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Autore: Studio Legale Berto

Detrazione Iva per attività esente: chi svolge un’attività esente da IVA, non può esercitare il diritto alla detrazione della stessa.

 

 

Detrazione Iva per attività esente: esclusa la possibilità di rimborsi.

 

 

La Corte di Cassazione, con l’ ordinanza n. 16443 2019,  ha recentemente affrontato il caso di un contribuente esercente attività medica che aveva presentato istanza di rimborso avente ad oggetto l’IVA corrisposta sugli acquisti di beni strumentali a prestazioni sanitarie con finalità di cura alla persona: prestazioni, queste ultime, che ricadono nel regime di esenzione dell’imposta.

 

A fronte del rigetto dell’Amministrazione finanziaria il contribuente ricorreva in giudizio, ma i giudici, di primo e secondo grado, respingevano il ricorso.

 

Il medico ricorreva quindi in Cassazione, sostenendo che dovrebbero essere esenti da IVA tutti gli acquisti di beni effettuati da un soggetto che pone in essere operazioni esenti, con conseguente obbligo di rimborsargli l’imposta eventualmente addebitatagli.

 

detrazione iva per attività esente

 

La Corte ha però rigettato il ricorso, affermando la conformità con il diritto dell’Unione europea della normativa che nega il diritto alla detrazione dell’IVA assolta per l’acquisto di beni afferenti operazioni esenti.

 

La Corte Europea, infatti, ha affermato che il diritto alla detrazione dell’IVA riguarda soltanto i beni ed i servizi che vengono utilizzati ai fini delle operazioni del soggetto passivo assoggettate ad imposizione.

 

Per la Cassazione la previsione di esenzione si riferisce alla fase della rivendita dei beni che sono stati utilizzati per l’esercizio di attività esenti da IVA e non alla fase di acquisto di tali beni da parte del soggetto che pone in essere le operazioni esenti.

 

In sostanza, il meccanismo di esenzione trova applicazione a favore di coloro che – non avendo potuto detrarre l’IVA corrisposta al momento dell’acquisto del bene in ragione di specifiche ragioni di indetraibilità – successivamente decidono di rivendere a terzi detto bene.

 

 

 

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Tributario: il capitale del mutuo deve essere detratto dalla spesa imputata a reddito?

Il capitale del mutuo deve essere detratto dalla spesa imputata a reddito?

In un recente caso preso in esame dalla Corte di Cassazione, l’Amministrazione Finanziaria aveva determinato un maggior reddito derivante dall’acquisto di un fabbricato, con contestuale stipulazione di un mutuo ipotecario per valore pari al prezzo.

La Corte, con la sentenza n. 19192 del 2019 ha rilevato al riguardo che, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali ed il contribuente deduca e dimostri che tale tale spesa sia giustificata dall’accensione di un mutuo, la prova contraria a carico del contribuente richiesta può essere assolta mediante la produzione del contratto di mutuo, idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale delle somme utilizzate per l’acquisto del bene.

La Corte di Cassazione ha chiarito che l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, ritenendo, tuttavia, sufficiente la prova della sussistenza del mutuo, senza la necessità di dover dimostrare anche le motivazioni dell’erogazione e le garanzie che la supportano.

Secondo il giudice, il mutuo non esclude ma diluisce la capacità contributiva: ne consegue che il capitale mutuato deve essere detratto dalla spesa accertata e imputata a reddito, mentre devono essere aggiunti a essa i ratei maturati e versati per ogni annualità

Pubblicare foto dei figli minori sui social: deve esserci il consenso dei genitori.

 


Non è possibile pubblicare foto dei figli minori sui social se i genitori siano dissenzienti.


I bambini sono senza passato ed è questo tutto il mistero dell’innocenza magica del loro sorriso.
(Milan Kundera)

 


I bambini sono senza passato, sono fogli bianchi, immacolati, senza malizia, senza pregiudizi, senza ambiguità.


Proprio tale loro caratteristica crea un fascino particolare, che si cerca di fissare, cristallizzare nella memoria, anche tramite immagini, foto che lascino traccia di qualcosa che è stato e che mai più sarà.

Il problema – definiamolo tale, ma per alcuni è tutt’altro – è che ai giorni d’oggi si è portati a condividere le proprie emozioni, i propri orgogli, gli attimi significativi della vita quotidiana su portali telematici, forum d’incontri, social network, affinchè una moltitudine di persone possa cogliere ed apprezzare attimi che, una volta, erano riservati alla nostra intimità ed erano confinati nelle cerchia ristretta dell’ambito familiare.

Veniamo al dunque.

 

 

foto minorenni social

 

E’ possibile pubblicare foto dei figli minori sui social senza alcuna accortezza specifica, o è necessario che vi sia l’accordo dei genitori su tale iniziativa?

 

Ce lo chiediamo partendo da un esempio, che– guarda caso – è stato oggetto di una recentissima pronuncia del Tribunale di Rieti.

Moglie e marito separati, con figli.


Lui si fa una nuova vita, ma la compagna – forse colta da eccessivo zelo, forse da rancore e dissapore verso la moglie del suo amore – pubblica continuamente foto dei figli del partner, accompagnati da commenti non proprio lusinghieri sulla loro madre.


In sede divorzile, gli ex coniugi concordano che la pubblicazione delle foto dei figli minori sia consentita solo dai genitori e non da terze persone.


Circostanza puntualmente disattesa in seguito dalla nuova fiamma del marito che continua a pubblicare foto e commenti.


La madre ricorre in Tribunale per chiedere un provvedimento d’urgenza e far cessare la condotta asseritamente lesiva della donna.


Il Giudice Rietino fa il punto della situazione con la pronuncia che ha accolto le istanze materne.

 

foto minori sui social

 


Innanzitutto, occorrerà fare riferimento ad una disposizione del codice civile – art. 10 cc. – che stabilisce che “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”.


Tale disposizione va ragguagliata ed integrata con quelle rinvenibili in materia di privacy e trattamento dati personali.


In particolare, il nuovo Regolamento UE n. 679/2016 – Regolamento generale per la protezione dei dati personali, entrato in vigore il 25.05.2018 – stabilisce che “i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali”.

In forza di tale considerazione, è stabilito che “per quanto riguarda l’offerta diretta di servizi della società dell’informazione ai minori, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni. Ove il minore abbia un’età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale. Gli Stati membri possono stabilire per legge un’età inferiore a tali fini purché non inferiore ai 13 anni”.


Quindi per poter trattare i dati personali – e le immagini dei figli sono tali – di un minore è necessario il suo consenso, purchè abbia almeno 16 anni. Se ne abbia di meno, il consenso dovrà essere prestato dal genitore che ne eserciti la relativa responsabilità.


Il nostro legislatore ha fissato il limite di età da applicare in Italia a 14 anni, espressamente prevedendo che, con riguardo ai servizi della società dell’informazione, il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a quattordici anni è lecito a condizione che sia prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale.


Il più delle volte, la responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori, per cui il loro consenso è indifferibile rispetto l’eventuale pubblicazione delle foto dei figli sui social.


Va notato, al riguardo, che la responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.
In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice.
Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente (art. 337 ter cc).


Sul punto, andrà valutato se l’inserzione di immagini della prole su internet costituisca questione di ordinaria amministrazione oppure “di maggiore interesse” per i figli.


Certo è che, nel caso di specie, i genitori avevano inteso sciogliere anticipatamente il dilemma, espressamente convenendo di precludere il consenso alla pubblicazione delle foto da parte di terzi.

 

foto social network
pubblicare foto dei figli minori sui social: ci vuole il consenso dei genitori

 


Il Tribunale di Rieti ha concluso la propria pronuncia con un’ulteriore considerazione.


La pubblicazione delle foto dei figli sui social può essere pericolosa in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet.


“Il web, infatti, consente la diffusione dati personali e di immagini ad alta rapidità, rendendo difficoltose ed inefficaci le forme di controllo dei flussi informativi ex post”.


Come annotato in precedente giurisprudenza, infatti, “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia […] il pregiudizio per il minore è dunque insito nella diffusione della sua immagine sui social network

 

 

 

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Rifiuto cure da parte dell’Amministratore di sostegno: ci vuole un potere ad hoc

 

 

La Corte Costituzionale si pronuncia sul tema del rifiuto cure da parte dell’amministratore di sostegno e circoscrive il perimetro dei poteri che gli sono attribuiti dalla legge

 

 

Ringraziamo la Collega Stefania Cerasoli per il prezioso contributo.

 

 

Come è noto, la recente legge n. 217/2019 – cd testamento biologico – statuendo che ” nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge“, ha riconosciuto la possibilità per “ogni persona capace di agire” di rifiutare, in tutto o in parte .. qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso“.

In buona sostanza, è possibile rifiutare le cure, anche se siano essenziali per la propria sopravvivenza, purchè tale determinazione sia frutto di una libera e consapevole scelta del disponente, maggiorenne, capace di agire, di intendere e di volere.

 

E chi non sia più pienamente capace?

 

Se in passato abbia manifestato con le D.A.T. (disposizioni anticipate di trattamento) le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, queste determinazioni andranno rispettate ed il medico sarà vincolate ad esse, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte,  qualora  appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

 

 

Per chi non avesse disposto D.A.T., la legge ha statuito che il consenso o il rifiuto delle cure sia prestato dal rappresentante della persona incapace: il tutore per l’interdetto, colui che eserciti la responsabilità genitoriale per il minore, l’amministratore di sostegno.

Su tale previsione, tuttavia, si è aperta un’intensa discussione, giuridica e morale.

 

Rifiuto cure da parte dell’Amministratore di sostegno

 

Ci si è interrogati se un Amministratore di sostegno, eventualmente investito dal Giudice Tutelare, come spesso avviene, del potere di rappresentanza in materia di prestazione del consenso informato a trattamenti sanitari, potesse spingersi addirittura a rifiutare le cure per il proprio assistito, intervenendo – direttamente o indirettamente – nel percorso clinico e vitale dello stesso.

 

Il Giudice Tutelare di Pavia ha investito della problematica la Corte Costituzionale, sollevando la questione di legittimità della suddetta legge nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la  rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.

 

 

Nella fattispecie, all’amministratore di sostegno, già nominato circa una decina di anni prima, non era stata attribuita alcuna rappresentanza in ambito sanitario.


Dal momento che il beneficiario si era venuto a trovare successivamente in stato vegetativo, il tribunale di Pavia aveva ritenuto necessario integrare il decreto di nomina, prevedendo anche poteri in ambito sanitario.


Tuttavia, secondo il giudice tutelare, la norma di cui all’art. 3 della legge n. 219/2017, quando stabilisce che l’amministratore di sostegno con potere di rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, verrebbe a violare gli articoli 2, 3, 13, 32 della Costituzione.


In particolare, secondo il Giudice Tutelare, una tale ampia e generica attribuzione di poteri verrebbe ad attribuire all’ADS sostanzialmente “il potere di decidere della vita e della morte dell’amministrato”, senza alcun sindacato da parte dell’autorità giudiziaria.

 

 


Il rifiuto delle cure deve corrispondere alla volontà dell’interessato e dei suoi orientamenti esistenziali: l’amministratore non deve decidere né al posto dell’incapace, né per l’incapace, perché rifiutare le cure è un diritto personalissimo.


Quindi, o la decisione sul rifiuto delle cure risulti dalle DAT o, in mancanza, dovrà essere ricostruita la volontà dell’incapace, mediante indici sintomatici, di elementi presuntivi, o con l’audizione di conoscenti dell’interessato o strumenti di altra natura.


Secondo la Corte Costituzionale si tratta di un presupposto interpretativo erroneo.


Come abbiamo avuto già modo di affermare, (post) l’amministrazione di sostegno è un istituto “duttile, suscettibile di essere plasmato dal giudice sulla necessità del beneficiario” ed avente ad oggetto “le sole categorie di atti al cui compimento l’amministratore sia ritenuto idoneo”.


Del resto l’amministrazione di sostegno, a differenza dell’interdizione e dell’inabilitazione, si propone di “limitare nella minore misura possibile la capacità di agire della persona”.


Alla luce di tali precisazioni, si può affermare che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, le norme censurate non attribuiscono ex lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, anche il potere di esprimere o no il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale.


Nella logica del sistema dell’amministrazione di sostegno, è il giudice tutelare che, con il decreto di nomina, individua l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario.


Spetta al giudice, quindi, il compito di individuare e circoscrivere i poteri dell’amministratore, anche in ambito sanitario, nell’ottica di apprestare misure volte a garantire la migliore tutela della salute del beneficiario, tenendone pur sempre in conto la volontà, come espressamente prevede l’art. 3, comma 4, della legge n. 219 del 2017.

 

Rifiuto cure da parte dell’amministratore di sostegno: deve essere investito di specifico potere dal Giudice Tutelare

 

 


Le misure di tutela, quindi, non possono non essere dettate in base alle circostanze del caso di specie e, dunque, alla luce delle concrete condizioni di salute del beneficiario, dovendo il giudice tutelare affidare all’amministratore di sostegno poteri volti a prendersi cura del disabile, più o meno ampi in considerazione dello stato di salute in cui, al momento del conferimento dei poteri, questi versa.


La specifica valutazione del quadro clinico della persona, nell’ottica dell’attribuzione all’amministratore di poteri in ambito sanitario, tanto più deve essere effettuata allorché, in ragione della patologia riscontrata, potrebbe manifestarsi l’esigenza di prestare il consenso o il diniego a trattamenti sanitari di sostegno vitale: in tali casi, infatti, viene a incidersi profondamente su “diritti soggettivi personalissimi”, sicché la decisione del giudice circa il conferimento o no del potere di rifiutare tali cure non può non essere presa alla luce delle circostanze concrete, con riguardo allo stato di salute della persona con disabilità in quel dato momento considerato.


La ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, pertanto, richiede al giudice tutelare di modellare, anche in ambito sanitario, i poteri dell’amministratore sulle necessità concrete del beneficiario, stabilendone volta a volta l’estensione nel solo interesse del disabile.


L’adattamento dell’amministrazione di sostegno alle esigenze di ciascun beneficiario è, poi, ulteriormente garantito dalla possibilità di modificare i poteri conferiti all’amministratore anche in un momento successivo alla nomina, tenendo conto, ove mutassero le condizioni di salute, delle sopravvenute esigenze del beneficiario.


La Corte Costituzionale conclude arrivando a negare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita.


Le norme censurate, infatti, si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda.

 

La sentenza della Corte Costituzionale  n. 144 del 13.06.2019

 

 

 

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Cessione della casa familiare in sede di separazione per sottrarsi ai debiti? Là dove l’ingegno non sfugge alla legge.

 


Fraudolenta cessione della casa familiare in sede di separazione per sottrarsi ai debiti: quali rimedi di legge?

 

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

 

 

La crisi aguzza l’ingegno.


Laddove soffi il vento della necessità, quasi per atavico istinto di sopravvivenza, l’uomo è spinto a difendersi e ad attuare quanto possibile per procacciarsi ciò che è necessario alla sussistenza.


Vogliamo leggere così, in un’ottica interpretativa, la sempre più diffusa prassi di escogitare nuove (ma neanche tanto) vie per sottrarsi alle azioni esecutive dei creditori da parte di soggetti indebitati sino al collo.


Siamo in difficoltà? Separiamoci.


Ecco un percorso alternativo: non per crisi coniugale, ma per crisi economica.


Analizziamo due casi tipo.


1. Marito e moglie, due cuori e tanti debiti.


Per impedire ai creditori di attingere al loro bene principale, la casa, procedono alla separazione, chiedendo che il giudice disponga l’assegnazione dell’abitazione ad uno di essi, verosimilmente a colui presso il quale i figli saranno prevalentemente collocati.


Tutto a posto?


Anche no.

Ci eravamo soffermati sulla questione un paio d’anni fa, (questo è il post).

Se antecedentemente all’assegnazione della casa i creditori avevano iscritto ipoteca su tale bene, il successivo pignoramento potrà prevalere sul provvedimento separativo, in quanto l’antecedente trascrizione della garanzia è sufficiente per conseguire il diritto di precedenza delle ragioni creditorie.


Diversamente, se i creditori non fossero stati celeri a tutelare i loro diritti e i coniugi avessero trascritto il provvedimento di assegnazione prima di ipoteche e pignoramenti, dovranno mettersi in coda ed attendere che si esaurisca il (lungo) periodo di compimento della disposizione effettuata in sede di separazione.

 

 


2 Marito e moglie: il primo naviga in cattive acque e sente il fiato dei creditori sul collo.


In sede di separazione, per regolamentare i rispettivi rapporti patrimoniali, cede la propria quota di immobile, (potrebbe trasferirlo anche tutto), alla consorte.


Ipotesi frequente nei procedimenti in materia di famiglia.


Come la mettiamo in questo caso? I creditori dovranno “attaccarsi al tram” o potranno invocare qualche tutela?


Dipende.


La spiegazione potrebbe essere un po’ impegnativa, ma vediamo di sintetizzare.


Generalmente, al creditore che si veda sottrarre dal proprio debitore possibili beni – mobili o immobili – su cui soddisfarsi per poter esercitare l’azione esecutiva – leggi pignoramento – è riconosciuta la possibilità di invocare l‘azione “revocatoria” di cui agli art. 2901 e ss. cc.


In buona sostanza, potrà chiedere che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni, quando concorrono le seguenti condizioni:
1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento ;
2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.


Cosa?


Se l’atto con cui il debitore si è spossessato del bene (da pignorare) era a titolo gratuito, basterà dimostrare il pregiudizio che ne è conseguito al creditore e la conoscenza di ciò da parte del soggetto indebitato.


Se, al contrario, il bene fosse stato ceduto verso la corresponsione di un corrispettivo, andranno tutelate anche le ragioni di chi i soldini per acquistarlo li ha impiegati: in questo caso il creditore dovrà dimostrare che il terzo acquirente fosse a conoscenza del pregiudizio che il trasferimento del bene avrebbe arrecato ad altri.

E qui campa cavallo, talvolta la prova è davvero ardua.

 

Bene, perchè questo panegirico?


Dobbiamo verificare se i creditori di quel marito che ha trasferito alla moglie la casa potrà essere riconosciuto il rimedio dell’azione revocatoria.


Dipende, abbiamo detto.


Dipende da come si potrà considerare detto trasferimento.

 

Cessione della casa familiare in sede di separazione per sottrarsi ai debiti: i presupposti per l’azione revocatoria

 


Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione fa il punto preciso della questione.


Gli ermellini considerano la cessione patrimoniale tra coniugi in ambito separativo come un evento che si sottrae alle classiche connotazioni dell’atto di donazione (gratuito) e dell’atto di compravendita (oneroso).


Tali attribuzioni possono assumere i colori di obiettiva onerosità, se volti a compensare una situazione di squilibrio patrimoniale venutasi a creare con la crisi coniugale oppure per adempiere ad obblighi (vedasi il mantenimento) che emergono in rilievo proprio con la separazione.


L’onerosità dell’attribuzione patrimoniale non può farsi discendere tout court dall’astratta sussistenza di un obbligo legale di mantenimento, ma può emergere dall’esigenza di riequilibrare o ristorare il contributo apportato da un coniuge al mènage familiare e non adeguatamente rappresentato dalla situazione patrimoniale formalmente in essere fino al momento della separazione.


Talvolta, in difetto di tali presupposti e giustificazioni, l’attribuzione patrimoniale può assumere il grado di liberalità ed erogazione gratuita.


Se ne trae la conseguenza – deduce la Suprema Corte – che la qualificazione dell’atto dispositivo per cui è causa come atto a titolo oneroso dipende dalla possibilità di ricondurlo, in concreto, ad una causa che, trovando titolo nei pregressi rapporti anche di natura economica delle parti e nella necessità di darvi sistemazione nel momento della dissoluzione del vincolo, giustifichi lo spostamento patrimoniale fra i coniugi”.


Vale a dire: tu marito che sostieni che la cessione della casa alla moglie in sede di separazione fosse stata fatta a titolo oneroso, per assolvere gli obblighi di mantenimento connaturati al nuovo regime venutosi a creare, mi devi dimostrare che ci fossero i presupposti per tale attribuzione, la quale – diversamente – potrà essere considerata a titolo gratuito, e quindi assoggettabile ad azione revocatoria senza la probatio diabolica della conoscenza, da parte del terzo cessionario, del pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori con il trasferimento del bene.

 

Risarcimento danni per mancato pagamento assegno di mantenimento

 


Nel caso di specie, il marito si era privato della propria quota di comproprietà della casa adibita a residenza familiare, assegnandola alla moglie a titolo di mantenimento una tantum; si era impegnato a corrisponderle un assegno mensile per il mantenimento del figlio minore; aveva trasferivo titoli obbligazionari ed azionari per Euro 53.022,22 alla moglie per il suo mantenimento e per quello del figlio minore; aveva trasferito alla consorte 2.750,00 in contanti, in quanto denaro personale di quest’ultima: in buona sostanza, si era di fatto spossessato di ogni suo bene, senza che ciò fosse necessario per assolvere ad i propri obblighi di padre e marito. Circostanza, vieppiù, anomala nell’ambito delle separazioni personali, spesso caratterizzate da aspra rivalità tra coniugi.


In ragione della ritenuta natura gratuita della cessione immobiliare intercorsa, i creditori potranno agire agilmente in revocazione, semplicemente dimostrando che il loro debitore fosse a conoscenza del pregiudizio che essi avrebbero conseguito dal trasferimento, senza dover fare i conti con le insidiose maglie delle ulteriori e fastidiose prove circa la ricorrenza di identico contegno da parte del terzo cessionario.

La sentenza: Cassazione Civile: n. 17908 / 2019  

 

 

 

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Affidamento figli genitori non sposati: quali regole?

 

 

Affidamento figli genitori non sposati: facciamo il punto.

 

Quand’ero piccolo i miei genitori hanno cambiato casa una decina di volte. Ma io sono sempre riuscito a trovarli.
(Woody Allen)

 

 


13 996 986.


Sono le coppie conviventi non sposate risultanti dall’ultimo censimento 


Tra queste, almeno il 63% hanno figli.


Sono numeri notevoli ed in continua evoluzione, data la crisi, ormai consolidata, dell’istituto nuziale.


Qualcuno, con sagace arguzia o scetticismo impertinente, ha sostenuto che il matrimonio sia il primo passo per il divorzio; certo è che pure per le coppie “di fatto” si presentano, in identica misura e proporzione, problemi relazionali talora irreversibili, tali da dover pervenire ad uno sciogliete le righe, senza che vengano a mancare dolorosi strascichi e problemi, anche legali, da prendere per mano.


Per i conviventi non si pongono talune questioni concernenti la soluzione del rapporto coniugale: vedasi, ad esempio, l’obbligo di assistenza materiale tra consorti, la resipiscenza di diritti successori tra coniugi all’esito della separazione e poi del divorzio, nonché possibili beni da dividere a seguito dello scioglimento della comunione legale.


Ed i figli?


Affidamento figli genitori non sposati: cambia qualcosa rispetto a quanto statuito per le famiglie “tradizionali”?


No e sì, potremmo dire.


No, dal punto di vista sostanziale, delle norme pratiche da applicare in punto di diritto.


Sì, dal punto di vista “procedurale”, giacchè ci si muove in ambiti estranei alla separazione coniugale.


Per espresso richiamo effettuato dalla legge, le disposizioni relative all’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione o divorzio si applicano anche ai procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio (art. 337 bis cc).


Tra tali disposizioni, va menzionato innanzitutto il diritto dei figli minori di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

 

affidamento figli genitori non sposati: identiche norme rispetto alla famiglia tradizionale

 


In caso di crisi, anche della coppia genitoriale non sposata, il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa.


Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.


Si tratta del cd affidamento condiviso, (337 ter cc) sul quale ci siamo soffermati più volte in passato, che attribuisce identica dignità ad entrambi i genitori nel prendere le decisioni, anche quelle più rilevanti, concernenti i figli.


La responsabilità genitoriale, infatti, è esercitata da entrambi i genitori.

Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.

In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice.

Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente.


Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore. (337 quater cc)


Anche in caso di scioglimento dell’unione di fatto tra genitori non sposati, si dovrà considerare come padre e madre dovranno contribuire al mantenimento dei figli.


Dopo aver stabilito i tempi di permanenza presso l’uno e l’altro, si dovrà verificare il rispettivo onere economico nei confronti dei figli, in misura proporzionale al proprio reddito.


Al riguardo, potrà essere concordata – o fissata dal giudice – la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:


1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore


Anche per le coppie non sposate, con figli minori o non autosufficienti, si può statuire l’assegnazione della casa familiare, attribuita tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli ed a prescindere da quale genitore ne sia proprietario (337 sexies), occorrendo soddisfare l’esigenza di assicurare loro la conservazione dell’ “habitat” domestico, ambiente sicuro nella tempesta di eventi venutasi a creare con la crisi tra genitori.

 


Figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dall’unione nuziale: identiche norme di merito, differente procedura giudiziale per le relative statuizioni.


Per i primi l’ambito naturale in cui dovrà intervenire la decisione sui provvedimenti attinenti la prole è il procedimento di separazione o divorzio.


Per i secondi si segue un ricorso ad hoc che, proprio sulla piattaforma giuridica appena accennata con riferimento agli art. 337 bis e seguenti del codice civile, statuirà sui provvedimenti concernenti i figli, con procedura più agile rispetto a quella separativa o divorzile.


Una volta depositato il ricorso, verrà fissato un termine per la notifica del ricorso alla parte resistente, che potrà depositare una memoria difensiva.


All’udienza, il giudice cercherà una composizione tra le rispettive posizioni, assumerà le opportune informazioni e si riserverà di riferire al collegio per la conseguente decisione.
Una circostanza rilevante è che, come nel giudizio di separazione o divorzio, anche nel procedimento indicato potranno essere ascoltati i figli di almeno dodici anni, o anche di meno, purchè capaci di discernimento.


I decreti del tribunale, reclamabili, potranno essere in ogni tempo essere revocati o modificati.

 

 

 

 

 

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Salta il rogito? Il mediatore ha diritto alla provvigione in caso di conclusione del contratto preliminare.

 

Anche se non si dovesse arrivare alla stipula di un contratto definitivo di compravendita, il mediatore ha diritto alla provvigione in caso di conclusione del contratto preliminare.

 

 

Provvigione mediatore contratto preliminare”.

 

 

Lo sappiamo.


Se vi siete affidati ad un agenzia immobiliare per vendere/acquistare un immobile, avrete probabilmente digitato queste quattro paroline per vedere di che morte morire.


Se sarete stati particolarmente tenaci con la ricerca, sarà comparso il riferimento all’art. 1746 cc. che testualmente recita “Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento


Bene.


A questo punto il busillis risiede su cosa si possa intendere per “affare concluso”.


Per capire la risposta dobbiamo concentrare il fuoco della nostra attenzione sull’altro inciso della norma richiamata “per effetto del suo intervento”.


Quando l’intervento del mediatore potrà essere considerato efficace al fine della conclusione dell’affare?


La giurisprudenza dà risposte granitiche ed uniformi.


Al fine del riconoscimento del diritto alla provvigione, è idonea anche l’esplicazione della semplice attività consistente nella ricerca ed indicazione dell’altro contraente o nella segnalazione dell’affare.


Ciò vuol dire che, perché sorga il diritto del mediatore al compenso, è sufficiente che la conclusione dell’affare possa ricollegarsi all’opera dallo stesso svolta per l’avvicinamento dei contraenti, purché, però, tale attività costituisca il risultato utile della condotta posta in essere dal mediatore stesso e, poi, valorizzata dalle parti (Cass. 20 dicembre 2005 n.28231; Cass.16dicembre2004n.23438) e sempre che la sua attività costituisca antecedente indispensabile al fine di pervenire alla conclusione del contratto secondo il principio della causalità adeguata (Cassazione n. 869/2018 )


Non solo.

 

Provvigione mediatore contratto preliminare

 


Anche se il mandato conferito sia stato a tempo, allorquando la successiva conclusione del contratto sia da ricondurre all’attività del mediatore, gli dovrà essere riconosciuta la provvigione. (Ecco il link al post durata-mandato-agenzia-immobiliare).


Sulla scorta di queste premesse arriviamo alla risposta al nostro quesito.


Quando possiamo considerare “concluso” l’affare al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione?


Se, come abbiamo visto, il fondamento del diritto al compenso è da ricercarsi nel fatto che l’attività di mediazione, concretatasi nella messa in relazione delle parti, costituisca l’antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione dell’affare, ben si potrà considerare integrata la conclusione dell’affare conclusione dalla stipula del contratto preliminare di vendita intervenuta fra le parti, giacchè obbliga le parti alla stipula del successivo definitivo, essendo indifferenti le vicende successive, non attribuibili all’attività del mediatore, quali, ad esempio, la mutata volontà dei contraenti o la scadenza del mandato conferito all’agente.

 

 


Un’interessantissima e recente sentenza della Suprema Corte non solo ha ribadito con rigore l’approdo appena enunciato, ma anche ha posto particolare attenzione su un altro aspetto che contraddistingue non solo la mediazione, ma anche qualsiasi contratto, specie nella sua interpretazione: la buona fede.


Il caso posto al vaglio degli ermellini riguardava il diritto o meno del mediatore alla provvigione nell’ipotesi in cui il contratto definitivo non fosse stato stipulato, malgrado fosse intervenuta la sottoscrizione del preliminare e le parti avessero inserito nel mandato conferito al mediatore l’inciso secondo cui restava “ inteso che il compenso non sarà dovuto in caso di mancata vendita”.


Come possiamo immaginare, da una parte il mediatore reclamava la provvigione in forza della stipula del contratto preliminare, a prescindere dal rogito successivo, mentre le parti contraenti adducevano che nulla fosse dovuto proprio in virtù della mancata vendita.


Ebbene la Suprema Corte ha statuito che l’interpretazione di tale clausola contrattuale dovesse avvenire secondo il criterio della buona fede, cioè, della reciproca lealtà di condotta, che deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase.


In buona sostanza, osserva la Cassazione, appare ragionevole ritenere che l’espressione “(…) il compenso non sarà dovuto in caso di mancata vendita” debba essere intesa quale vendita non in senso giuridico ma in senso economico quale mancata conclusione dell’affare.


Un affare che, come abbiamo sopra appurato, ben si potrà considerare concluso con la semplice stipula del preliminare, a prescindere dagli esiti del successivo rogito.

 

La Sentenza Cassazione Civile, Sez. VI-2, 18 settembre 2017, n. 21575

 

 

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Le distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

Le distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

La recente Legge di conversione del DL 32/019 c.d. “sblocca cantieri” ha aggiunto all’art. 2 bis del testo unico edilizia (DPR 380/2001) il comma 1 ter, in base al quale “in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”.

 

In sostanza, è possibile demolire e ricostruire un fabbricato, nel rispetto delle distanze preesistenti, qualora vengano mantenuti l’area di sedime, il volume e l’altezza del fabbricato preesistente.

 

 

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distanze da applicare in caso di demolizione e ricostruzione di un fabbricato

 

La disposizione in esame si è resa necessaria il quanto il concetto di ristrutturazione, attraverso la demolizione e ricostruzione, si è “allargato” nel tempo.

Nell’ambito dell’art. 3, comma 1 lettera d) del Dpr 380 del 2001, infatti, sono presenti due distinti tipi di ristrutturazione:

– la ristrutturazione “conservativa”, che può comportare anche l’inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma;

– la ristrutturazione edilizia cd “ricostruttiva”, attuata mediante demolizione, anche parziale, e ricostruzione, nel rispetto del volume, con la conseguenza che, in difetto, viene a configurarsi una nuova costruzione.

Tali tipologie di ristrutturazione sono identiche quanto alla finale realizzazione di un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” ma differiscono per la presenza (o meno) della demolizione (anche parziale) del fabbricato preesistente.

Quest’ultima, ove effettuata, nel testo originario dell’art. 3, doveva concludersi con la “fedele ricostruzione di un fabbricato identico”, al punto da avere identità di sagoma, volume, area di sedime e, in generale, caratteristiche dei materiali.

Le leggi che poi si sono succedute nel tempo (dapprima il DPR 27.12.2002, n. 301 e poi il D.L 21 giugno 2013 n. 69, convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98) hanno apportato alla definizione alcune modifiche con il risultato attuale che, nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quella preesistente… 

In sostanza, con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”.

 

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Dalla ricostruzione normativa sopra riportata emerge dunque che, allo stato attuale, si può avere ristrutturazione anche qualora la ricostruzione a seguito della demolizione avvenga senza rispettare la sagoma e l’area di sedime originarie. Può accadere, infatti, che nel rispetto del volume preesistente, la ricostruzione venga ad occupare aree lasciate libere dalla costruzione preesistente.

In tal caso, però, la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato 4728/2017) aveva anticipato la disposizione normativa prevista dal decreto “sblocca cantieri” stabilendo che

– nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso – proprio perché coincidente per tali profili con il manufatto preesistente – potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze ora vigenti, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze ( e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa);

–  invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso – quanto alla sua collocazione fisica – rappresenta un qualcosa di nuovo, come tale tenuto a rispettare – indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione o nuova costruzione- le norme sulle distanze.

 

 

 

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Per aprire una finestra è necessario il permesso di costruire

 

Per aprire una finestra è necessario il permesso di costruire.

 

E’ quanto stabilisce il TAR Lazio in una recente sentenza (n. 7818 del 17 giugno 2019) dove ha affrontato il caso di un condominio che aveva realizzato una porta sul prospetto posteriore del fabbricato, con affaccio sul cortile interno, di accesso secondario al medesimo. Il Comune ne aveva ordinato la demolizione perché la porta era stata realizzata senza preventivo permesso di costruire.

 

Per aprire una finestra è necessario il permesso di costruire

 

Il TAR ha rilevato che l’apertura di porte e di finestre sul prospetto di un edificio va sempre qualificato come intervento di ristrutturazione edilizia comportante modifica dei prospetti, assoggettato (tuttora) al regime del permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, primo comma, lett. c), del D.P.R. 6 Giugno 2001 n. 380.

 

Quest’ultimo articolo, in effetti, stabilisce che costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire:

gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni.

 

 


Da notare però che nella norma in esame la modifica dei prospetti è collegata all’intervento che porti ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.

Se si modifica solo il prospetto e non il fabbricato quanto stabilisce il TAR sembra eccessivo.


Infatti, va notato che ai sensi dell’art. 22 del Testo Unico Edilizia possono essere realizzati tramite scia gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d) del DPR 370/2001 che comprende anche gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del fabbricato preesistente.

Se, dunque, tramite semplice Scia è ora possibile addirittura demolire e ricostruire un fabbricato, non pare condivisibile che per l’apertura di una finestra sia necessario il permesso di costruire.

 

 

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Per aprire una finestra è necessario il permesso di costruire

Il testamento può revocare i beneficiari dell’assicurazione sulla vita?

 

La risposta è affermativa: il testamento può revocare i beneficiari dell’assicurazione sulla vita, ma a volte le cose sono più complicate di quanto sembri.

 

Limitare il dono in anticipo dicendo: arriverò fin lì, ma non oltre, significa non dare assolutamente nulla.
SAN FRANCESCO D’ASSISI

 

Se il poverello d’Assisi avesse considerato anche l’ipotesi in cui il dono, oltre ad essere limitato, si fosse potuto anche revocare, è proprio il caso di dirlo, “apriti cielo”.

 

L’assicurazione sulla vita a favore di terzi, configuriamola giuridicamente come donazione oppure no (che dibattito al riguardo!), è un sicuro beneficio per i soggetti designati.

 

 


Ma può essere revocato, indicando altri beneficiari.


Facciamo il punto.


La legge dispone che sia “valida l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo”. Art. 1920 cc.

 

Come si può effettuare la designazione?

 

  1. Direttamente nel contratto di assicurazione 
  2.  con successiva dichiarazione scritta comunicata all’assicuratore 
  3. per testamento.

 

Cosa deve indicare la designazione?

 

Le possibilità sono due: o il disponente esprime precisamente l’esatto identificativo del beneficiario, oppure può determinarlo genericamente (ad esempio, gli eredi legittimi).

 

Il disponente può cambiare idea e revocare / modificare i beneficiari?

 

Può farlo: la designazione del beneficiario è revocabile con le forme con le quali può essere fatta. Si noti, non è necessario che ci sia esatta corrispondenza tra le modalità prescelte per la designazione e quelle di revoca, ma che quest’ultima sia effettuata o tramite modifica contrattuale, o tramite comunicazione scritta all’assicurazione, oppure per testamento.

 

Che tipo di diritto acquisisce il beneficiario?


Innanzitutto, fino al verificarsi della morte del disponente non acquisisce che una semplice aspettativa. Aspettativa che può essere disattesa dalle mutate volontà del soggetto che abbia inteso beneficiarlo.


Questo tipo di contratto è particolare rispetto al generico contratto a favore di terzi, ove l’accettazione della disposizione effettuata dal beneficiario rende irrevocabile l’assegnazione.

Qui l’eventuale accettazione non comporta alcunchè ed il disponente può mutare indicazione, fatta eccezione per l’ipotesi in cui egli stesso abbia rinunziare al potere di revoca. In questo caso tale determinazione dovrà avere forma scritta e vincolerà la designazione una volta che sarà stata accettata.

Gli eredi del disponente non possono modificare la designazione.


Va, anche, sottolineata una circostanza di vitale (stiamo parlando di assicurazione vita) importanza per quanto oggi ci troviamo allegramente a discutere. “Per effetto della designazione il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione”: art. 1921 cc.

Cosa vuol dire?


Che il beneficio che ne sarà conseguito non avverrà iure hereditatis, a titolo e secondo le leggi della successione, bensi iure proprio, ossia in virtù di un contratto, a suo favore, tra vivi.

Cosa cambia?

Che il gruzzolo di cui all’assicurazione non transiterà nel patrimonio da tenersi in considerazione ai fini dell’eredità, essendo semplicemente l’oggetto di un’obbligazione, esterna al fenomeno successorio, a favore del beneficiario, a cui direttamente andrà assegnato l’importo, in barba agli eredi.


Questi ultimi potranno avanzare eventuali recriminazioni in relazioni ad eventuali lesioni della loro quota di legittima solamente con riferimento agli importi pagati dal defunto a titolo di premio di polizza. Tali somme, e non l’indennità successiva, potranno essere considerate delle donazioni indirette, in quanto tali eventualemente riducibili (cass. Civ. 26606/2016)

 

il testamento può revocare i beneficiari dell’assicurazione sulla vita

 

Ed ora arriviamo al guazzabuglio.

 

Mettiamo che il disponente abbia indicato come beneficiari i propri “eredi legittimi”, ma che poi, per testamento, abbia nominato un diverso erede universale: chi sarà il beneficiario della polizza?


Gli eredi legittimi, indicati nella designazione, oppure l’erede testamentario, divenuto unico erede, bypassando quelli che avrebbero avuto titolo per successione legittima?


Ce lo dice la Cassazione, con una recentissima ed interessantissima pronuncia. (n. 25635/2018)


Se si considera che il beneficario dell’assicurazione acquista un diritto personale, svincolato dal fenomeno successorio, l’indicazione dei beneficiari nella persona degli eredi legittimi non vale a sottoporre la vicenda contrattuale sotto l’egida della successione, in quanto è semplicemente un modo di individuare i soggetti a vantaggio dei quali andrà la disposizione: né più né meno.


Ben potranno coesistere, pertanto, la figura dell’erede universale, che sarà destinatario del patrimonio lasciato dal defunto, e dei beneficiari dell’assicurazione, individuati in coloro che sarebbero stati gli eredi legittimi se non ci fosse stato il testamento, a prescindere dal fatto che, con tale atto, possano essere stati estromessi dall’eredità.


Nè si potrà rinvenire nella disposizione testamentaria successiva alla designazione dei beneficiari come revoca di quest’ultima.


Al riguardo gli ermellini sottolineano che si potrebbe addivenire ad un simile risultato se nel testamento si fosse inteso far espresso riferimento ai nuovi beneficiari dell’assicurazione. In difetto, l’istituzione di erede testamentario non vale a revoca di designazione, tacita o espressa come la si voglia intendere.


Quanto spetterà agli eredi legittimi, indicati come beneficiari dell’assicurazione?


Proprio per il fatto che essi acquistano un diritto personale e non successorio, le regole della successione legittima si applicheranno solo per individuare i possibili eredi legittimi beneficiati, ma non troveranno richiami le quote (eventualmente diverse) che la legge per esse contempla.
In poche parole, a meno che il disponente non abbia disposto suddivisioni particolari, agli eredi legittimi spetterà la medesima quota di indennità.

 

 

 

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