coniuge durante il giudizio di divorzio

 

La morte del coniuge durante il giudizio di divorzio

 

Il cinquanta per cento dei matrimoni termina tristemente con un divorzio. L’altra metà con la morte. Tu potresti essere uno dei fortunati.
(Richard Jeni, attore e sceneggiatore statunitense)

 

 

Mors omnia solvit, dicevano i romani. La morte scioglie tutto.


Porta via con sé la vita ed anche le beghe, le amarezze e le delusioni che durante la vita, inevitabilmente, possono essersi accumulate.


La morte scioglie il vincolo matrimoniale. Come il divorzio (art. 149 cc )


Oggi ci soffermiamo a considerare cosa potrebbe accadere nel caso in cui queste tristi vicende si accavallassero contemporaneamente.


Partiamo dal caso concreto, vagliato tra l’altro da una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione.


Moglie e marito. Si separano. Poi interviene il procedimento di divorzio.


La causa di primo grado si conclude con una sentenza che scioglie  il vincolo ed dispone un assegno di mantenimento per i figli e per la (ex) moglie.


Il provvedimento viene impugnato dal marito, che non contesta la pronuncia in ordine allo stato, ossia all’avvenuto scioglimento del matrimonio (che, pertanto, passa in giudicato), bensì in merito al suo obbligo di contribuzione economica.


L’appello viene rigettato, ma – prima che scada il termine per l’ultimo grado di giudizio – purtroppo, viene a mancare l’ex moglie.

 

morte coniuge divorziato


Il marito ricorre in Cassazione, evidenziando come fosse suo interesse venisse dichiarata la cessazione della materia del contendere, volendo mantenere lo status di coniuge superstite separato e non divorziato.


Una tale scelta poggia, evidentemente, sulla circostanza che con la separazione non viene meno il vincolo matrimoniale, come si verifica col divorzio, per cui il coniuge separato diviene erede di quello defunto.


La Suprema Corte ha giudicato “manifestamente fondato” il motivo d’impugnazione, relativamente alle disposizioni della sentenza che erano state oggetto di precedente contestazione, (quelle, per intenderci, che disponevano il suo obbligo di corrispondere il mantenimento).


La morte del coniuge, hanno osservato gli ermellini, sopravvenuta nel giudizio di divorzio, determina la “cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi: onde l’evento della morte sortisce l’effetto di travolgere ogni pronuncia in precedenza emessa e non ancora passata in giudicato, assumendo esso rilevanza in relazione alla specifica res litigiosa…pertanto, atteso che il capo di pronuncia sullo status era passato in giudicato, va accolta l’istanza di declaratoria di cessazione della materia del contendere con riguardo alla materia residua, ossia con riguardo ai capi sulle disposizioni patrimoniali a carico dell’obbligato, che non hanno ancora acquisito definitività”.


La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto non fosse possibile rimettere in discussione la pronuncia sull’avvenuto scioglimento del matrimonio, in quanto ormai si era consolidata per non essere mai stata impugnata.


Gli ex coniugi – pertanto – dovevano ancora considerarsi tali, degli ex, poiché divorziati e non solamente separati, con buona pace delle aspirazioni successorie del marito.


Quindi?


Quindi, in sintesi: se durante il giudizio di divorzio interviene la morte di uno dei coniugi si viene a determinare la cessazione della materia del contendere, che travolgerà tanto la pronuncia sullo status (purchè non sia passata in giudicato) tanto quella sulle condizioni del divorzio, come le statuizioni economiche.

 

morte durante divorzio
morte del coniuge durante il giudizio di divorzio: è cessazione materia del contendere

 


A sommesso avviso di chi scrive, vi è però una falla in tale impostazione.


Se la pronuncia sullo status non impugnata scioglie definitivamente il vincolo, far venir meno, per effetto della morte sopravvenuta, le statuizioni – quelle sì impugnate – conseguenti il divorzio, significa privare il coniuge (ex) superstite di alcune legittime prerogative.


Ad esempio: la pensione di reversibilità, che spetta all’ex coniuge, divorziato, che non sia passato a nuove nozze e che sia titolare di assegno divorzile.


Oppure l’assegno successorio, posto a carico dell’eredità, per il superstite a cui sia stato riconosciuto, in sede divorzile, il diritto alla corresponsione periodica di somme di denaro, qualora versi in stato di bisogno (art.9-bis delle l. 898/70).

 

Da ultimo, anche quota parte del Tfr,  che spetta  al “coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno”.

 


Prerogative queste talora di essenziale rilevanza che meritano di essere tutelate, seppur costringendo gli eventuali eredi del defunto coniuge, (talvolta i figli del coniuge superstite) a terminare il percorso giudiziario intrapreso da colui il quale li ha lasciati.

 

 

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A chi spetta la pensione di reversibilità?

A chi spetta la pensione di reversibilità?

 

Un ringraziamento alla collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

La pensione ai superstiti, è una prestazione che viene riconosciuta ad alcuni familiari del lavoratore o del pensionato deceduto ed iscritto presso una delle gestioni dell’INPS.


Più precisamente si parla di pensione di reversibilità se l’assicurato era già pensionato al momento del decesso e di pensione indiretta qualora l’assicurato lavorasse ancora al momento del decesso.


La pensione ai superstiti spetta:


-al coniuge anche se legalmente separato mentre se già divorziato avrà diritto solo se beneficiario di un assegno divorzile;


-ai figli sino a 26 anni se studenti universitari, sino a 21 anni, se studenti delle superiori, altrimenti sino alla maggiore età, o senza limiti di età se inabili;

– in mancanza, ai genitori over 65 senza pensione o ai fratelli ed alle sorelle inabili.

Le quote della pensione di reversibilità sono differenti a seconda del numero dei concorrenti: ecco il link dell’Inps che compendia gli importi dovuti.

 

pensione reversibilità
A chi spetta la pensione di reversibilità?

 

Ulteriore requisito affinchè possa essere riconosciuta la pensione di reversibilità ai familiari diversi dal coniuge, è la cd. “vivenza a carico” del defunto che si presume per i figli minori mentre negli altri casi dovrà essere provata.


La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 651 del 15.01.2019, ha chiarito quali siano i criteri per l’accertamento del requisito della “inabilità” richiesto ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità ai figli superstiti del lavoratore o del pensionato.


L’accertamento di tale requisito, infatti, deve essere effettuato in modo concretoossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto, in modo da verificare, anche nel caso del mancato raggiungimento di una riduzione del cento per cento della astratta capacità di lavoro, la permanenza di una capacità dello stesso, di svolgere attività idonee nel quadro dell’art. 36 Costituzione e tali da procurare una fonte di guadagno non simbolico


Più semplicemente,dovremo parlare di inabilità ogni qualvolta le residue capacità lavorative siano talmente esigue da consentire solo lo svolgimento di operazioni elementari, di “un’attività del tutto priva di produttività, oltre che in perdita economica” esercitata esclusivamente all’interno di strutture protette, con esclusione di qualsiasi apprezzabile fonte di guadagno.

 

pensione superstiti


Quanto al requisito della cd. “vivenza a carico”, sarà sufficiente dimostrare che il genitore abbia integrato il reddito del figlio, perché inidoneo a garantire il suo sostentamento.


La Corte di Cassazione, sez. VI Civile, con l’ordinanza n. 26642 del 17.12.2014  ha precisato, infatti, che la cd. “vivenza a carico” non deve necessariamente tradursi in una forma di convivenza o in una situazione di “totale soggezione finanziaria” da parte del figlio essendo necessario, invece, che il genitore deceduto abbia, in vita, offerto un contributo economico prevalente e decisivo per il mantenimento del figlio superstite.


In pratica, l’accertamento della “vivenza a carico” non risulta legato al solo profilo della coabitazione o della totale soggezione economica, ma anche ad ulteriori elementi quali il mancato svolgimento di attività lavorativa da parte dell’aspirante alla pensione e la risalenza della coabitazione.

 

 

 

 

 

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A chi spetta la pensione di reversibilità?

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: è possibile?

 

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: è possibile?

 

Come noto, l’art. 40 della Legge L. 28 febbraio 1985, n. 47, prevede che gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali sono nulli qualora l’immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia, e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione.

La giurisprudenza ha chiarito che l’atto è nullo anche quando l’immobile sia caratterizzato da totale difformità della concessione e manchi la sanatoria.

 

Nel caso in cui, invece, l’immobile, munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità, non annullati nè revocati, abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione (nella specie, per la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile), non sussiste alcuna preclusione alla stipulazione del rogito notarile.

 

Vendita fabbricato parzialmente abusivo: possibile se l’abuso non riveste caratteristiche essenziali

 

Ciò è quanto ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 32225/19 che ha esaminato il caso in cui vi era la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile ed ha quindi ritenuto che fosse lecitamente commercializzabile.

 

Ma come si può stabilire se vi è totale o soltanto parziale difformità dalla concessione edilizia?

 

Un aiuto viene offerto dall’art. 32 del Testo Unico in materia di edilizia (DPR 380 del 2001) che elenca quali siano le variazioni essenziali rispetto al progetto approvato.


In particolare, tale articolo stabilisce che “l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni“:

a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968;

b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;

c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;

d) mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito;

e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.

 

comunicazione inizio lavori in sanatoria

 

Il secondo comma dell’art. 32 stabilisce poi che “non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative“.

 

In sostanza, secondo quest’ultima disposizione, non possono dar luogo a totale difformità le modifiche interne che non comportano aumento di volume o superficie ma danno luogo soltanto ad una diversa distribuzione interna degli spazi.

 

 

 

 

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Vendita fabbricato parzialmente abusivo

Benefici fiscali Legge dopo di noi: se la disabilità grave è riconosciuta successivamente all’istituzione del trust?

 

Benefici fiscali legge dopo di noi: anche se la disabilità grave è riconosciuta dopo l’atto istitutivo del trust?

 

Ringraziamo la collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

 

Con provvedimento n. 513 dell’11.12.2019, l’Agenzia delle Entrate ha risposto all’interpello presentato dal genitore di un ragazzo con disabilità interessato a conoscere quali requisiti dovessero sussistere per poter fruire dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e sulle donazioni, nel caso di beni e diritti conferiti in trust a soggetti con disabilità.


La legge n. 112 del 22.06.2016, meglio nota come Legge sul Dopo di Noi, prevede, infatti, che i beni e i diritti conferiti in trust istituiti in favore di persone con disabilità grave siano esenti dall’imposta sulle successioni e donazioni.


La possibilità di accedere a tali esenzioni ed agevolazioni è subordinata all’accertamento della grave disabilità, secondo quanto previsto dall’articolo 3, comma III, della legge 104/1992.

 

dopo di noi

 

La possibilità di beneficiare dell’esonero dalle imposte sulle successioni e donazioni, così come dell’applicazione dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa, si applicherà, inoltre, nel rispetto delle seguenti condizioni:


• istituzione del trust con atto pubblico;


• individuazione nell’atto istitutivo, in modo chiaro ed univoco, dei soggetti coinvolti e dei rispettivi ruoli, dei bisogni specifici delle persone con disabilità grave nonché delle attività assistenziali necessarie a garantire la cura e la soddisfazione dei bisogni delle persone assistite;


• individuazione nell’atto istitutivo degli obblighi e delle modalità di rendicontazione a carico del trustee;


• il patrimonio conferito nel trust deve essere destinato esclusivamente alla realizzazione delle finalità assistenziali del trust;


• individuazione nell’atto istitutivo del soggetto preposto al controllo delle obbligazioni imposte all’atto dell’istituzione del trust;


• previsione nell’atto istitutivo del termine finale della durata del trust (…) nella data della morte della persona con disabilità grave;


• previsione nell’atto istitutivo della destinazione del patrimonio residuo.

 

L’interpello proposto dal padre del ragazzo con disabilità richiedeva risposta al seguente quesito: è possibile richiedere i benefici fiscali legge dopo di noi  prima che sia accertato lo stato di grave disabilità?

 

legge dopo di noi benefici fiscali
Benefici fiscali legge dopo di noi: la risposta dell’Agenzia dell’Entrate per disabilità grave accertata successivamente al conferimento

 

Nonostante, infatti,  la necessità di entrambi i presupposti per beneficiare delle agevolazioni del “dopo di noi” – l’inserimento nell’atto istitutivo del trust delle clausole riportanti le condizioni sopra riportate e lo stato di grave disabilità –  non è specificato che tali presupposti debbano entrambi sussistere sin dal momento costitutivo. Se ne dedurrebbe che la sopravvenienza di uno dei presupposti e nello specifico della disabilità grave conduca all’applicazione del regime agevolato per gli atti di dotazione successivi a tale sopravvenienza.

 

La risposta dell’Agenzia delle Entrate è stata chiarissima: l’atto di dotazione contestuale alla costituzione del trust non può usufruire delle  agevolazioni previste dalla legge n. 112 del 2016, qualora al beneficiario non sia ancora stato riconosciuto uno stato di disabilità grave.

 

Ottenuto il riconoscimento dello stato di disabilità grave di cui alla legge n. 104 del 1992, e ove la certificazione stessa attesti che lo stato di disabilità grave sussisteva alla data di istituzione del trust, il contribuente istante potrà chiedere il rimborso dell’importo pari alla differenza tra l’imposta pagata al momento della dotazione iniziale di beni del trust e l’imposta prevista per i conferimenti ed i trasferimenti di beni in favore del trust



 

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Esenzione d’imposta legge dopo di noi

CILA in sanatoria: è possibile e quanto costa?

 

CILA in sanatoria: è possibile e quanto costa?

 

La Legislazione nazionale permette di presentare la Comunicazione Inizio Lavori se gli interventi ricadono nella manutenzione straordinaria: sempre che non vi siano interventi strutturali o non vengano cambiati i parametri urbanistici.

 

Generalmente i lavori di manutenzione straordinaria sono quelli in cui si determina una nuova distribuzione degli spazi interni senza modifiche delle facciate o dei volumi.

 

Ai sensi dell’art. 6 bis del Testo Unico in materia di ediliziaL’interessato trasmette all’amministrazione comunale l’elaborato progettuale e la comunicazione di inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato, il quale attesta, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché che sono compatibili con la normativa in materia sismica e con quella sul rendimento energetico nell’edilizia e che non vi è interessamento delle parti strutturali dell’edificio; la comunicazione contiene, altresì, i dati identificativi dell’impresa alla quale si intende affidare la realizzazione dei lavori“.

 

Alla conclusione dei lavori, nel caso in cui ci sia stata una modifica della distribuzione interna, va predisposta la procedura DOCFA per la variazione catastale

 

comunicazione inizio lavori in sanatoria
Cila in sanatoria: quando e quanto?

 

Ma cosa accade se si fanno i lavori senza fare la comunicazione?

 

Sempre l’art. 6 bis, al 5° comma, prevede che “La mancata comunicazione asseverata dell’inizio dei lavori comporta la sanzione pecuniaria pari a 1.000 euro. Tale sanzione è ridotta di due terzi se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando l’intervento è in corso di esecuzione“.

 

Oltre alla multa è necessario pagare un tecnico abilitato per la presentazione della pratica e per l’eventuale variazione catastale.

 

Piu che di CILA in sanatoria sarebbe più corretto parlare di CILA postuma o tardiva. Infatti, nei casi di mancata comunicazione tempestiva della CILA non viene sanzionato l’abuso edilizio, che non c’è, ma viene sanzionata la mancata presentazione della formalità.

 

A parte la multa, in caso di mancata presentazione della comunicazione, i problemi maggiori si avrebbero in caso di  compravendita dell’immobile.

 

Infatti, in caso di vendita dell’ immobile, per un rogito sicuro, è necessario garantire la conformità edilizia dell’immobile.

I  lavori effettuati all’interno dell’abitazione effettuati senza comunicazione e senza la successiva variazione catastale potrebbero comportare la mancanza di conformità e rendere difficoltoso il rogito ed anche l’accensione di mutui.

 

 

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CILA in sanatoria

Decadenza vincolo espropriativo: quali conseguenze?

 

Decadenza vincolo espropriativo: nessuna reviviscenza delle  precedenti destinazioni

 

L’art. 9 del Testo Unico sulle espropriazioni (DPR 327/2001) stabilisce che “un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità“.

 

Il secondo comma dell’articolo in esame stabilisce poi che “il vincolo preordinato all’esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera“.

 

Al riguardo, va osservato che i vincoli urbanistici si dividono sostanzialmente in due categorie: quelli ablativi e quelli di tipo conformativo.

 

I vincoli ablativi sono quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, fino alla privazione dello jus aedificandi

 

I vincoli conformativi sono quelli che non comportano la perdita definitiva della proprietà privata, ma impongono limitazioni e condizioni restrittive agli interventi edilizi in funzione degli obiettivi di tutela dell’interesse pubblico (Es: vincolo paesaggistico, forestale, idrogeologico, rischio idraulico, fascia elettrodotto, ecc).

 

vincolo espropriativo non rinnovato
Decadenza vincolo espropriativo: quali conseguenze?

 

Ora, l’art. 9 si riferisce soltanto ai vincoli ablativi che hanno una durata di cinque anni da quando vengono previsti dallo strumento urbanistico (mentre quelli conformativi sono a tempo indeterminato).

 

Ma che cosa accade se entro il quinquennio non viene emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera?

 

Il comma 4 dell’art. 9 stabilisce che “il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti al comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard“.

 

Ma se il vincolo non viene reiterato, che cosa accade all’area interessata?

 

Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa (si veda ad esempio Consiglio di Stato, sentenza 28 novembre 2019, n. 8125) “la decadenza del vincolo espropriativo, tuttavia, non comporta, di per sé, il riespandersi delle precedenti destinazioni di zona. Alla decadenza dello stesso per inutile decorso del tempo non si verifica, infatti, alcuna reviviscenza della pregressa destinazione. L’inutile decorso di un quinquennio, in difetto di una legittima reiterazione, ne comporta quindi la decadenza, ma l’area già vincolata non riacquista automaticamente l’antecedente sua destinazione urbanistica, ma si configura come area non urbanisticamente disciplinata, ossia come c.d. zona bianca. Rispetto a tali zone, allorché cessino gli effetti dei preesistenti vincoli, l’Amministrazione comunale deve esercitare la sua discrezionale potestà urbanistica, attribuendo agli stessi una congrua destinazione, eventualmente anche a seguito di una istanza degli interessati volta ad ottenere l’emanazione degli atti necessari a conferire una nuova destinazione urbanistica all’area divenuta priva di disciplina“.

 

 

 

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decadenza vincolo espropriativo

Se l’ex coniuge si licenzia dal lavoro perde il diritto all’assegno divorzile

 


Lo ha ribadito una recente sentenza della Corte di Cassazione: se l’ex coniuge si licenzia perde il diritto all’assegno divorzile.

 

 

Chi è causa del suo mal pianga se stesso”.

 


Vale anche per la vita matrimoniale.

Vale anche dopo il matrimonio.


Nello statuire circa le condizioni divorzili, il Tribunale deve verificare se vi sia l’obbligo di un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno.


La valutazione del giudicante deve concentrarsi su alcune precise considerazioni:


– il coniuge richiedente l’assegno ha mezzi adeguati?


– Se non li ha, può oggettivamente procurarseli?


Qualora entrambe le risposte fossero negative, potrà essere statuito un contributo, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio.

 

assegno divorzile: quando/quanto?


Ipotesi


La giovane Tizia, moglie di Caio, dopo la separazione cambia vita: si trasferisce nel paese ove vivono i suoi genitori, abbandonando il proprio lavoro e rimanendo priva di occupazione.


In sede di divorzio chiede un contributo mensile al marito, sulla scorta di non aver di che vivere.


Quest’ultimo si costituisce, chiedendo il rigetto delle istanze dell’ex coniuge.

Il tribunale, in prima battuta, accoglie la domanda di Tizia, disponendo un assegno divorzile in suo favore.


La Corte d’appello, in sede di impugnazione, riforma la sentenza di primo grado e revoca tale contribuzione, rilevando che la richiedente sia ancora in giovane età, con piena capacità lavorativa e ritenendo conseguentemente che uno stato di bisogno che giustifichi il contributo al mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussista perchè, semmai esistente, esso è stato causato da una precisa volontà di Tizia che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue esigenze personali.


Tesi


La Corte di Cassazione ha posto l’accento sulla circostanza secondo cui la legge riconosce l’assegno divorzile al coniuge che non abbia mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive.


Nel caso di specie, era stato correttamente rilevato che l’impossibilità, semmai esistente, di procurarsi i mezzi adeguati non dipendesse da incapacità lavorativa o da fattori esterni alla volontà della coniuge richiedente l’assegno ma dalla libera scelta di Tizia, che aveva deciso di abbandonare l’occupazione lavorativa che le assicurava un reddito fisso.

 

se l'ex coniuge si licenzia perde il diritto all'assegno divorzile
se l’ex coniuge si licenzia perde il diritto all’assegno divorzile

 

Conclusione


La decisione di revocare l’assegno divorzile deve ritenersi conforme alle prescrizioni di legge, tenuto anche conto che Tizia non aveva nemmeno dato prova di aver dato un particolare contributo alla formazione del patrimonio familiare e alla cura della famiglia ovvero un sacrificio delle sue aspettative lavorative in funzione delle esigenze familiari.

 

Se l’ex coniuge si licenzia perde il diritto all’assegno divorzile: chi è causa del suo mal, pianga se stesso, per l’appunto.

 

La sentenza: Corte di Cassazione, n. 26594/2019 

 

 

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perdita assegno divorzile

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Disabilità: mancata attuazione progetto individuale costituisce illecito amministrativo risarcibile

 

Mancata attuazione progetto individuale: il danno va risarcito

 

Si ringrazia la collega, Avv. Stefania Cerasoli, per il prezioso contributo.

 

L’art. 14 della Legge 08.11.2000 n. 328 prevede che “per realizzare la piena integrazione delle persone disabili, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale”.

In particolare, questo piano comprende “oltre alla valutazione diagnostico-funzionale o al Profilo di funzionamento, le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, il Piano educativo individualizzato a cura delle istituzioni scolastiche, i servizi alla persona a cui provvede il comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, nonché le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale”.

 

mancato rispetto pai

Si tratta di un intervento molto importante in quanto ha il fine di garantire un miglioramento della qualità della vita della persona con disabilità.

E non darvi attuazione, una volta stabiliti gli interventi e redatto il progetto individuale, costituisce un illecito amministrativo.

Il genitore di una minore con handicap grave aveva richiesto ed ottenuto la redazione di un progetto individuale ex art. 14 legge 328/00.

Tale progetto, nonostante il suo accoglimento, non era mai stato concretamente attuato dal Comune e dalla Usl locale.

 

mancata attuazione progetto individuale: condanna al risarcimento del danno e all’esecuzione del programma

Il Tribunale di Marsala, con la sentenza n. 3666 del 12.04.2019, ha condannato il Comune di residenza della minore con disabilità al pagamento, non solo dei danni patrimoniali subiti dalla madre (che aveva sostenuto delle spese per il servizio di educativa domiciliare privato che dovevano, invece, essere erogate gratuitamente) ma anche di quelli non patrimoniali subiti dalla minore consistenti “nella violazione di interessi fondamentali attinenti alla persona e, in particolare, al diritto della minore medesima alla effettività dell’integrazione nel contesto sociale di riferimento per l’utente “.

E questo perchè “una volta definito l’iter procedimentale con la predisposizione del PAI e l’individuazione dei servizi sorge il diritto ad ottenere la concreta erogazione delle prestazioni pianificate”.

 

Fermo, ci mancherebbe, l’obbligo di dare concreta esecuzione alle prestazioni indicate nel PAI.

 

 

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mancata attuazione progetto individuale

Le responsabilità del proprietario di sito inquinato

Quali sono le responsabilità del proprietario di sito inquinato?

 

L’obbligo di bonifica dei siti inquinati grava solo sul responsabile dell’inquinamento in forza del consolidato principio “chi inquina paga“.

Pertanto, una volta riscontrato un fenomeno di contaminazione, i conseguenti interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento: soggetti che possono essere diversi dal proprietario dell’area.

 

 responsabilità del proprietario di sito inquinato
responsabilità del proprietario di sito inquinato

Secondo la giurisprudenza, il proprietario che non è responsabile dell’inquinamento, è tenuto ad adottare soltanto le misure di prevenzione come previsto dall’art. 245, comma 2, del d. lgs n. 152/2006.

Secondo tale disposizione “il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione che, secondo la definizione data dall’art. 240 D.lgs 152 sono quelle iniziative adottate “per contrastare un evento un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia“.

Gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e sicurezza gravano invece soltanto sul responsabile della contaminazione, cioé sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento.

 

proprietario sito inquinato

 

Il sopra citato art 245 comunque riconosce “al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità.

Anche la giurisprudenza, in una recente sentenza (TAR Trentino Alto Adige, n. 154 del 15 novembre 2019) ha confermato la differente disciplina prevista per il proprietario dell’area che non ha inquinato e quella prevista per il responsabile dell’inquinamento.

Infatti, ha statuito che “la previsione dell’obbligo di porre in essere le suddette procedure operative e amministrative in capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e la previsione di una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro comporta che l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga”) e non sul proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in tutto o in parte, la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.

 

 

 

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